1992. Epoca convulsa: caduto il muro, ci trovavamo fra la guerra in Jugoslavia e le bombe della mafia. Pubblicavamo un giornale intitolato “All’ombra della quercia del Tasso”. Da una parte, il riferimento a una gloriosa storica testata dello stesso Liceo (il Tasso appunto) ispirata alla famosa quercia del Gianicolo; dall’altra, alludeva alla nascente forza politica, il PDS, che aveva fatto dell’albero il suo simbolo politico. “La quercia? I maiali mangiano le ghiande…” chiosò il classico professore reazionario che ci ricordava chi stava all’ombra della quercia. Incuranti, vivevamo quell’epoca imbevuti di cultura tedesca, approfittando della prossimità fra il nostro liceo e varie istituzioni tedesche. All’Istituto Archeologico Germanico scoprimmo la Rosa Bianca e i fratelli Scholl; al Goethe Institut da poco rinnovato sentimmo nei giorni del 9 e 10 aprile un recital di canzoni di Weil e Brecht e partecipammo a vari convegni. Fra questi, uno su “Kant politico alla soglia del terzo millennio”. Vi partecipò Salvatore Veca con un intervento incentrato su “una proposta cosmopolitica su ragione, dignità e storia”. Il serio e importante filosofo dell’Università di Pavia dedicò la pausa pranzo (fra le due sessioni) alle inquietudini e alle domande di due quasi maturandi presuntuosi. Venne fuori, nel nostro dialogo, quella parola, dignità, che la nostra generazione ascoltò nuovamente un paio d’anni dopo quando sulle montagne messicane sbocciò il “fiore della parola” zapatista. Ci formavamo così fra Königsberg e San Cristóbal de Las Casas.

Solo poco tempo fa, abbiamo incontrato Veca e gli abbiamo, con colpevole e quasi trentennale ritardo, consegnato una copia del giornale. Fu però motivo di una grande risata e di una considerazione sull’attualità dell’intervista. Intervista che quindi ripubblichiamo con gli stessi errori e giovanili imperizie come omaggio a un importante filosofo e a una grande persona che ci ha lasciato il 7 ottobre scorso.

A proposito dei regimi totalitari si è parlato di “eclissi della ragione”. Oggi tutti i totalitarismi sono caduti. Ma il “corteo dell’irrazionalismo” continua a sfilare velocemente per tutta l’Europa, basti pensare alle elezioni italiane o tedesche o alla drammatica crisi slava. Come si spiega questo fatto?

Le democrazie occidentali si trovano nella cosiddetta “solitudine normativa”. La democrazia rappresentativa resta il modello delle istituzioni politiche per quei paesi in cui il suo nemico totalitario ha fallito. Ma ora assistiamo a delle trasformazioni della rappresentanza. Il pluralismo, elemento a cui non possiamo rinunciare, va incontro a un deficit di funzionamento: il rapporto tra governanti e governati non funziona. Le cause sono molteplici: una, che ho avanzato recentemente in un articolo, è l’assenza del nemico come disagio delle democrazie, che dovrebbero banchettare trionfanti, ma non possono. Come vincitori – infatti – hanno il compito di aiutare i paesi usciti dai regimi totalitari. La democrazia non nasce come Minerva dalla testa di Giove. Il consolidamento delle istituzioni democratiche ha delle precondizioni non solo politiche, ma anche economiche e ideologiche. La via verso la democrazia, ma ancora di più verso il mercato, è estremamente ardua: la democrazia non è un qualcosa che si compra al Super-Market, ma ha una storia, un percorso che può incorrere, come succede ora, a dei problemi di funzionamento.

Le filosofie post-kantiane hanno rivendicato il concetto di “Ragione”. Qual è il nesso tra la ragione di Marx e quella di Kant, soprattutto sul piano della dignità dell’uomo?

Marx non vuole dimostrare kantianamente la dignità dell’uomo. Lo sviluppo dell’uomo secondo le sue potenzialità è, per Marx, conforme allo sfruttamento, all’alienazione. Questo sfruttamento nasce dalla dinamica del mercato: la circolazione della merce forza-lavoro. Il tasso di sfruttamento (detto saggio di profitto) è intrinseco nel concetto capitalistico di salario e lavoro. L’assunzione dell’ingiustizia del capitalismo, in quanto l’uomo è mezzo e non fine, risulta per Marx troppo utopistico e morale. Ma su questa posizione sarebbe stato Kant: la solidarietà di specie, l’eguale rispetto che ciascuno deve a ciascun altro per il semplice fatto che siamo uomini.

