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Articoli pubblicati per la rubrica “Divano” de “il manifesto” .

a.

Eroe. Spietato Assassino. Difensore della Libertà. Criminale Uccisore di Bambini. Coraggioso Partigiano. Flagello di Dio. Despota Sanguinario. Limpido Esempio d’Amor di Patria. Democrazia. Dittatura. Boia. Santo. Vittima Innocente. Cieco Carnefice Comunista. Nazista.

Quale straordinaria contrapposizione di bianco e di nero, armi alla mano: tu mio nemico io tuo nemico, tu il mio sangue io il tuo sangue. Uccidersi casa casa, strada strada, gli armati e gli inermi, tra le scuole, gli ospedali, le chiese delle città. Ed io chiamo a raccolta quanti più posso a darmi man forte, sicuro d’aver ragione, per sterminare il mio nemico. Un nemico che anche è il tuo, ti dico. A difesa, allora, dei nostri Valori. Noi, i Buoni. Loro i Cattivi. Noi, pronti alla morte, per le nostre madri, le nostre spose, per il futuro dei nostri figli.

Erasmo da Rotterdam ne Il lamento della Pace (1517) fa parlare la Pace con queste parole: «Che di più fragile, di più breve della vita umana? A quante malattie, a quanti incidenti non è soggetta! Eppure, nonostante i malanni intollerabili che di per sé comporta, gli uomini nella loro follia si attirano da sé la maggior parte delle proprie sventure, e una tale cecità ne ottenebra la mente, che non avverte nulla di tutto questo. Si gettano a capofitto dirompendo, spezzando, infrangendo ogni vincolo naturale e cristiano, ogni patto; combattono ovunque instancabilmente, smisuratamente, interminabilmente, nazioni in urto con nazioni, città con città, fazioni con fazioni, sovrani con sovrani, e per la dissennatezza di due omiciattoli destinati a perire ben presto come la durata d’un giorno, l’umanità intera è sconvolta da cima a fondo».

La guerra acceca ogni tratto che si dica umano. Essa immiserisce e deturpa ogni ragionamento, anzi lo impedisce. Lo ottenebra e lo riduce un meccanismo inceppato, uno strumento di offesa, un insulto. Offendere è destituire l’umanità dell’altro, negarla fino a ridurre l’altro a una sagoma, a un bersaglio da centrare. E, contestualmente, uccidere comporta l’abdicare alla mia propria dignità, cancellarla, ché io possa omologarmi ad una umanità meccanica, divenire io la protesi dell’arma che imbraccio. Essere così io comandato dall’arma, il contrario esatto del comandare io l’arma che impugno. Per accettare questo rovesciamento, ho bisogno di sentirmi nel giusto, chiamato ad affermare alcunché di nobile, un ‘principio superiore’. Ed è così che mi è indispensabile raccontarmela e inventarmela e crederci una coscienza elevata, adamantina, superiore. La verità che mi costruisco non deve più di tanto poggiare su elementi fattuali, bensì appoggiarsi su convincimenti che io presuppongo effettivi, oggettivi, evidenti. E giusti. Per me giusti ora e, quando avrò vinto, giusti per gli altri domani.

Sull’enorme portata delle figurazioni, delle immaginazioni collettive che infiammano gli animi alla guerra e fanno dell’uccidere un nobile dovere, ha scritto nel 1921 le pagine memorabili di Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra il grande storico francese Marc Bloch. Con la classe 1886 è al fronte nella Grande Guerra. Nella seconda guerra mondiale combatte a Dunkerque. Nel 1942, a cinquantasei anni, entra nella Resistenza, è seviziato e fucilato dai nazisti nel giugno del 1944.

«Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa non è casuale se non in apparenza, o, più precisamente, tutto ciò che v’è di fortuito in essa è l’incidente iniziale, assolutamente casuale, che scatena il lavorio delle capacità d’immaginazione, ma questa messa in moto non ha luogo se non perché le immaginazioni sono già pronte e in silenzioso fermento». Nella guerra che sparge bugie, «gli uomini esprimono i loro pregiudizi, i loro odi, i loro timori, tutte le loro emozioni forti. Grandi stati d’animo collettivi sono i soli ad avere il potere di trasformare in una leggenda una percezione distorta».

