Interventi

La svolta c’è tutta, ed è evidenziata dal capovolgimento del ruolo di Brunetta, da fustigatore dei fannulloni pubblici a promotore della valorizzazione del “capitale umano” delle amministrazioni. Il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” firmato il 10 marzo tra Draghi e CGIL, CISL e UIL promette più denaro per gli apparati pubblici dopo trent’anni di blocchi, tetti e tagli, riaprendo il confronto con le grandi Confederazioni a Palazzo Chigi dopo la fine della stagione della concertazione e il lungo stallo che ne è seguito.

Dietro questo vistoso cambio di direzione sulle relazioni sindacali c’è, naturalmente, la svolta più generale dovuta alla crisi sanitaria, economica e sociale in atto per la pandemia. In primo luogo nella politica finanziaria, con un forte aumento della spesa pubblica finanziato in deficit. Nel mondo, in Europa e in Italia, con i 209 miliardi del Recovery Fund. A questa si accompagna la consapevolezza della necessità di politiche pubbliche forti per contrastare la pandemia e i suoi drammatici effetti; conseguentemente, la necessità di avere apparati pubblici in grado di realizzare queste politiche. Tant’è che questa svolta si sostanzia in un “Piano nazionale” (il PNRR) di interventi coordinati, da predisporre secondo le linee indicate dall’Unione europea per ottenere i finanziamenti previsti. Dopo trent’anni di meno Stato più mercato e a sessant’anni dal tentativo di “programmazione economica” del primo centro-sinistra (quello DC-PSI), il cambiamento è assai rilevante.

Com’è noto, gli apparati pubblici del nostro Paese sono in situazioni che vanno dalla difficoltà al degrado. Per metterli in condizione di affrontare la crisi occorrono interventi forti nell’ambito del PNRR, che il Ministro Brunetta, nell’audizione nelle competenti Commissioni di Camera e Senato, ha sintetizzato in una formula alfabetica: A come accesso, B come buona amministrazione, C come capitale umano, D come digitalizzazione. In pratica: massicci concorsi per riempire i vuoti negli organici; una maggiore qualificazione professionale del personale, attraverso assunzioni di professionisti dall’esterno, ridefinizione dei profili professionali all’interno, formazione; revisione dell’organizzazione degli uffici e del lavoro in direzione di una maggiore flessibilità; revisione dei procedimenti amministrativi e delle procedure operative in direzione di una maggiore tempestività ed efficacia, avvalendosi soprattutto dell’ICT, regolazione dello smart working. Una curiosità: nel Patto non compare mai neppure la sola parola “valutazione”, nonostante il tormentone pluridecennale sull’argomento.

Il tutto, naturalmente, col consenso del personale, mediato dalle organizzazioni sindacali. Possibile da realizzare grazie ai maggiori finanziamenti del Recovery Fund, non solo per le assunzioni dall’esterno e per la formazione, ma anche per aumentare le retribuzioni del personale in servizio. Per questo aumento sono previsti, oltre ai 3,8 miliardi già stanziati per il rinnovo dei CCNL 2019-2021, ulteriori 700 milioni per la riqualificazione professionale. In parallelo vengono aboliti i tetti alle retribuzioni individuali e alla contrattazione integrativa aziendale. Assunzioni, aumenti in busta paga, progressione di carriera, formazione, da gestire con uno sviluppo delle relazioni sindacali. È comprensibile la soddisfazione delle Confederazioni CGIL, CISL, UIL e la conseguente firma del “Patto”.

Anche perché Brunetta ha richiamato al riguardo lo spirito dell’Accordo sulla riforma della contrattazione collettiva del 1993, stipulato dal Governo Ciampi (altro governo “tecnico” che aprì una nuova fase della politica nazionale). Tuttavia, il confronto con l’accordo del 1993 e le vicende che ne sono seguite consente di rilevare il limite del nuovo “Patto” sotto il profilo della coesione sociale, e i rischi conseguenti.

L’accordo Ciampi era un patto a tre, sottoscritto anche dai soggetti rappresentativi della parte datoriale privata (Confindustria, Confcommercio & c.), col Governo che svolgeva un doppio ruolo, quello di datore di lavoro del settore pubblico e quello di facilitatore della convergenza tra imprese e sindacati nel settore privato. In un quadro economico di austerità, le imprese ebbero convenienza a stipulare un accordo che limitava gli aumenti contrattuali al recupero dell’inflazione programmata sostituendo così la scala mobile, e comprendendo nell’operazione anche il settore delle pubbliche amministrazioni. Soprattutto, queste venivano inserite nel sistema contrattuale generale di diritto privato, basato su due livelli di contrattazione, uno nazionale e uno integrativo/aziendale. Completando, così, la “privatizzazione” del rapporto di impiego con le amministrazioni pubbliche sotto il profilo delle relazioni sindacali e della fonte di regolazione del rapporto, ovvero il contratto collettivo. Comprensibile, anche qui, la soddisfazione delle confederazioni sindacali.

