Che la vicenda Palamara abbia gettato discredito sulla magistratura è indubbio. È però assai discutibile quanto questo discredito sia fondato, considerando che fenomeni del genere interessano una quota minima dell’ordine giudiziario e che se quei comportamenti sono stati scoperti è proprio grazie alle indagini di quella stessa magistratura oggi sotto accusa. Ma proprio perché un’istituzione di garanzia quale è la magistratura non merita questa delegittimazione. È certamente opportuno procedere, come sta procedendo la Ministra della giustizia, a una riforma dei profili ordinamentali della magistratura che contribuisca a restituirle, nella percezione sociale, la legittimazione che le spetta.
Naturalmente, come vedremo, non è questo il solo aspetto della “riforma della giustizia” da affrontare, né il più urgente dal punto di vista obiettivo. Delle due componenti della giustizia (come potere e come servizio, secondo l’efficace notazione di Luciano Violante) è, infatti, proprio la seconda a meritare una valorizzazione, con riforme mirate volte alla riduzione dei tempi del processo (senza tuttavia ridurne le garanzie effettive) e a un’ampia deflazione del sistema penale. E tuttavia, proprio l’esibizione quasi muscolare della dimensione della giustizia come potere, nell’ambito della vicenda Palamara esige forse, per correggere questa narrazione esasperata, modifiche importanti proprio sul versante ordinamentale del giudiziario. Non si tratta di scelte agevoli né immediate, alcune di esse comportando in ipotesi anche modifiche di rango costituzionale, ma è certamente utile aprire un confronto che possa, auspicabilmente, dimostrare anche l’infondatezza di alcuni assiomi sottesi ai quesiti referendari (la cui presentazione s’intreccia con le proposte ministeriali) e rilanciati nel dibattito attuale.
Mi riferisco, in particolare, alla separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, che comporterebbe la rinuncia a una delle caratteristiche più avanzate del nostro ordinamento (la “felice anomalia” di cui si è parlato), quale appunto quella di un pubblico ministero la cui indipendenza è garantita normativamente e inequivocabilmente, la cui attività d’indagine e iniziativa segue il principio di obbligatorietà dell’azione penale, di disponibilità della polizia giudiziaria e il criterio d’imparzialità nella raccolta di tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico. La distinzione solo per funzioni dei magistrati ordinari è, infatti, garanzia di inclusione del pubblico ministero nella “cultura della giurisdizione”, che lungi dal determinare un (tuttora indimostrato) “appiattimento” supino del giudice sulla tesi accusatoria, è invece garanzia di imparzialità. La separazione delle carriere, con la previsione di due distinti organi di governo autonomo, rischia invece di attrarre il pubblico ministero nell’alveo dell’esecutivo con la conseguente attenuazione delle garanzie di eguaglianza e imparzialità nell’esercizio dell’azione penale.
Questa proposta, inoltre, non tiene conto del fatto che i passaggi di funzione sono stati molto arginati da riforme recenti, al punto che – come ha ben documentato Armando Spataro su La Stampa – si attestano su percentuali oscillanti tra lo 0,20 e l’1,17 sul totale dei magistrati in servizio.
Come, del resto, è da accantonare definitivamente l’ipotesi d’istituzione di una Commissione d’inchiesta sull’operato della magistratura, che creerebbe inopportune interferenze con i procedimenti (penali e disciplinari) in corso e determinerebbe una significativa ingerenza di un potere nei confronti di un altro, che ha dimostrato di avere quantomeno gli anticorpi sufficienti per reagire dal suo interno alla patologia emersa, accertando le responsabilità secondo il diritto comune.
È invece opportuna una riforma del Csm che freni le degenerazioni correntizie e recuperi quell’idea di governo autonomo della magistratura (e non di autogoverno) voluto dal Costituente, anche ipotizzando – come proposto da Luciano Violante – la nomina del vice-Presidente da parte del Presidente della Repubblica, l’elezione frazionata dei componenti, modificandone – come proposto dalla Commissione Luciani – il sistema elettorale ammettendo candidature al di fuori delle liste con un minor numero di firme, per indebolire i legami correntizi, nonché riducendo i margini di discrezionalità del Consiglio nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Condivisibile è anche l’annunciata nuova disciplina del rientro in servizio dei magistrati al termine di incarichi politici, modulata su incompatibilità territoriali certamente più ragionevoli del divieto assoluto previsto dal testo Bonafede.