La guerra propala la bugia. In me coincidono la bugia e l’arma. Affermo nel sangue la mia convinzione, vera o falsa. Riflette Bloch: «Ora dal momento in cui l’errore aveva fatto versare sangue, esso era definitivamente convalidato».

b.

Accendo la televisione. Le riprese degli inviati nei teatri di guerra lasciano vedere campi devastati, brulli in una primavera ghiaccia. Nelle città, sotto il fuoco dei bombardamenti, mostrano palazzi che crollano. Il fumo nero degli incendi sale al cielo. Mezzi blindati e automobili sono lamiere contorte. Scorrono i volti degli scampati alle quotidiane distruzioni. Il terrore si è posato sui loro sguardi in un abbaglio che resta. Increduli si aggirano tra le rovine, attoniti davanti ai corpi dei morti che giacciono ancora insepolti a terra. L’incerto passo di madri che stringono al seno i figli con gesto di raccapriccio, senza sapere dove andare. Raggelati gli uomini: quanto è appena accaduto loro, essi non sono in condizione di comprendere. Nello stordimento incredulo ogni giudizio, ogni racconto si sgretola in frasi rotte, muoiono anch’esse prima d’essere compiutamente pronunciate. La guerra, quando «la ragione viene a scontrarsi con i sentimenti» dice Erasmo ne Il lamento della Pace, e «gli affetti si scontrano con gli affetti». La guerra che penetra dentro e dentro scava, dilania ciascuno nell’animo: «idem homo secum pugnat».

Accendiamo i nostri televisori e assistiamo ai disastri della guerra. In diretta, si dice. In diretta, cioè faccia a faccia, senza mediazione alcuna, la guerra nella sua pura realtà, ci dicono. Eccola allora la guerra in televisione, sotto i nostri occhi, a che ci si ritrovi noi pure in mezzo al mitragliamento, ecco udiamo il crepitare repentino e ripetuto dei colpi che, vediamo, abbattono sul lungomare di Mariupol un uomo in cerca di riparo oltre l’angolo d’una via laterale, e non ce l’ha fatta.

La diretta ovvero la guerra nella sua tragica realtà. No. La diretta è una rappresentazione della realtà, non è la realtà. È il risultato di inquadrature, distanze, angolature vuoi scelte o vuoi obbligate, ma in ogni caso parziali, circoscritte, limitate nel momento e nella posizione consentiti o privilegiati dall’operatore. La realtà della guerra è documentata da un mezzo, dunque la diretta è una mediazione che mette capo non alla realtà della guerra, ma a una rappresentazione della realtà della guerra. La diretta televisiva è taglio, montaggio, combinazione: costruzione. È una raffigurazione della guerra né più né meno di Guernica di Picasso o di Los desastres de la guerra di Francisco Goya. La guerra in diretta e della diretta chiede dunque non una ingenua e passiva recezione, ma la medesima rigorosa riflessione e l’interpretazione critica, l’impegno ad un accrescimento di consapevolezza al quale ci sfidano Guernica e le ottantadue incisioni dei Desastres.

Los desastres, Guernica, la diretta. Dico la guerra raffigurata.

F.T. Marinetti pubblica Zang Tumb Tumb nel 1914. Intende rappresentare l’assedio della città turca di Adrianopoli e la sua capitolazione, il 3 dicembre del 1912, sotto le armi dei bulgari. Ho davanti una pagina dove le lettere M U T O H D R A L sono altrettante schegge d’una bomba esplosa, fermate dal poeta sulla pagina bianca, a mezz’aria, grazie alla valentia tipografica di Cesare Cavanna. Quale terribile figura della guerra!

La guerra in essere è distruzione di luoghi e di opere, di corpi e di sentimenti: amicizia, amore, tenerezza, affezione. La guerra è distruzione di pensiero, di ragione, di intelligenza, di riflessione. Con essa deflagrano la logica e il giudizio. La guerra in essere sloga e disarticola il linguaggio, lo sconnette mentre iberna la parola, ne uccide, di ciascuna, le molteplici verità. Nei termini della guerra si scompone in maniera casuale la sintassi delle proposizioni formulate. Marinetti raffigura una detonazione abnorme nel bianco silenzio della pagina. Le parole prima restano in sospensione e, sciolte da ogni vincolo di senso, ristagnano inerti ciascuna a sé. E poi, velocemente, si decompongono fino a che ogni singola lettera, pronunciata o scritta, affiora in superfice, quasi spina lentamente espulsa, e si colloca per proprio conto. Sospinge così la guerra ad alfabeti insensati e incongrui. Lettere maiuscole e lettere minuscole si frangono sparse, abbattute dalle raffiche di venti contrari: M U T O H D R A L.

c.

