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Durante la 46° sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, tenutasi il 23 marzo scorso, è stata approvata un’importante risoluzione che riconosce “l’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani”. Presentato da alcuni Stati Membri (Azerbaigian, Stato di Palestina e Cina a nome del Movimento dei Paesi Non Allineati) il documento si fonda su un report – redatto dalla Relatrice Speciale del Consiglio Alena Douhan – che è il risultato di un monitoraggio compiuto negli ultimi due anni sull’impatto determinato dalle sanzioni internazionali su Iran, Cuba, Venezuela, Federazione Russa, Siria, Qatar, Stato di Palestina, Yemen.

Nello specifico, la risoluzione esorta la comunità internazionale “ad astenersi dall’imporre misure coercitive unilaterali, sollecitando inoltre la rimozione di tali misure, in quanto contrarie alla Carta, alle norme e ai principi che regolano le relazioni pacifiche tra gli Stati”. Afferma inoltre come tali misure ostacolino “la piena realizzazione dello sviluppo economico e sociale delle nazioni, influenzando anche la piena realizzazione dei diritti umani”. Esprime poi, alla luce anche del report, particolare preoccupazione per le fasce deboli della popolazione ritenute ancora più esposte agli effetti negativi delle sanzioni. In ultimo, la risoluzione ritiene le misure coercitive una violazione del diritto all’autodeterminazione stigmatizzando l’utilizzo delle sanzioni unilaterali “come strumenti di pressione, compresa la pressione politica ed economica”.

Nei giorni successivi, l’iniziativa è stata giustamente salutata con soddisfazione da diversi rappresentanti degli Stati interessati, nonostante il documento abbia ricevuto il voto contrario tra gli altri di Austria, Brasile, Francia, Germania, Italia, Giappone, Gran Bretagna, Paesi Bassi e Polonia.

D’altronde, intorno al Consiglio dei Diritti Umani si sta giocando da anni una partita importante. Bisogna infatti specificare che l’amministrazione Trump, coerentemente con la propria politica isolazionista di rifiuto del multilateralismo, nel 2018 ha abbandonato il proprio seggio, in radicale disaccordo con alcune risoluzioni di condanna nei confronti delle violazioni commesse da Israele. Nikky Haley, ambasciatrice statunitense presso l’ONU, definì il Consiglio un “pozzo nero di pregiudizi politici”. Non è peraltro la prima volta che gli Stati Uniti assumono la decisione di abbandonare il seggio: la stessa cosa avvenne infatti per motivazioni analoghe anche nel 2006 durante la presidenza di George W. Bush.

Biden ha più volte affermato durante la campagna elettorale di voler rientrare nel Consiglio, ponendo fine a quello che a tutti gli effetti possiamo definire un boicottaggio o, più precisamente, una delegittimazione di uno degli organismi “cardine” del sistema onusiano in relazione alla tutela dei diritti umani. Sistema certamente in forte crisi, sicuramente da riformare al più presto e in modo radicale. Ma che fino a prova contraria rappresenta l’impalcatura su cui la comunità internazionale si è rifondata dalle ceneri dell’ultimo conflitto mondiale.

Quanto alle relazioni con Cuba, gli Stati Uniti non solo non hanno dato seguito alla risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU del novembre 2018 di condanna del bloqueo nei confronti dell’isola caraibica, ma hanno anzi posto in essere alcune misure volte a rendere l’embargo ancora più violento e stringente con l’intento di strangolare una volta per tutte l’economia cubana. In particolare, l’amministrazione Trump ha reintrodotto il Titolo III della legge Helms-Burton: rimasto bloccato per ventitre anni grazie ad un accordo raggiunto tra Stati Uniti ed Unione Europea, questa norma permette ai cittadini americani (e soprattutto cubani divenuti americani) di avanzare richiesta di risarcimento davanti alla giustizia statunitense nei confronti di quelle imprese, cubane e straniere, che hanno in utilizzo delle proprietà espropriate dopo la rivoluzione del 1959. A questo vanno aggiunte le restrizioni sui viaggi e sulle rimesse dagli USA verso Cuba, misure che l’amministrazione Obama aveva effettivamente allentato, avviando una politica di disgelo.

