Pubblichiamo l’audizione di Claudio De Fiores, tenuta alla Camera dei deputati il 4 marzo sull’autonomia differenziata. Il primo ciclo di audizioni al quale hanno preso parte anche la prof.ssa Camilla Buzzacchi, e i professori Lorenzo Chieffi e Nicola Grasso si è chiuso con la reazione stizzita e di impronta marcatamente razzista del Ministro Calderoli contro «certi professori di sinistra con l’eterno chiagn e fotte di partenopea memoria». L’ennesimo attacco– in poco tempo – sferrato contro il diritto al dissenso e la libertà della cultura. Al nostro vicepresidente Claudio De Fiores e a tutti gli auditi esprimiamo la piena solidarietà del Centro per la Riforma dello Stato.
1. Ringrazio la Commissione Affari costituzionali per avermi invitato a prendere parte a questo ciclo di audizioni sul disegno di legge C. 1665, approvato dal Senato, recante “disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
Questione, quella dell’autonomia differenziata, dibattuta da tempo e che oggi trova un nuovo punto di condensazione (sul terreno normativo) nel testo approvato in Senato e ora al vaglio della Camera dei deputati.
In questi mesi il dibattito sull’autonomia differenziata non ha riguardato solo il Parlamento, ma ha investito e sta coinvolgendo vasti settori della società italiana, molto spesso preoccupati per le gravi e pregiudizievoli ricadute che i progetti presentati potrebbero innescare sul terreno dell’eguaglianza dei diritti, sull’unità giuridica ed economica della Repubblica, sulla coesione sociale del Paese.
2. In questa sede vorrei però tornare a insistere su un punto, da me già evidenziato nel corso delle audizioni tenutesi nel maggio dello scorso anno in Senato: i rischi di marginalizzazione del ruolo del Parlamento. Rischi che le modifiche apportate successivamente in Senato non solo non hanno attenuato, ma per taluni versi hanno addirittura aggravato.
Procederei quindi – anche per ragioni di ordine sistematico – a brevi, ma puntuali rilievi aventi ad oggetto le singole disposizioni contenute nel disegno di legge sopra richiamato. E comincerei dall’art. 2. Una disposizione che ci pone al cospetto di un Parlamento inerte ed esautorato nelle sue funzioni normative, al quale è concessa un’unica macilenta opzione: accettare o respingere in blocco l’intesa. Senza alcuna possibilità di poter apportare integrazioni, modifiche, mere correzioni anche di carattere tecnico in qualche punto.
E aver concesso la possibilità alle Camere di esprimersi – preventivamente – «con atti di indirizzo» (art. 2, comma 4) entro novanta giorni (e non più sessanta come previsto dalla versione originaria del disegno di legge); è sicuramente un passaggio degno di nota. Perché riconosce che c’è una falla nel sistema e prova, in questo modo, a tamponarla. Un espediente procedurale senz’altro significativo, del quale si apprezzano le intenzioni, ma che tuttavia non cambia di molto la sostanza delle cose.
Né le modifiche introdotte in via emendativa paiono del tutto rassicuranti su questo terreno. Anzi – come ho già premesso – per alcuni versi accentuano ancor di più le ragioni di preoccupazione. Dal momento che la disposizione in esame, al comma 5, nella sua più recente versione prevede espressamente che «il Presidente del Consiglio dei ministri, ove ritenga di non conformarsi in tutto o in parte agli atti di indirizzo di cui al comma 4, riferisce alle Camere con apposita relazione, nella quale fornisce adeguata motivazione della scelta effettuata». Siamo pertanto in presenza di comunicazioni del Governo. Ma con una singolarità: l’assenza di un dibattito e di un voto.
3. La normativa in esame, dovendo essere approvata nelle forme e nei modi previsti dall’art. 116, comma 3, Cost., tende a configurarsi all’interno del sistema delle fonti come legge rinforzata e pertanto sottoposta a una serie di adempimenti (l’iniziativa della Regione interessata, il coinvolgimento degli Enti locali, l’avvio del negoziato con la Regione richiedente, il voto a maggioranza assoluta). Vincoli procedurali che ne integrano il profilo formale e dai quali discende la sua (potenziata) capacità di resistenza.
Di qui l’emersione di un regime normativo foriero di innumerevoli conseguenze. Una innanzitutto: le leggi rinforzate (in ragione del procedimento di formazione) e le leggi atipiche (in quanto contrassegnate dalla dissociazione tra l’aspetto attivo e l’aspetto passivo della loro forza normativa o – come si suol dire – dalla scissione, a esse sottesa, tra vis abrogans e vis ad resistendum) tendono a produrre nel sistema effetti pressoché permanenti.
