Interventi
1. Il testo, come vedremo subito, è direttamente in sintonia con il tema monografico di questo numero della rivista, visto che fa a più riprese riferimento a certa polemologia italiana degli ultimi decenni. L’intento del libro, dichiarato sin dal primo capitolo, è interessante: “afferrare il senso della differenza italiana”, sul presupposto di una originalità e peculiarità che la filosofia italiana contemporanea mutuerebbe da una precisa tradizione nazionale, che il libro si ripromette di ricostruire e valorizzare. Certo si tratta di verificare intanto quale sia questa “italian theory” (quali autori, quali filoni, quali temi), poi se regge la ricostruzione storico-filosofica che ne legittimerebbe la genealogia. Per la verità ci sarebbe anche il problema della effettiva originalità di una certa lettura, perché intanto il concetto di “differenza italiana” è espressamente presente in un breve saggio di Toni Negri del 2005 (dove già si parlava di un qualche ‘primato’ del nostro pensiero, di una dottrina meta-politica della politica, di una critica radicale della dialettica, ecc.); quanto poi alla “biopolitica”, uno degli atout di Esposito, si riconosce la primazia di Foucault (cfr. p. 251) e dunque si rimanda ad una fonte estera e piuttosto in là nel tempo. Tanto più che rispetto a quest’ultimo fenomeno Esposito (e gli altri affiliati della “biopolitica) eccede in uno Jargon da astanteria fatto di “sanità”, “malattia”, “immunitario”, “profilassi” et similia che denota subito in maniera tanto più provinciale la cosiddetta “differenza italiana”. Su queste basi non sorprende poi la singolarità della rilettura della tradizione moderna italiana proposta da Esposito che, oltre Foucault, si mostra debitrice in modo determinante anche da una certa lettura di Nietzsche e Schmitt. In ogni caso, per filosofia italiana corrente, capace addirittura di “orientare, almeno per certi versi, il dibattito internazionale”, Esposito finisce con l’intendere solo “nichilismo e biopolitica” (p. 5). Cioè finisce per la coincidere con se stesso, con la sua qualsiasi filosofia e poco altro (ad esempio l’“operaismo”, singolarmente definito “filone più teoreticamente innovativo” della filosofia italiana degli anni ’60 e ’70 – p. 26). Opinabile è poi anche il taglio della ricerca. In effetti alla pur articolata ricostruzione di Esposito manca ogni trattazione adeguata del pensiero di Cacciari, di Sasso, di Emo, di Severino. Praticamente un trattato di filosofia italiana contemporanea senza filosofia italiana contemporanea. Né possono convincere le ragioni avanzate (per altro non nel libro in questione) per giustificare una tale amputazione; men che meno quelle esposte nell’intervista a “Repubblica” del 14 settembre 2010, nella quale Esposito sostiene di non trattare di Severino perché “gli sembra che la sua filosofia abbia poco a che vedere con i caratteri costitutivi del pensiero italiano”. E con i “caratteri costitutivi” di quale pensiero avrebbe a che fare? L’“italian theory” farebbe bene prima a studiarla la filosofia italiana. Perché senza Severino, Sasso o Cacciari, resta ben poco; qualche storico della filosofia, qualche professore universitario, qualche medico condotto mancato. Su certe basi non si può ricostruire nessun serio e alto profilo storico-teoretico della filosofia italiana di oggi. Prima di vedere più da presso quelle che sarebbero le origini remote della scuola di pensiero che si cerca di accreditare, alcune considerazioni sui caratteri che la farebbero originale sul piano internazionale. Nonostante tutti i detti debiti, quella italiana sarebbe una filosofia non astratta, non razionalista in senso cartesiano, ma portatrice almeno dal XVI secolo di un taglio peculiare, di una “estroflessione” sul mondo esterno, di una “origine” per sua natura ulteriore