Un punto di contatto tra Marx e Kant è la funzione dell’intellettuale. Lei afferma “il filosofo non dà ricette”: come si conciliano queste due proposte?

La funzione intellettuale non è la fornitura di ricette, bensì la fornitura di buone ragion su ciò che è problema, bensì la fornitura di buone ragioni su ciò che è problema. Questo dipende dai profondi cambiamenti nella struttura sociale, nella funzione intellettuale. Kant ha come ideale la “Repubblica dei dotti”: è un illuminista, vi è l’uso pubblico della ragione. In Marx l’intellettuale deve capire il mondo come procede, è legato alla divisione del lavoro: deve indicare all’interno dei movimenti partitici e sindacali, l’ideologia per la crescita e la difesa dei salariati. Oggi la funzione è cambiata: il rispetto per l’uditorio che consiste nel far fiorire la capacità riflessiva di ciascuno. Sapere aude. Io ho ricette (come tutti), ma non ho il monopolio della verità. Ciascuno ha le sue soluzioni, ma questo non è sottovalutare la filosofia: non abbiamo bisogno di preti.

Quale ruolo per la scienza nel mondo di oggi?

Il ruolo è pervaso nel modo in cui forse non è stato neanche nei momenti nei quali si è parlato di rivoluzione scientifica. Rispetto a Einstein la pervasività e l’impatto che lo sviluppo scientifico ha sulla nostra vita è enormemente accelerato e ampio. Ciò non va demonizzato. L’impresa scientifica è una delle glorie che abbiamo per essere così goffi e limitato come siamo. Un resoconto della razionalità che si limitasse a quella che ci è consegnata dall’impresa scientifica sarebbe essenzialmente incompleto. Razionale è porsi il problema su che senso ha e quale sarebbe l’uso saggio di ciò cui non possiamo rinunciare. Vi sono l’apprendista stregone e il mito faustiano-prometeico, che hanno mostrato i loro limiti. Un pensiero che sappia fare forza sui limiti è più ricco di un pensiero che sia basato sulla idolatria del potere senza limiti della nostra ragione scientifica.

La Dignità si ottiene attraverso il concetto di giustizia distributiva a livello politico ed economico. Ma il risultato sarebbe capito da “noi umani”, alla luce della risposta verso l’irrazionalismo mostrato nelle ultime tornate elettorali in Europa?

In questa fase nelle democrazie rappresentative dei paesi ricchi prevale l’egoismo, la rottura della solidarietà di specie planetaria, perché sta prevalendo l’incertezza. Quando aumenta l’incertezza si contrae l’orizzonte di aspettative, e si pensa a privilegiare gli interessi a breve termine. Risposte di tipo xenofobo, localistico sono generate da questa percezione di incertezza. La gente tende ad assicurarsi in un mondo in cui è inevitabile la nazione multietnica, multiculturale. Antidoto a questo sarebbe pensare a lungo termine. Noi abbiamo il massimo di globalità dei problemi politici rilevanti e la vista sempre più miope. Gli interessi veramente importanti sono quelli di lungo termine e gli unici calcoli che noi facciamo, li facciamo su breve termine, e questo è un grosso problema per le democrazie. Il problema dell’informazione.

Come è possibile armonizzare la visione cosmopolita e una limitatezza d’informazione?

I problemi dell’informazione e dell’ecologia sono un problema trans-nazionale che richiedono una prospettiva cosmopolitica, nel senso di istituzioni sovra-nazionali. Le leghe in Italia, i Republikaner in Germania, Le Pen in Francia sono un modo di ritrovare identità non riconoscendosi più direttamente nella dimensione di Stato-nazione, che invece di andare oltre la nazione, vanno sotto i confini. Così va in fibrillazione lo Stato-nazione. Credo che ciò renda grande il problema della questione federativa. Non sono a favore delle tesi sul governo mondiale, in quanto non prevede l’unipolarismo, come ora gli USA. Invece bisogna pensare a forme di equilibrio multipolare e quindi federazioni che possano trovare qualche assetto istituzionale sul piano sovranazionale. Il problema dell’informazione è trans-nazionale, ma non significa non mettere ordine in casa nostra. La legga antitrust c’è, ma non si riesca a far applicare. L’informazione è potere sulle menti, genera le preferenze, determina forme di ritualità collettive. Ci devono essere agenzie alternative.

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