«… credevo ormai di aver imparato che nell’epoca aspra e terribile delle armi atomiche nessuno sa più calcolare se e quando le flotte, gli aerei e i cannoni possano veramente fermarsi. (…) Non credo che nell’era atomica armandosi si salvi la pace (…) La pace si prepara con la pace. Questo non c’è nella politica dell’attuale governo: ci sono invece le flotte e la vecchia diplomazia dei patti militari sotto il grande ombrello armato della potenza americana. L’Onu appunto diventa così un’appendice. Ma così il mondo, questo mondo così terribilmente diviso in opulenti e affamati è a rischio».

Non riporto parole di una motivata opinione o di un giudizio circostanziato espresso ieri o quest’oggi, primo giorno d’aprile del 2022, riguardo alla guerra che da oltre un mese devasta i territori, le città e le popolazioni dell’Ucraina. No, non oggi, né ieri. Queste parole sono state pronunciate trentadue anni fa, di fronte ad un’altra guerra.

Sono le parole dette da Pietro Ingrao alla Camera dei deputati il 23 agosto del 1990. Con esse Ingrao dichiarava il suo dissenso dal proprio gruppo parlamentare, quello del Pci, che non vota contro, ma si astiene sulla decisione del governo di inviare un contingente militare italiano nel Golfo.

Mille novecento novanta, duemila ventidue: trentadue anni e una decina di guerre, di occupazioni armate, alcune durate vent’anni: Golfo 1990; Bosnia 1993; Kosovo 1999; Afghanistan 2002; Iraq 2003…

All’aprirsi della guerra in Afghanistan, nel 2002, Ingrao, in polemica con Alfredo Reichlin e Giorgio Napolitano (che «respinge l’uso della parola ‘guerra’ e parla di ‘azione militare’ delle Nazioni Unite») torna a richiamare l’articolo 11 della Costituzione («L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»). Chiede «risposte sulla sua validità o meno» e aggiunge: «Intendiamoci: io sento bene il rischio di apparire ristretto – persino provinciale – nel restare ancora aggrappato a quella piccola Carta italiana del 1948. E rispondo: sì, è vero, parlando dell’articolo 11 evoco volutamente la questione dello Stato-nazione, che ritengo dimensione niente affatto cancellata da quel fenomeno grandioso e drammatico che oggi chiamiamo ‘globalizzazione’». Ma, continua Ingrao, «esistendo oggi in Italia (in questo Stato) una Costituzione abbiamo diritto di chiedere conto del rispetto dell’articolo 11: quel passo della Costituzione, che parla della pace e della guerra, e ragiona su eventi che per i cittadini possono significare la vita o la morte. Sostengo allora: è possibile che quell’articolo 11 sia oggi superato, e venga cassato. Ma bisogna dirlo. E si può annullarlo solo dicendolo: e sottomettendosi alla prova del consenso del Paese. E se i Custodi della Costituzione non tutelano questo mio diritto mancano al loro compito: gravemente. Violano la legge».

Ho trascritto con ampiezza le prese di posizione di Pietro Ingrao di fronte alla guerra col proposito non tanto di mettere in luce la palmare evidenza della loro piena attualità, quanto per rimarcare il nulla che da trent’anni in qua è stato fatto in Italia per rendere operante lo spirito e la lettera dell’articolo 11. Disatteso, sottaciuto, non rispettato, nei fatti costantemente violato. Quando si dice subalternità dell’Italia alla Nato, alla compagine armata plurinazionale subalterna agli Stati Uniti! Un’Italia resa indegna della sua Costituzione. L’Italia, che nell’articolo 11 dispone di ogni principio e di chiare indicazioni operative per affermarsi tra le armi del mondo come paese in ogni caso indisponibile a soluzioni armate, ma, tutto al contrario, attivo invece nella promozione, nell’incremento, nella tutela costante di ordinamenti e organismi internazionali che con la pace preparano la pace, come l’articolo 11 (che è necessario meditare nella sua interezza) non manca di indicare: l’Italia, recita, «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

d.