Ne viene fuori un sistema blindato (nei confronti del Parlamento), rinforzato nelle procedure, corredato da clausole particolarmente “rigide”. E last, but not least – in quanto generatore di una fonte atipica – non “aggredibile” nemmeno in via referendaria ex art. 75 (sent. n. 16/1978).
Questioni solo in parte affini riguardano anche la cd. legge-quadro di cui si discute in questa sede. Legge pervasa nelle sue complesse disposizioni da ampi e frequenti richiami agli «obiettivi di finanza pubblica», alle norme attuative dell’«equilibrio di bilancio», all’ «andamento del gettito dei tributi». Materie, queste, inibite al referendum abrogativo ex art. 75, secondo comma, Cost. Disposizione, quest’ultima, che – com’è noto – esclude la possibilità di svolgere consultazioni popolari su leggi tributarie e di bilancio.
Anche in questo caso le possibilità di sottoporre i contenuti della legge al voto dei cittadini non paiono pertanto particolarmente agevoli. Molto dipenderà da come il quesito sarà ritagliato e non è detto che questo basti. E ciò per una ragione che dev’essere attentamente tenuta in considerazione: probabilmente al fine recondito di blindare la legge-quadro e non esporla alle temute incursioni referendarie, il governo nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) ha inserito la “legge-quadro” tra i provvedimenti collegati alla manovra di bilancio. Il Governo procedendo, in via dichiarativa, alla qualificazione della legge l’ha così posta sotto copertura, vincolando indissolubilmente l’autonomia differenziata alla manovra di bilancio. Più che un espediente, una vera e propria manovra di aggiramento, utilizzata con finalità surrettizie talmente evidenti che potrebbero indurre la Corte a “diffidare” delle clausole formali di autoqualificazione.
D’altra parte, la passiva espansione di questo istituto – se non adeguatamente arginata – potrebbe spingersi, in futuro, talmente oltre da comprimere gravemente le garanzie costituzionali, fino al punto di consegnare di fatto al Governo, la decisione di ammettere o non ammettere i referendum, con conseguenze alquanto evidenti sul piano della tenuta della giurisdizione costituzionale.
Va tenuto, tuttavia, in considerazione che la Corte potrebbe addivenire allo stesso esito, sulla base di altre motivazioni. E dichiarare, nel caso di specie, inammissibile il referendum, qualora ritenesse la legge-quadro una legge costituzionalmente necessaria. Legge cioè di cui l’ordinamento (a prescindere dai contenuti in essa previsti) dev’essere necessariamente provvisto, in quanto essenziale ad assicurare la fisiologia del sistema. Com’è noto, diversamente dalle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato («il cui nucleo normativo» non può essere «alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)» – sent. n. 16/1978), le leggi a contenuto costituzionalmente necessario possono essere modificate e abrogate, ma «esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di assolvere» (sent. n. 29/1987 e, da ultimo, sent. n. 50/2022).
4. E passiamo all’art. 3 che reca «Delega al Governo per la determinazione dei LEP ai fini dell’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione».
Tengo a precisare che non ho mai considerato i Lep come la panacea di tutti i mali. La loro introduzione – veicolata dalla lett. m) del novellato art. 117 Cost. – costituisce anzi, ancora oggi, uno dei punti maggiormente criticabili della riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001.
Né tanto meno pare convincente il richiamo ricorrentemente operato, a tale riguardo, all’art. 72 del Grundgesetz. Con questa disposizione l’ordinamento tedesco si prefigge di garantire «die Herstellung gleichwertiger Lebensverhältnisse» («la creazione di condizioni di vita equivalenti»), la disposizione costituzionale introdotta in Italia nel 2001 si propone invece di «determinare» e assicurare soltanto la tutela dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».
Lo scarto fra le due disposizioni è evidente. E ciò per la semplice ragione che “essenziale” non vuol dire “equivalente”.
Siamo in presenza di una soluzione terminologica promiscua. E a renderla ancora più promiscua è la formulazione normativa adottata dall’art. 1, secondo comma, che sfruttando un’assonanza linguistica e fonetica con l’avverbio “equivalente” avverte che i livelli essenziali «devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale».
Va però, a tale riguardo, chiarito che equamente non significa equivalente. Nell’argomentazione giuridica, in particolare, equamente significa «ponderatamente».
E a definire i margini di oscillazione della suddetta ponderazione sono i parametri di determinazione e proporzione dei livelli di tutela. Non a caso la medesima disposizione si uniforma (né avrebbe potuto essere diversamente trattandosi di una norma gerarchicamente subordinata) all’ art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione che contempla espressamente la determinazione dei livelli essenziali di prestazione dei diritti civili e sociali.