Il Patto di oggi, invece, è un patto a due perché riguarda solo il settore pubblico, col Governo nella veste di datore di lavoro ma senza i datori di lavoro privati. Bisognerà verificare se lo spirito dell’accordo Ciampi nell’azione del Governo si applicherà anche alle serissime questioni aperte nelle relazioni sindacali del settore privato, dalle crisi settoriali e aziendali allo sblocco dei licenziamenti, fino alla regolazione delle nuove tipologie di lavoro flessibile e/o precario. Se tali questioni verranno lasciate solo alle relazioni sindacali, quando ci sono, o ai rapporti di forza tra imprenditori e lavoratori, senza l’intervento del Governo, le differenze tra pubblico e privato aumenteranno ancora, a scapito della “coesione sociale” che intitola il patto. Il cui limite è questo.

È vero che la contrattazione collettiva segue ancora l’impianto dell’accordo Ciampi nel pubblico come nel privato, ma l’esperienza di quasi trent’anni ha ampiamente dimostrato che la contrattazione collettiva di diritto privato funziona con meccanismi e dinamiche ben diverse tra il settore delle pubbliche amministrazioni e i settori privati. A questo riguardo emergono altri rischi per la “coesione sociale”. Difatti, nel primo decennio di attuazione dell’accordo Ciampi queste diversità di funzionamento hanno prodotto una divaricazione tra l’aumento delle retribuzioni medie nel settore pubblico e quello, più ridotto, del settore privato. Divaricazione causata da distorsioni nella “riqualificazione professionale”, con conseguenti promozioni in massa, e da diffuse prassi di distribuzione “a pioggia” di risorse destinate a premiare il maggiore impegno di alcun. Finché con la crisi finanziaria del 2009 si è arrivati a quel blocco delle retribuzioni pubbliche che oggi viene rimosso. La storia è questa, e questo è il rischio.

Non è il caso di discutere qui della “privatizzazione” della contrattazione e del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, ma è evidente che, restando fermo il sistema contrattuale, si possono riprodurre le distorsioni del recente passato e le conseguenti disuguaglianze coi settori privati. I non garantiti come i commercianti, gli autonomi, i precari, e i poco garantiti alle dipendenze delle aziende private si trovano obiettivamente contrapposti ai pubblici dipendenti garantiti nella continuità e anche negli incrementi della retribuzione. Inoltre, all’interno del lavoro pubblico va considerato che la guerra al COVID ha impattato in termini fortemente differenziati da comparto a comparto e all’interno dei singoli comparti, dividendo i dipendenti in tre aree: quelli al fronte, quelli nelle retrovie, quelli praticamente in vacanza, anche se non per colpa loro. Naturalmente, le tre aree sono diversamente distribuite nei comparti. La sanità è quasi tutta al fronte, la scuola in buona parte, le forze dell’ordine anche, e vi sono anche uffici amministrativi impegnati sulla pandemia dove si lavora molto più di prima. Lo smart working è generalizzato, ma non per i servizi alla persona; trasferire a casa il lavoro d’ufficio a seconda delle situazioni può comportare un impegno maggiore come quantità e qualità, come nella didattica a distanza se fatta bene, o un impegno minore, tendente a zero, se non c’è lavoro da fare o se non c’è controllo. Distribuire a pioggia soldi e promozioni anche a chi è poco impegnato può produrre l’esatto contrario della “coesione sociale” anche all’interno del pubblico impiego.

Le diversità di impatto della crisi sugli apparati pubblici dipendono in parte da situazioni oggettive come la diversità della funzione, in parte da fattori soggettivi come la cattiva organizzazione delle strutture e del lavoro, o la demotivazione degli addetti. Le diversità oggettive sono forti nella situazione attuale di guerra al COVID, ma resteranno in parte anche successivamente. Quelle soggettive possono essere rimosse da interventi adeguati, certo non nell’immediato. In ogni caso, perché gli apparati producano risposte adeguate alla crisi sanitaria, economica e sociale bisogna che la regolazione generale e quella contrattuale apprezzino tali differenze nei termini corretti. Le organizzazioni sindacali del pubblico impiego, molte, diverse e in concorrenza tra loro, si troveranno a dover rappresentare sia lo spirito di servizio manifestato dai dipendenti impegnati sul fronte COVID sia le tradizionali istanze corporative delle varie categorie. Ma la responsabilità di gran lunga maggiore sta in capo all’esecutivo, ovvero al Governo e all’alta burocrazia, cui compete la definizione, nell’ambito del PNRR, degli interventi sul sistema amministrativo attraverso la regolazione generale sulla riorganizzazione delle strutture e delle procedure, compresa la digitalizzazione, nonché, in connessione con tali interventi, l’attività di indirizzo all’ARAN per i nuovi CCNL del pubblico impiego.