rispetto alle mere forme del pensiero. In questo senso Esposito parla a più riprese di “attualità dell’originario” (p. 24), intendendo la persistenza dell’elemento a-razionale presso ogni manifestazione del pensiero e della realtà, anche la più prossima a noi. “L’intero pensiero italiano, da Bruno a Leopardi, cerca nella sapienza degli antichi le chiavi di interpretazione di ciò che è più prossimo” (p. 24), cerca in altre parole una modernità autre rispetto a quella razionalista. Questa tesi, di una generica “differenza italiana” rispetto alle altre modernità, in sé potrebbe anche risultare interessante; ma di nuovo è il merito della differenza a fare problema. Nel senso: davvero il tratto peculiare della modernità italiana è l’irrazionalismo? Davvero la nostra “origine” è in un “magma preriflessivo” (p. 24), in una “dimensione eroica e profetica” (p. 20), cui si pretende di iscrivere tutti: da Dante a Machiavelli a Vico a Mazzini? Davvero essa presuppone una concezione ‘barbara’ del “conflitto”, inteso come scontro fra “alternative non mediabili che reclamano una decisione” (p. 26)? Davvero Leopardi può essere considerato un ‘irrazionalista’? A noi risulta tutt’altro. Che la sua sia in verità una critica del moderno. Ma critica moderna del moderno. Non passatista, non irrazionalista. Del resto il suo anti-romanticismo sta a dimostrarlo. Né sarà un caso se presi due dei suoi maggiori studiosi novecenteshi, l’uno, Sebastiano Timpanaro, definì Leopardi “razionalista” e “progressista”, per l’altro, Cesare Luporini, Leopardi “si confermò, da ultimo quasi con accanimento, nei princípi del ‘700”. La verità è che Esposito e i provinciali aedi del “biopolitico” (e/o “italian theory”) realizzano una insidiosa irrazionalizzazione del paradigma italiano. Il conseguente accreditamento di una pretesa “differenza italiana” ha per altro effetti perversi anche nel dibattito contemporaneo sulla crisi della politica. In primis accredita una concezione della politica in verità impolitica, cioè come scontro non mediabile, suscettibile solo di “decisione”. Concezione anche qui d’importazione, di acritica importazione della riflessione di Carl Schmitt. Questa sì che ha avvelenato il dibattito pubblico italiano degli ultimi trenta anni. Bisognerebbe avviarsi a superarla, non riproporne ancor deteriori varianti postmoderne. Una cosa comunque è chiara: Machiavelli, Leopardi e Gramsci con tutto questo non hanno nulla a che vedere. È scorretto e falso sul piano scientifico appenderli a idee che non erano le loro. Se si ha a cuore la “differenza italiana” si contribuisca a ristabilire la verità sui nostri classici. Ad esempio dire che per Gramsci la politica è “lotta senza quartiere per l’egemonia” (p. 26) è profondamente sbagliato, perché dal pensatore sardo l’“egemonia” era concepita proprio di contro alla “lotta senza quartiere”. Se avesse voluto la “lotta senza quartiere” si sarebbe appiattito sullo stalinismo (che di requie all’avversario certo non ne dava) e invece l’“egemonia” fu concepita in vista del contrario dello stalinismo, cioè della “rivoluzione in Occidente”. “Egemonia” e “lotta senza quartiere” si elidono. Questa sì che è l’originalità di Gramsci. Questa una “differenza italiana” (rispetto al comunismo staliniano) che andrebbe apprezzata. Il rischio