Sembrano lungimiranti le proposte di riforma del processo penale in chiave essenzialmente deflattiva (ma anche nella direzione di una giustizia penale più “mite” e non “vendicativa”) elaborate dalla Commissione Lattanzi. Condivisibili, in particolare, a fini deflattivi il rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare al fine di ammettere alla prosecuzione del processo i soli casi caratterizzati da un quadro probatorio consistente, la valorizzazione dei riti alternativi, l’archiviazione meritata a fronte di un corrispettivo pecuniario o della prestazione di lavori di pubblica utilità. La deflazione del carico giudiziario dovrebbe anche contribuire ad assicurare la ragionevole durata del processo, che è la prima forma di giustizia da accordare alle parti.
Apprezzabili – in quanto espressione appunto di un’idea meno rigidamente retribuzionista del diritto penale – l’estensione della non punibilità per particolare tenuità del fatto e dell’ambito applicativo della messa alla prova, nonché la commutazione della pena in sanzione pecuniaria commisurata al reddito, a fini egualitari.
Desta, invece, qualche perplessità la proposta di una discrezionalità temperata dell’azione penale, ovvero della fissazione, da parte del Parlamento, di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Il tema è delicato. La pretesa di sviluppo giudiziario di ogni notitia criminis – coerentemente alla logica dell’obbligatorietà di cui all’art. 112 Cost. – è, evidentemente, irrealizzabile in un sistema penale ipertrofico, quale il nostro. Resta allora da chiedersi se mantenere sulla carta (e solo sulla carta) una legislazione penale così “sconfinata”, accettando che sia poi il Parlamento (sia pur in coordinamento, a livello locale, con Procura e Tribunale) a realizzare una sorta di “depenalizzazione di fatto” dei reati non compresi tra quelli prioritari. Sarebbe forse preferibile realizzare una radicale depenalizzazione (più ampia di quella, pur meritevole, a suo tempo voluta dal Guardasigilli Orlando) che conservi rilievo penale ai soli comportamenti effettivamente lesivi di beni giuridici di rilevanza primaria.
Dai quesiti referendari potrebbe, invece, trarsi la proposta di limiti più incisivi alla custodia cautelare, che dovrebbe rappresentare davvero l’extrema ratio cui ricorrere quando ogni altra soluzione non possa garantire le esigenze di prevenzione speciale, integrità probatoria, contenimento del pericolo di fuga dell’indagato. Come pure si potrebbe riflettere sulla disciplina delle intercettazioni, in particolare mediante captatore, la cui applicazione sta mostrando tutti i limiti di una delega fideistica alla tecnica di uno strumento potenzialmente “onnivoro” quale il trojan. Una riflessione di questo tenore si allineerebbe, del resto, alle importanti aperture manifestate dalla Ministra tanto su questo tema (in occasione del parere parlamentare sul decreto sulle tariffe delle intercettazioni), quanto sul terreno dell’acquisizione processuale dei tabulati (che il Governo si è impegnato a rimodulare secondo le indicazioni della Corte di giustizia) e sul versante, solo in parte distante, della direttiva sulla presunzione d’innocenza, il cui recepimento potrà forse, almeno in parte, contenere il fenomeno del processo mediatico.
Il momento sembra dunque propizio per una riflessione, più ampia del mero contingente, sulla giustizia. E se è vero che sul terreno del processo civile e del contenimento della sua durata si gioca una buona parte dello sviluppo del Paese cui mira il Pnrr, è pur vero che sul versante penale si esprime il senso profondo delle garanzie democratiche e della dialettica tra libertà e sicurezza, tra persona e Stato. L’enfasi sulla giustizia riparativa, posta più volte dalla Ministra e valorizzata anche dalla Commissione Lattanzi, indica una delle principali direzioni da seguire, perché il giudice componga la ferita prodotta dal reato e non infligga – come notava Walter Benjamin – ciecamente destino.
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