Articolo pubblicato su “il manifesto” del 15.04.2025.
Se vogliamo tessere la nostra tela è necessario partire dalla consapevolezza che la crisi della democrazia ha ormai investito il piano nobile della Costituzione. Messa sotto pressione da un articolato progetto contrassegnato dallo stravolgimento della forma di governo realizzato mediante uno sgangherato premierato; dalla caparbia volontà – nonostante le smentite della Consulta – di imporre un assetto nei rapporti tra territori fondato sulla diseguaglianza e sull’abbandono della visione solidale di regionalismo; dalla pretesa di rimodulare la divisione dei poteri a favore di quello politico, mostrandosi non solo insofferente al controllo dei giudici nazionali, ma anche al rispetto del diritto internazionale; dalla risposta esclusivamente sicuritaria al disagio sociale; dalle politiche del lavoro conformate – da tempo in verità – dall’assolutismo delle politiche neoliberiste, a scapito dei diritti inviolabili e il rispetto della dignità delle persone.
Un disegno perseguito con tenacia, però non ancora compiuto: viviamo una fase d’interregno dove si manifestano fenomeni mostruosi. In questa fase di lotta tra vecchio che non muore e nuovo che non è ancora nato si diffonde il malessere e si estende la rabbia. Un disagio ampio, trasversale, che attraversa le diverse culture politiche, ma che non riesce a tradursi in nuova egemonia. Viviamo in una società di “insoddisfatti”, che in maggioranza votano a destra in mancanza di meglio.
Molti sono i “delusi”, penso all’esercito degli astenuti – non solo dal voto, ma da ogni impegno o credo politico – che vanno a ingrossare le fila del disagio sociale. Ma penso anche alla sinistra perduta, perché esausta dei perenni cambiamenti tattici che hanno prodotto continue delusioni. Un pensiero un tempo legato a chiari valori di civiltà (libertà, eguaglianza e fraternità, per dirla con le sue ancestrali parole fondative), che si è reso sempre più leggero e alla fine smarrito, rischiando di rimanere afono di fronte agli urli degli altri, agli orrori del mondo. Persino la destra tradizionale non mi sembra granché in forma. Magari unita perché vincente, ma qualche costo lo paga anch’essa: non ci dovrebbe essere granché a spartire tra nazionalisti e secessionisti; tra garantisti e giustizialisti; tra liberali e neofascisti. È allora legittimo chiedersi quanto potrà durare l’accordo per il potere? Non credo possa essere data per scontata la direzione del cambiamento in atto. Quel che emerge è una società di minoranze scontente.
In questa situazione il compito più urgente è quello di tornare a fornire una prospettiva di riscatto complessiva attorno a dei valori comuni condivisi.
Ma come si fa a unire una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo, nell’opportunismo o nella vuota retorica? La storia una indicazione chiara l’ha data. Nei momenti di crisi democratica come quella che stiamo attraversando la lotta per la costituzione può svolgere un decisivo ruolo di unità tra forze diverse. In fondo, se per dare vita alla Repubblica democratica e antifascista sono riusciti a combattere assieme dai monarchici ai comunisti, perché oggi non potrebbero trovare un accordo, nel rispetto della diversità di ciascuno, i liberali critici e i centri sociali irrequieti? Non bisogna avere paura delle alleanze in nome della Costituzione, sarà questa a segnare il discrimine, a definire il campo largo.
Semmai il rischio da evitare è un altro. Quello di utilizzare la Costituzione come schermo puramente retorico, magari limitandosi ad affermare che è “la più bella del mondo”, e così ci salviamo l’anima. Oggi la Costituzione deve essere presa sul serio.
Che vuol dire in concreto? Principalmente due cose: passare dalla difesa all’attacco, collegare i diversi frammenti di lotta entro un quadro costituzionale.
In primo luogo, far valere la Costituzione oggi rende necessario ribaltare le narrazioni correnti. Contrapporre ai vizi del premierato le virtù del parlamentarismo (ad esempio, proponendo di rivoltare i regolamenti parlamentari; limitare la potestà normativo dei governi; ripensare le funzioni legislativa, di indirizzo e di controllo del parlamento); a fronte della cultura carcerogena e di scontro frontale con l’ordine della magistratura si dovrebbe cominciare a ridiscutere il valore delle garanzie giurisdizionali (pensando a come attuare il principio del giusto processo, garantire la funzione rieducativa della pena, limitare la carcerazione preventiva ed estendere le misure alternative al carcere); non fermarsi a criticare il regionalismo di natura competitiva, ma definire un regionalismo solidale che sia costituzionalmente orientato (pretendendo la redistribuzione delle risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico e la solidarietà sociale tra le regioni, assicurare la garanzia dei diritti fondamentali – non solo quelli essenziali – su tutto il territorio nazionale, rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ovunque si risieda); alla cultura della sicurezza si dovrebbe opporre quella della solidarietà; all’attenzione per i poteri quella per i diritti; e via via elencando.
Già questo appare un impegnativo programma, ma non basterebbe. Necessario è anche riuscire a collegare i bisogni di ciascuno al disegno complessivo. Se, infatti, viviamo al tempo delle minoranze divise e isolate, solo la somma di più minoranze può aspirare a rappresentare una maggioranza alternativa all’attuale.
In questa situazione il caso dei referendum appare esemplare. La maggior parte del popolo italiano risulta distratta rispetto ai problemi del lavoro, così come non sembra sufficientemente recettiva rispetto alle questioni della cittadinanza. L’unica possibilità per raggiungere il consenso necessario è allora quello di riuscire a far comprendere che i quesiti proposti non riguardano solo le categorie direttamente interessate – lavoratori o migranti – ma rappresentano due tessere di un mosaico che è necessario comporre per definire un più ampio progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti di tutti. Solo così si potrà affermare una maggioranza disposta a cambiare. Poi chi ha più filo tesserà.
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