invece di interpretare Gramsci partendo da premesse estrinseche, porta con sé quello più in generale di un deragliamento provinciale, che effettivamente è sotteso all’intero ragionamento di Esposito. Ma il rischio comincia ad aleggiare già sull’interpretazione di Machiavelli, la cui concezione della politica Esposito appiattisce su una malintesa critica della filosofia moderna; se questa infatti “si è costituita come un insieme di protocolli astratti” (p. 48), Machiavelli avvalorando il “non filosofico”, il reale, la “materia”, ecc., disporrebbe “un pensiero radicale dell’esistenza nella sua inevitabile dimensione contrastiva” (p. 50), cioè conflittuale. Ma per fondare il conflitto non è affatto necessaria una ontologia quale quella che Esposito pone alla base della politica machiavelliana2, né una del tutto speculare ipostatizzazione della differenza3. Né assolutizzazione dell’essere, né assolutizzazione della differenza. Se si vuole la politica. Del resto Esposito oppone Machiavelli allo Hobbes dell’Homo homini lupus, ricordando al pensatore inglese che “il lupo fa parte dell’uomo, come la natura della civiltà” (p. 52); il che è giusto, ma vale anche per gli interpreti che di Machiavelli ipostatizzano il momento “contrastivo”. Infatti lupo nell’uomo e natura in civiltà significano che il negativo costituisce il positivo, che il non-essere inerisce originariamente all’essere; una situazione logica fondabile e pensabile solo in termini dialettici. Senza i quali non si capisce Machiavelli e comunque non si capisce la politica. Così dire che “l’ordine, in Machiavelli, è di per sé conflittuale” (p. 55), cioè che politica e immanenza si coappartengono, come anche organo e funzione, è giusto, ma anche qui spiegabile solo nel senso che la differenza è originariamente compatibile con l’identità (tanto che anche Esposito dice che “il conflitto è ordinato da meccanismi istituzionali a ciò preposti”); insieme costituiscono gli elementi indispensabili del divenire sociale e politico. In questa chiave l’appiattimento di Machiavelli su Spinoza (cfr. p. 55), sulla radicale teoria della differenza e della trascendenza del filosofo olandese, non è opportuno e, lungi dall’accreditare un altro importante momento della “differenza italiana”, ottiene l’effetto contrario di un riduzionismo su elementi precipuamente anti-italiani. Tanto più che parlare della politica di Machiavelli come “ontologia a carattere binario” (p. 57) è un ossimoro. Né sorte migliore spetta a Giordano Bruno. Il suo preteso esser “contro ogni tipo mediazione” viene definito con le stesse parole appena usate: “prima ontologia moderna della differenza e della pluralità” (p. 62). Avevamo capito che la prima era quella di Machiavelli, ma comunque si tratta di un ossimoro così prima come dopo. Ancora una volta su tutto domina l’equivoco di fondo. Esposito infatti dopo aver teorizzato la scissione assoluta (che “la differenza acutizza nella figura della contrarietà”) come essenza della “vita”, aggiunge che “la vita è l’impulso perenne che congiunge, e poi di nuovo disgiunge, sul piano orizzontale e verticale, polarità di volta in volta contrastive” (p. 63). Dunque differenza e però anche unità, “polarità” che si “congiungono” e, poi, si “disgiungono”. È la conferma, per quanto preterintenzionale, che di una certa situazione teorica solo la dialettica può dare davvero conto, altrimenti si gioca con le parole (come quando si parla imperativamente di un conflitto “contro ogni tipo di mediazione”; ma conflitto senza mediazione non è politica). Un capitolo a parte è poi dedicato alla Battaglia di Anghiari, celebre dipinto di Leonardo andato perduto, ma parzialmente conosciuto per alcuni schizzi, riproduzioni e testimonianze. Esposito lo interpreta come rappresentazione della “lotta in quanto tale”, la guerra come “assoluta e perciò irriducibile contesa” (p. 91). Si capisce subito quale sorte aspetti Leonardo: la stessa di Machiavelli. Da una parte infatti Esposito insiste sulla “postura animalesca” e la “violenza bestiale” rappresentata da Leonardo, poi però parla di “reciprocità” e di “indisgiungibilità dell’attacco e della difesa, dell’‘offendere e del difendere’” (p. 93). Occorre quindi ripetere: se si assolutizzano i termini della differenza e perciò si esce dalla dimensione politica della differenza, poi non