L’Italia è tenuta a risolvere le controversie internazionali nel fermo divieto di far ricorso alle armi. È tenuta a rispettare la libertà degli altri popoli, rispetto che vale un non recare offesa – per nessuna ragione – con lo strumento della guerra. Al contrario. L’Italia è impegnata ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni e, per tanto, è sollecita e motivata nell’individuare ogni normativa universalmente condivisa che affermi, renda operativi e consolidi ordinamenti capaci di garantire nel mondo le istanze della giustizia e della pace. A quel reciproco rispetto vanno improntate le relazioni fra stati in una condizione di riconosciuta parità che sola può, nel consenso dichiarato di ciascuno stato, addivenire alle eventuali limitazioni di sovranità che, in ciascuno stato, siano di incremento e di tutela della pace e della giustizia.

Il testo dell’undicesimo dei Principi fondamentali della Costituzione non è articolato in commi. Esso si compone di un’unica proposizione che dà svolgimento ad un costrutto compatto. È così che ogni sua nozione (come ogni sua frase) si tiene e acquista maggior vigore e senso nell’essere accostata ai concetti vicini, al modo delle controspinte che reggono un arco.

È per questa ragione che l’art. 11 chiede di essere e letto e recepito e valutato nel suo insieme. E allora bene si comprenderà nella sua pienezza il significato che assume qui il verbo ripudiare quando si congiunge alle altre voci verbali che accoglie nel suo svolgimento il testo: consentire, assicurare, promuovere, favorire e nel contesto di questo fitto intrecciarsi (dunque non estraendo ed isolando l’atto del ripudiare) lo si ragiona. Risulterà allora, più di quanto non accada usualmente (si noti come sia consuetudine limitare la citazione dell’art. 11 alla sua prima frase, ottenendo in tal modo l’effetto di ritagliarla, quella frase, e farne un motto) il suo carattere attivo, regolativo e, dirò, programmatico, ché la chiave di volta sta qui nel compito al quale l’art. 11 della Costituzione vincola l’Italia, tenuta ad operare fattivamente con lo scopo di assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Sicché il ripudio della guerra va inteso nella sua componente pragmatica, è tutt’uno con il promuovere relazioni e intese e con il favorire l’istituzione di organismi internazionali ed elaborare dispositivi e provvidenze capaci di assicurare la giustizia e la pace.

Dunque il non ricorrere alla guerra e il non attribuirle virtù alcuna e denunciarla come puro irrisarcibile danno comporta, anzi, impone e prescrive alla Repubblica Italiana nella conduzione delle sue relazioni internazionali un intenso, continuo ricorrere alle virtù operative che sanno avvalersi di uno strumentario politico ‘disarmato’. Lettera e spirito posti a decisa confutazione dell’antico adagio «si vis pacem para bellum», prepara la guerra se vuoi la pace, e a disvelare, invece, di quella apparente saggezza una sua orribile verità riposta, quella che chiama pace il compimento della distruzione finale del nemico che ogni guerra inevitabilmente persegue e, quando la ottiene, la designa ‘vittoria’. Nell’art. 11, pare a me risuonare un altro amaro latino che si trae dall’Agricola di Tacito: «ubi solitudinem faciunt, pacem appellant», dicono pace, dove fanno il deserto. Il deserto, macerie e morte, che negli anni 1946 e 1947, i costituenti intesi ad assolvere il loro compito, ad occhi attoniti mostrava il mondo. Sottolineavo la componente pragmatica che informa quel dettato costituzionale. Ha scritto Tullio De Mauro: «Una legge costituzionale mira non solo a regolare in generale un comportamento che possa aver luogo, ma mira a sollecitare che si attui tale comportamento, implica, comunque sia formulato, un invito, un ordine: è un testo che, come si dice nelle lingue moderne ricorrendo a due latinismi tecnici, è suasivo e iussivo, persuade e prescrive».

Quali formazioni politiche hanno fatto proprio l’invito ad un impegno attivo e ad una educazione dei cittadini italiani da perseguire nei termini che l’art. 11 prescrive? Intanto lo ripudia il governo italiano in queste prime settimane della guerra europea che divampa nel mondo.

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