Biden, tra le altre scelte in discontinuità con l’amministrazione precedente, aveva annunciato anche una revisione delle misure coercitive nei confronti di Cuba. Il risultato delle ultime presidenziali americane è stato accolto infatti a L’Avana con un certo sollievo. Tanto da spingere il governo cubano ad attuare, dopo tanti anni, un’importante e rischiosa riforma monetaria consistente nell’abolizione della doppia valuta e affiancata da una serie di altre misure che vanno dagli incrementi salariali all’aumento sensibile delle attività liberalizzate (i cosiddetti cuentapropistas).

La risoluzione del Consiglio dei Diritti Umani ha avuto una certa risonanza anche in Europa. Quella stessa Europa che dopo un anno è ancora in piena lotta contro la pandemia e i cui capisaldi sono stati messi seriamente in discussione dalla questione dei vaccini. In Italia, abbiamo tutti ancora negli occhi le immagini della brigata medica Henry Reeve che nel momento più duro della prima ondata di contagi ha affiancato il personale medico italiano. Uno straordinario esempio di solidarietà internazionale che ha anche ispirato un’eterogenea campagna per la candidatura della compagine medica cubana al Nobel per la pace. D’altronde, non è la prima volta che Cuba esporta “médicos y no bombas” in teatri di emergenza – anche pandemica – in tutto il mondo: dalla Operación Milagro che ha coinvolto decine di migliaia di persone affette da patologie oculistiche in più di trenta paesi africani e latino-americani, agli interventi umanitari compiuti dalla stessa brigata Henry Reeve in Sierra Leone, Guinea e Liberia finalizzati a contrastare la diffusione del letale virus Ebola.

Proprio alla luce di quest’ultimo difficile anno, il voto contrario dell’Italia ha il sapore della beffa e dell’ingratitudine. E non è un mistero che l’ultimo avvicendamento a Palazzo Chigi sia stato dettato, tra gli altri motivi, anche dalla volontà strategica di avere un governo che dia maggiori garanzie di lealtà al sodalizio atlantico.

Negli ultimi giorni si sono susseguite le prese di posizione politiche sul voto italiano. Stefania Bonaldi, sindaca di Crema – il comune che ha visto l’intervento della brigata Henry Reeve – ha indirizzato al Presidente Draghi una lettera in cui ha stigmatizzato la posizione espressa dalla delegazione italiana in seno al Consiglio dei Diritti Umani: “mi rendo conto che esistono ‘equilibri’ internazionali e che vi sono tradizionali posizioni ‘atlantiste’ del nostro Paese, ma quando ci si imbatte nello spirito umanitario dei cubani ‘situati’, che come ognuno di noi ambiscono a una vita migliore, quando, superati i muri ideologici, ci si trova di fronte ad un altro segmento di umanità, capace di guadagnarsi la gratitudine e la riconoscenza di tanti italiani, si finisce per trovare inqualificabile la posizione assunta dal nostro Paese in seno al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite”. In altri interventi (tra questi quello dell’onorevole Emanuele Fiano) si bolla semplicisticamente la questione come “fake news”, asserendo che nel documento non si fa alcun esplicito riferimento a Cuba. Cosa vera: nel corpo della risoluzione non si menziona nessun paese, né Cuba né tutti gli altri. Ma si omette – chissà se in buona fede – che nel documento viene più volte richiamato il rapporto redatto dalla Relatrice Speciale Alena Douhan, già sopra ricordato, in cui invece il nome di Cuba compare eccome.

La bufera (sanitaria, economica, sociale) della pandemia infuria su scala globale. Secondo gli analisti più “ottimisti” si potrà tornare a una relativa normalità soltanto nel 2022, mentre i costi sociali ed economici investiranno anche gli anni successivi. È ipotizzabile quindi che le politiche vaccinali e di ripresa economica satureranno l’agenda politica internazionale. Tuttavia la sensazione è che ci si trovi di fronte a uno snodo importante. Le intenzioni di Biden saranno certamente quelle di mostrare una discontinuità e un ritorno al multilateralismo. Questo però potrebbe non voler dire necessariamente anche un effettivo abbandono dell’utilizzo strumentale del tema dei diritti umani: un utilizzo “a intermittenza”, a seconda dei casi e dei momenti.

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