Una formula quella dei livelli essenziali di prestazione mutuata dalla giurisprudenza costituzionale e da questa declinata nei termini di: «misura minima» (sent. n. 27 del 1998); «contenuto minimo essenziale» (sent. n. 184 del 1993); «nucleo essenziale» (sent. n. 304 del 1994): «nucleo irriducibile» (sentt. nn. 509 del 2000 e 309 del 1999); «contenuto minimale» (sent. n. 307 del 1990); «accettabile livello qualitativo e quantitativo di prestazioni» (sent. 335/1993). E anche in anni più recenti – post riforma – il giudice costituzionale ha espressamente vincolato la tutela dei livelli essenziali al rispetto delle «garanzie minime per rendere effettivi tali diritti» (sent. 220/2021). Nulla di meno, ma neppure nulla di più.
Di qui la ristrettezza dei margini di oscillazione delle politiche di previsione e determinazione dei livelli essenziali di prestazione. Margini oggi quanto mai compressi dai vincoli finanziari e dalle strozzature di bilancio, in buona parte derivanti dagli obblighi assunti in sede Ue e dalla maldestra revisione dell’art. 81 Cost. (L. cost. 20 aprile 2012, n. 1). E i cui riflessi si ripercuotono ora anche all’interno della normativa in esame. Penso, in particolare, all’art. 3 che, al settimo comma, ci avverte che il periodico aggiornamento dei Lep dovrà avvenire «in coerenza e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili». O anche all’art. 9 che esordisce chiarendo – semmai non lo avessimo ancora compreso – che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Ne viene fuori un quadro per taluni aspetti confuso, per altri chiaro, soprattutto sul piano della compressione delle garanzie sociali e dei diritti. Così come alquanto chiaro è anche il risultato ultimo che questo disegno di legge rischia oggi di conseguire: rendere i livelli essenziali ancora più essenziali.
5. La disciplina dei Lep disvela un vistoso deficit non solo sul piano delle tutele sociali, ma anche sul piano della tenuta degli assetti democratici della forma di governo. Deficit parzialmente e malamente sanati dalle modifiche introdotte, in via emendativa, al disegno di legge in questione.
La versione originaria del progetto, nel definire le forme di determinazione dei Lep, ne attribuiva la competenza al Governo, legittimato a intervenire con uno o più dpcm. Soluzione che avrebbe comportato un sistematico svuotamento del ruolo del Parlamento e determinato una grave violazione della riserva di legge posta dall’art. 117, secondo comma, Cost.
Io stesso, nel corso di un’audizione in Senato, dopo aver manifestato critiche e perplessità su un impiego così disinvolto del sistema delle fonti, avanzai quale ipotesi alternativa al dpcm, l’adozione di un decreto legislativo. Un’opzione in grado di attribuire significativi margini di manovra al Governo, senza esautorare però le Camere. Soluzione successivamente fatta propria, in via emendativa, dal disegno di legge oggi in discussione in questo ramo del Parlamento (art. 3, primo comma).
Tuttavia, nelle recenti disposizioni approvate in Senato troviamo anche dell’altro. E segnatamente che i decreti del Presidente del Consiglio sebbene non più utilizzabili per determinare i livelli essenziali, torneranno a esserlo, in futuro, quando si tratterà di rideterminarli (art. 3, comma 7). Insomma, i dpcm fatti uscire dalla porta, rientrano dalla finestra.
Una sorta di gioco delle tre carte che incastra in modo diverso l’ordine delle disposizioni contenute nel disegno di legge, senza però mutare lo stato delle cose e finendo così con il privilegiare quale soluzione preferenziale i dpcm: atti normativi che, diversamente dai decreti legislativi, non sono atti collegiali, sfuggono al controllo parlamentare, non sono emanati da un organo di garanzia politica qual è il Presidente della Repubblica e non sono suscettibili di essere sindacati nemmeno dalla Corte costituzionale (quanto meno in sede di giudizio di legittimità).
A ciò si aggiunga che l’opzione espressa a favore del decreto legislativo (per determinare, in prima battuta, i livelli essenziali di prestazione), sebbene coerente sul piano ordinamentale, disvela notevoli elementi di criticità nel caso di specie.
Ci si riferisce, in particolare, al disposto dell’art. 3 che, al primo comma, delega il Governo «ad adottare … uno o più decreti legislativi, sulla base dei princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (la legge di bilancio per l’anno 2023)». Principi e criteri direttivi, quindi, non contenuti nel disegno di legge di cui si controverte, ma in una legge precedente (del 2022).
Certo, non è la prima volte che ciò accade. E in passato anche la Corte costituzionale ha avallato l’impiego di questo escamotage, ammettendo la possibilità di determinare principi e criteri direttivi per relationem, con riferimento cioè ad altri atti legislativi già vigenti purché sufficientemente dettagliati (sentt. nn. 87/1989 e 156/1987).