si può parlare di “indisgiungibilità” dei termini stessi e dunque di differenza relativa, politica appunto. O l’una o l’altra. “Postura animalesca” e politica (come del resto guerra convenzionale e guerra totale) non possono stare insieme. Questa aporia teorica tiene il libro di Esposito costantemente appeso a giudizi e valutazioni inconciliabili. Qualcosa del genere avviene anche con riferimento a Leopardi. Esposito parte da un presupposto: c’è “rottura frontale” fra Leopardi e la modernità. Dove la modernità viene fatta puntualmente coincidere, secondo le interpretazioni correnti (e corrive), con il mero razionalismo, con la tirannia del formalismo, del logicismo, ecc. Di conseguenza si schizza il profilo di un Leopardi anti-moderno. Appunto perché nemico del razionalismo, del progressismo, ecc. Abbiamo già visto come Timpanaro, ma anche un altro grande interprete come Walter Binni, abbia sempre negato queste semplificazioni. Invitando semmai alle distinzioni. È vero che Leopardi è nemico di quanti puntano a “geometrizzare tutta la vita” ma questo non autorizza a irrazionalizzarlo. Critica del razionalismo non è affatto irrazionalismo. Che la “vita” non sia “tutta” geometrizzabile, significa che in parte lo è, cioè che la ragione ha un ruolo importante, non esclusivo ma importante, nella nostra esistenza4. Leopardi non è Nietzsche (anzi Timpanaro e Severino scrivono a chiare lettere che Nietzsche ha plagiato Leopardi e certo non solo per la parte filologica). E invece per il piano inclinato su cui lo pone Esposito, la fine è quella. Quella della romanticizzazione di un autore il cui anti-romanticismo era non meno intenso dell’anti-illuminismo. E non solo Leopardi, se addirittura De Sanctis, a dispetto delle sue riflessioni affatto idealistiche e storicistiche sul nesso di “scienza” e “vita”, viene inchiodato ad una “affinità elettiva” con le Considerazioni inattuali di Nietzsche (cfr. p. 133)5. Anche qui non si vede dove sia la “differenza italiana”, semmai pare definirsi una subordinazione, una omologazione (anti-)italiana. Spunti interessanti vengono invece dalla trattazione di Gentile e di un aspetto peculiare del pensiero di Gramsci. Del filosofo siciliano è còlta correttamente la dialettica. “Pensiero in atto” è effettivamente un modo per dire che la “prassi” non è vieta fatticità, ma incorpora “insieme all’oggetto, anche il soggetto dell’agire” (p. 170); il quale ultimo a sua volta non è un dato, né fisico né sociale, ma è un “‘farsi’ che continuamente lo proietta oltre se stesso”. Questa però è appunto dialettica, che sola può spiegare che “il negativo coincide, fin dall’inizio, col positivo” (p. 172). “Dall’inizio”, cioè appunto originaria, è l’identità di negativo/positivo, essere/non-essere. Un dato però che una volta acquisito avrebbe dovuto essere applicato all’intera “filiera” ricostruita da Esposito. Vero poi che in Gentile c’è una pulsione ‘totalitaria’ che lo spinge ad annullare il relativo nell’assoluto, in una “unità indifferenziata”. Perché c’è in effetti una ontologizzazione della dialettica gentiliana operata da Gentile stesso. Ma questo è un ‘tradimento’ dell’idealismo ad opera dell’attualismo, che non ultimo implica un superamento dell’“immanenza assoluta” delle origini, a favore di una trascendente “soggettività indifferenziata” (p. 177) ovvero di un “residuo di trascendenza” (p. 178) che anzi secondo Gramsci, giustamente richiamato a quest’altezza, accomunerebbe Gentile e Croce. Ma il ‘tradimento’ attualista dell