Questa responsabilità va assunta di fronte al Parlamento, secondo la Costituzione, ma occorre che il Parlamento eserciti appieno il suo ruolo al riguardo, evitando subalternità e deleghe improprie. In altri termini, perché le innovazioni procedano nella direzione giusta anche il Parlamento deve farsi carico fino in fondo delle proprie responsabilità, anche per la “riforma della burocrazia”. La pubblica amministrazione, infatti, non può essere considerata un sistema a sé stante, riformabile con interventi interni, quanto piuttosto un sottosistema del sistema pubblico, collegato da un lato alla dialettica tra Governo e Parlamento e dall’altro ai rapporti tra i diversi livelli istituzionali, dall’Ue allo Stato, dalle Regioni ai Comuni. Le dinamiche innescate dalla crisi attuale evidenziano questi collegamenti ancora di più che nel recente passato, dove pure erano ben presenti. Al Parlamento compete la definizione delle politiche pubbliche, sulla base delle proposte del Governo, nel quadro delle linee eventualmente prodotte dall’Unione europea. Dunque dovrà discutere del PNRR predisposto dal Governo, per valutare in che direzione si scioglieranno i nodi sottostanti alle formulazioni ancora generiche sullo “sviluppo sostenibile”, sulla “coesione sociale”, sul “superamento delle disuguaglianze”. Per quanto riguarda la pubblica amministrazione prima del PNRR probabilmente arriverà un decreto legge per gli interventi più urgenti, e il Parlamento si esprimerà in sede di conversione.

Poi arriverà la legge di bilancio per il 2022. Va ricordato che, dopo la riforma del 2009, il bilancio dello Stato si articola in missioni, programmi ed azioni, assegnate ai singoli uffici dirigenziali dei tre livelli (dipartimenti, direzioni generali e divisioni), con l’unità di voto (ovvero la singola cifra votata dal Parlamento) corrispondente alla somma degli stanziamenti per un singolo programma, affidato a una direzione generale. Per ogni programma va presentata una relazione con gli obiettivi da raggiungere, che verrà seguita in sede di bilancio consuntivo da una relazione sugli obiettivi raggiunti, anch’essa consegnata al Parlamento, per consentirgli la valutazione dell’attività svolta da quell’ufficio anche ai fini delle decisioni da assumere nella successiva legge di bilancio. E questa, se si facesse, sarebbe la vera valutazione dell’attività amministrativa. Ma non si fa. Tutte queste previsioni sono attuate solo formalmente e parzialmente, per gli intrecci barocchi con la contabilità di Stato, le resistenze delle amministrazioni, le difficoltà di definizione degli indicatori di risultato e così via. Soprattutto, perché né il Governo né il Parlamento producono politiche pubbliche coerenti sulle problematiche dei diversi settori, ma solo interventi legislativi frammentati per soddisfare esigenze di gruppi, territori, categorie, cordate. Come dimostrano le leggi di bilancio degli ultimi anni, aggregati di centinaia di commi, proposti dai Ministri e dai parlamentari, messi insieme dalla Ragioneria generale per far quadrare i conti. Questa è la prassi seguita fino ad oggi.

La crisi in atto, e l’Unione europea, oggi chiedono politiche pubbliche coerenti. A partire dal PNRR, interventi pubblici coordinati che impiegano risorse per raggiungere obiettivi, e che dovranno trovare collocazione e rispondenza nel bilancio dello Stato, nelle sue missioni e nei suoi programmi, e nei relativi documenti, superando formalismi, resistenze e difficoltà. Per le diverse politiche e in particolare per la politica amministrativa, come comincia a delinearsi nelle linee programmatiche già esposte al Parlamento, dovrà diventare effettiva la responsabilità del Governo di fronte al Parlamento, e del Parlamento di fronte al Paese. E dell’Amministrazione di fronte al Governo, sulla realizzazione delle politiche così definite. Alla fine, la vera svolta sarebbe questa. Ma ci sarà?

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