Ma se questo è il perimetro d’azione, tracciato dalla Corte, dovremmo allora concludere che la soluzione normativa prefigurata deve ritenersi viziata per difetto di delega. Sia sul piano formale perchè la legge “rinforzata” sul pareggio di bilancio (n. 243 del 2012) all’art. 15, secondo comma, stabilisce che la prima sezione della legge di bilancio (ed è questo il caso) non possa prevedere «norme di delega, di carattere ordinamentale o organizzatorio». Sia sul piano sostanziale, con riferimento alla concreta determinazione del contenuto essenziale della legge di delega. E questo perchè i commi richiamati (da 791 a 801-bis) della legge di bilancio, non sono norme di principio, contengono disposizioni alquanto eterogenee, presentano un carattere prevalentemente procedurale e sono spesso orientate al perseguimento di finalità che esulano dai contenuti del disegno di legge in esame.
6. A tenere uniti e a sorreggere i tanti e confusi iter procedimentali che pervadono il disegno di legge è l’ideologia del capo. Ed è proprio su questo delicato terreno – quello della sovraesposizione dei poteri del Governo e del suo capo – che il disegno di legge pare connettersi idealmente alla riforma costituzionale del cd. “premierato elettivo” (A.S. n. 935) oggi in discussione. Lo schema sinallagmatico utilizzato dai due disegni di legge è chiaro: alla frammentazione dell’unità dei diritti si risponde con l’elezione diretta del premier, alla disarticolazione dei governi territoriali si risponde con la concentrazione dei poteri di indirizzo nelle mani del Governo, alla destrutturazione della forma di Stato si risponde con una cattiva operazione di ingegneria istituzionale condotta sulla pelle della forma di governo parlamentare.
7. Il dominio dell’esecutivo nella determinazione dei livelli essenziali non si limita all’emanazione del decreto-legislativo o del dcpm. Ma pervade tutto il procedimento: dalla fase istruttoria all’emanazione degli atti normativi da parte del governo. Questi i passaggi più significativi:
8. Un’ulteriore considerazione riguarda, infine, il destino della legge-quadro. Legge che, una volta approvata, assumerà sì valore e forza di legge, ma con una forza minore (vis carens), rispetto alle singole leggi di differenziazione che le succederanno, in quanto sottoposta come (quasi) tutte le leggi a una condizione risolutiva implicita (come direbbe Carlo Esposito).
La legge-quadro, oggi in discussione, essendo una “semplice” legge ordinaria, potrà pertanto essere modificata in qualsiasi momento dal legislatore e – ciò che conta in questa sede rilevare – anche dalle stesse leggi di differenziazione: in meglio (potrebbe essere rafforzato il ruolo del Parlamento), ma pure in peggio (potrebbe essere, ad esempio, travolta anche la possibilità per le Camere di esprimersi «con atti di indirizzo» ex art. 2, comma 4, accentuandone così la marginalizzazione).
Nell’avanzare questo tipo di rilievo, non mi riferisco quindi più ai contenuti della legge quadro della quale stiamo oggi discutendo, ma al suo vistoso potenziale di instabilità, trattandosi di una legge ordinaria. E come tale approvata nelle forme e con le maggioranze previste per le leggi ordinarie. Una legge quindi ad uso e consumo delle contingenti maggioranze parlamentari.
Né mi pare che – al fine di “blindarne” i contenuti – possa essere rintracciato un vincolo normativo, tra il testo costituzionale e le disposizioni procedurali contenute nella legge-quadro, tale da poter configurare queste ultime come vere e proprie norme interposte. Norme certamente ravvisabili in tutte le ipotesi nelle quali una disposizione formalmente costituzionale assegna ad una disposizione non formalmente costituzionale il compito di fissare i criteri di validità di successive leggi ed atti aventi forza di legge (si pensi al vincolo esistente tra decreto legislativo e leggi delega; e con riferimento al diritto regionale, al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella legislazione concorrente ex articolo 117, terzo comma, Cost.).
Tuttavia, se ammettere, a priori, l’esistenza di norme interposte, ogni qual volta ci si trovi di fronte a peculiari riserve di legge, concernenti i profili procedurali (art. 75, u.c., Cost.) e organizzativi (art. 95, 3 comma, Cost.; art. 137, comma 2, Cost.) di istituti e organi costituzionali, appare azzardato, ciò lo è ancor di più in assenza di un’espressa riserva di legge, come in questo caso.
La strada da seguire avrebbe pertanto dovuto essere un’altra: riversare il contenuto delle disposizioni della normativa quadro in una legge costituzionale. Una soluzione coerente, dal punto di vista dell’ordinamento delle fonti (la determinazione del perimetro della legge costituzionale rientra nella discrezionalità del legislatore), ma anche conforme alla rilevanza costituzionale della materia considerata, trattandosi di profili normativi destinati a incidere sull’organizzazione degli assetti territoriali della Repubblica e sulla tutela dei diritti.
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