’idealismo non può essere imputato all’idealismo. Comunque il rimando a Gramsci è giusto perché il suo “anti-Gentile” e “anti-Croce” va inteso correttamente come fondazione del nesso fra politica e immanenza, liquidando i “residui di trascendenza” di Gentile o gli scarti anti-politici di Croce (cfr. p. 179). Ma questo può avvenire perché la “filosofia della praxis” ha una precisa radice dialettica, come stavolta riconosce anche Esposito: “della dialettica hegeliana Gramsci mette l’accento precisamente su quell’elemento -l’antitesi- che Gentile tende, non a neutralizzare o a mediare, come faceva Croce, ma tout court a sopprimere nell’apriorità della sintesi” (p. 181). Il che poi, sul piano politico, aveva spinto Gentile a trascendere il conflitto, in nome di una “tendenza mistica, e dunque teologico-politica”, la cui conseguenza inevitabile sarebbe stato il fascismo. E del resto proprio questo intendevamo per scivolamento dell’attualismo nell’ontologia (e dunque nel totalitarismo). Indubbiamente Gramsci fu un critico del totalitarismo per ragioni forti, di fondo, perché realizzò che guerra mondiale, comunismo e fascismo erano indici di una crisi dello stato e del sistema costituzionale, particolarmente nella sua dimensione nazionale: “il nazionalismo bellicista e la spinta imperialista sono i modi più brutalmente reattivi con cui la politica europea risponde alla propria marginalizzazione” (p. 185). Ma la brutalità del Rückstoß aveva portato la politica non a riprendersi il suo, ma al contrario a perdersi nell’impolitico totalitario. Per Gramsci si trattava allora di ritrovare il conflitto regolato, cioè politico in senso proprio, in una sfera però che non era più quella nazionale, ma “cosmopolitica”; per questo la stessa arretratezza italiana, la mancanza di una compagine istituzionale e civile forte, poteva essere una risorsa, non nel senso del nazionalismo fascista, ma proprio perché “il popolo italiano è quel popolo che ‘nazionalmente’ è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo” (cit. a p. 188). Vero tutto questo, non si vede però come Esposito possa poi sdraiare Gramsci (ma certo anche Croce) sul letto di Procuste dei suoi pregiudizi. Se Gramsci ha riscoperto la dialettica nella quale l’“antitesi” non è “neutralizzata” come da Croce, né “soppressa nell’a priori della sintesi” come da Gentile, come si fa poi a dire che anche in lui “la pluralità degli interessi” viene “neutralizzata in una sintesi a priori che non lasciava spazio alla differenza e al conflitto” (p. 207)? Davvero uno stravolgimento ermeneutico, grave da un punto di vista scientifico, ma potrebbe dirsi persino morale. Esposito ha bisogno di dire che la filosofia italiana dopo la morte di Gramsci, Gentile e Croce subisce “una netta inversione di tendenza”, dalla negazione del conflitto (assurdamente attribuita alla dialettica e all’idealismo, quando invece è pertinenza esclusivamente dell’attualismo, che per questo va isolato, con confuso con il resto), alla sua presunta riscoperta. Riscoperta da parte di chi? Dei pensatori che più piacciono a Esposito stesso. Che forte di questa personale convinzione si sforza di accreditarla. Così saltando a piè pari le maggiori figure e correnti del dopoguerra italiano arriva a Operai e capitale di Tronti. Qui trova ciò che cerca: la critica della dialettica, una dottrina astratta della differenza, una teoria forte del conflitto, la “separazione violenta di qualcosa, nella fattispecie la classe operaia, dall’orizzonte storico che soltanto può renderla tale” (p. 208). Vittima di nuovo Gramsci. Viene considerato infatti il capostipite di una “tradizione” (quella del PCI) fondata su un “modello sintetico”, definito addirittura “teologico-politico”, entro cui sarebbe stata “chiusa la dialettica tra capitale e lavoro” (p. 208). Ora a parte che definire “teologico-politica” (e segnata da una “tendenza mistica”) la cultura di un Togliatti o di un Amendola è solo che sconcertante, ma poi subito dopo Esposito aggiunge che la dottrina astratta del conflitto cui si rifaceva invece l’operaismo assumeva “il criterio schmittiano del primato ontologico del nemico rispetto all’amico” (p. 208; ma cfr. anche p. 210). Ma “teologia politica” è la cultura del PCI o quella dei suoi critici? O indifferentemente l’una e l’altra? A noi pare che teologico e mistico sia proprio il modo di ragionare di Esposito. Non a caso ai tentativi di omologazione tentati dal capitale, la classe operaia dovrebbe reagire con un esodo (direbbe Negri) dalla politica, cioè recuperando un conflittualismo fine a se stesso, senza mediazione, senza istituzioni, senza organizzazione, tanto che si dice espressamente che la classe dovrebbe sottrarsi “alla negoziazione portata avanti dal proprio partito o sindacato“ (p. 209). Più che contrapporre la Politica all’Economico questa è una dislocazione metapolitica, che per altro si conclude con un inusitato grido di battaglia: “è la guerra, non la pace, la categoria politica della classe operaia” (p. 209). Non lo sapevamo. Il punto teorico irrisolto è quello del rapporto fra conflitto e immanenza. Infatti se non viene pensato in termini dialettici, come Tronti ed Esposito si rifiutano di fare, poi lo squilibrio è assicurato e si perde o l’un termine o l’altro. Tanto che Tronti, dopo aver radicalmente teorizzato l’autonomia della classe, negli anni seguenti ha fatto oscillare il pendolo dall’altra parte, cioè è arrivato “a ribaltare il rapporto di prevalenza tra classe e partito, attribuendo a quest’ultimo l’autonomia che un tempo assegnava alla prima” (pp. 211-212). Esposito qui denuncia “contraddizione” e “aporia” e addirittura un ritorno di “trascendenza”, invero confermato dal Tronti degli ultimi anni. Ma quello che si tratta di capire è che questi esiti aporetici e trascendentisti sono inevitabili, necessari, se si pretende di fondare vita e politica sulla differenza assoluta, su un conflitto assolutizzato nella sua essenza e nel suo significato. Non diverso il discorso che deve riguardare l’“impolitico” di Cacciari (unica parte della riflessione dell’intellettuale veneziano presa in considerazione nel libro). Anche qui si tratta di una negazione integrale di tutte le categorie, istituzioni, organizzazioni e ideologie della politica, per lasciare il campo alla solita differenza assoluta, cioè al mero “conflitto di potere e di interesse” (p. 215). Ma può esistere politica senza categorie della politica? Questo è il punto teorico decisivo che un certo milieu politico-culturale, particolarmente influente in Italia, elude (e nei rari casi in cui invece risponde positivamente alla domanda fa rimpiangere di non averla elusa). Esposito sostiene che “l’impolitico tende all’infinito a coincidere con quel realismo politico portato alla sua massima radicalità da Machiavelli” (pp. 214-215); ma a noi non risulta che Machiavelli pensò mai ad una politica senza politica, ad una politica senza istituzioni e soggettività, sia individuali che organizzate; certamente non nei Discorsi, che è la più politica delle opere politiche machiavelliane. Il “realismo politico” di Machiavelli è politico. Che poi è come dire: chi non capisce che la politique è sempre politicienne non capisce di politica. E si espone anche in questo caso a quello scadimento nel trascendente che anche Esposito segnala (cfr. p. 216). Mutatis mutandis anche per un terzo esponente dell’operaismo italiano come Toni Negri, vale il discorso critico fin qui proposto. Vero che Negri si distingue da Tronti, soprattutto dall’ultimo, per la netta scansione rispetto alle forze classiche del movimento operaio italiano e per una filiera Machiavelli-Spinoza-Marx diversa da quella Machiavelli-Hobbes-Schmitt di Tronti, ma l’impianto è lo stesso e le conseguenze fondamentali le stesse. Anche in Negri è infatti netta la ripulsa della dialettica, con conseguente opzione per l’ontologia, per una monade (Spinoza) sociale (Marx). E per quan
to distinto, del tutto speculare è l’esito: in entrambi i casi scissione, differenza inconciliabile, impossibilità della mediazione politica. Diciamo che se l’ultimo Tronti “tra immanenza e conflitto sceglie il conflitto perdendo l’immanenza, Negri, al contrario, sceglie l’immanenza sacrificando la forma politica del conflitto a favore dell’essere sociale” (p. 222). Ma appunto il risultato è un “essere sociale” assolutamente dislocato rispetto alla politica; dislocato e irrelato (e questa a quello). Che poi una tale “ontologia” abbia in Negri un carattere “immanente” rispetto a quella di Tronti ormai “trascendente” (p. 222), ha per noi importanza relativa. Perché la sua (e quella dei movimenti, della “autonomia operaia”, oggi della “moltitudine”, ecc.) distanza dalla politica è quanto di più “trascendente” si possa immaginare (entro almeno un discorso intorno al senso della politica). Esposito fa poi bene qui a notare che ragionando in modo siffatto, cioè negando tutte le categorie della politica (certo non “del Politico”), a cominciare da quella di “sovranità”, Negri “finisce per perdere, con la sovranità, anche un soggetto politicamente determinato -di spezzare il rapporto tra politica e soggettività” (p. 223). Come dire “perde” quella politicità senza la quale la politica non è (questo intendevamo per politique necessariamente politicenne). Questo tanto più che Negri stesso ha riconosciuto direttamente il destino irriducibilmente metapolitico del suo filosofare, laddove già nel 2000 scriveva che “ora, nel postmoderno, quella primarietà ontologica è assoluta, perché l’ontologia ha assorbito il politico” (cit. p. 224). Esposito si avvia alla conclusione con una domanda di carattere generale: “ma una volta risucchiata nell’ontologia, quale determinatezza resta alla politica?” Decisamente nessuna. Ontologia e politica si elidono, secondo per altro una nostra radicata convinzione. Del resto anche vista dall’ultimo pensatore di un certo rilievo della destra italiana come Augusto Del Noce, la situazione non è tanto diversa. Il suo sì che è un punto di vista “teologico-politico”, non quello “neoidealista” come insiste nel dire Esposito (cfr. p. 229). Ed è teologico-politico appunto perché, implementando trascendenza e politica, annulla la politica, ne corrode la ragion d’essere specifica e la riduce a conflitto terroristico: “una battaglia senza esclusione di colpi che ha come unico esito possibile la distruzione dell’altro o l’autodistruzione” (p. 229). Si può anche definire “transpolitico” questo punto di vista, purché sia chiaro che significa anti-politico. Del Noce è un pensatore intimamente del ‘900, cioè del secolo dei totalitarismi; ma certo lo sono anche gli autori da ultimo richiamati da Esposito. La parte finale del libro è, come inevitabile, sulle tesi sostenute direttamente da Esposito; quelle raccolte intorno al tema della “communitas”. Afferma di ispirarsi alle riflessioni dei francesi (da Bataille a Nancy), ma passando per Heidegger, in genere alla critica “di ogni metafisica sostanzialistica”, cui oppone “la pura relazione, sempre singolare e plurale, e perciò irriducibile a un’unità presupposta” (p. 244). Il libro finisce dunque con l’aporia di partenza: può darsi “pura relazione”, cioè relazione immediata? Può darsi relazione che non sia non-relazione? Quella che manca a questi pensatori è una seria riflessione sull’arduo ma inaggirabile problema della possibilità di qualcosa come una mediazione immediata o relazione irrelata. Perché se invece si sceglie di avviarsi su certi sentieri interrotti il prezzo che si paga è lo scadere proprio in quella ontologia (i.e. ipostatizzazione dei singoli termini della “relazione” irrelata), per altro indedotta perché presupposta, che pure si vorrebbe evitare.

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