I prossimi 8 e 9 giugno i cittadini e cittadine italiane saranno chiamate a partecipare ai referendum promossi dalla CGIL e dai “comitati per la cittadinanza”. Un momento importante, che vale per tutto ciò che saremo in grado di fare sin dalle prossime ore (il percorso) e, ovviamente, per il risultato, che se raggiunto non solo cambierà in meglio la condizione di milioni di persone, ma potrebbe innescare una più generale “riscossa” delle ragioni del lavoro, della giustizia sociale, della libertà, contro una crisi di sistema che è diventata crisi della democrazia, crisi della politica, finanche crisi “umanitaria”.

Se è vero infatti che stiamo in quei “gorghi” della storia, dove l’inedita questione ambientale da un lato, la potenza omologante e distruttrice (se non invertiamo “chi fa cosa e per quale fine ultimo”) della tecnologia dall’altra, possono risolversi solo o in “più socialismo” o in “più barbarie”, allora il valore politico dei referendum diviene evidente.

Prima di tutto in termini di soggettività che possono mettersi in moto. Soggettività nel senso pieno della parola, protagonismo diffuso, dal basso, organizzato in forme più o meno rigide o spontanee. Perché alla fine la battaglia politica, il “corpo a corpo” di spiegare ragioni, merito, senso di questa campagna referendaria diviene strumento per alimentare una visione della politica e della partecipazione sicuramente meno noiosa del mero sostenere questo o quel candidato (quando ancora si crede nell’utilità del voto, problema non da poco visto gli alti tassi di astensionismo) e sicuramente in grado di rigenerare anche i rapporti tra singoli, comunità e grandi corpi organizzati.

Vale per il sindacato, sempre più rinchiuso in ambiti limitati e “frammentato” dalla dispersione molecolare dei cicli produttivi. Vale ancora di più per gli esangui partiti politici, anche a sinistra, anche schierati a favore del Sì.

E allora le energie da attivare sono nelle mille esperienze sul territorio, nei comitati di quartiere, nelle polisportive di periferia, nelle tante realtà dell’ambientalismo, del civismo, sapendo parlare a fasce di popolazione, a interlocutori a cui da tempo, magari non parliamo più.

Una serie di singoli e di forze presenti nel territorio ma spesso non percepite, a cui con scarsa generosità non ci si approccia. In questo sta il valore politico dei referendum promossi: nel delineare e prospettare un cambiamento immediato nelle condizioni di vita dei soggetti più direttamente interessati e, al contempo, rappresentare un terreno finanche simbolico di resistenza a un modello di sviluppo che sta teorizzando libertà senza democrazia, ovvero sia la libertà del più forte, che è anche la libertà di chi controlla i social, banalizza, storpia parole, aumenta i profitti riducendo l’occupazione, distrugge la biosfera.

Concretamente i referendum, se si raggiungesse il quorum e i Sì fossero maggioranza, cambierebbero in meglio, da subito, la vita a milioni di uomini e donne che potrebbero dal giorno dopo rivendicare il loro essere cittadini italiani (referendum sulla riduzione del numero di anni necessari a chiedere la cittadinanza). Milioni di lavoratori a termine che, ormai smontate le causali, sono da anni nel limbo della precarietà (lavorativa ed esistenziale) potrebbero finalmente essere stabilizzati, milioni di lavoratori a tempo indeterminato che non hanno più il diritto alla reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa (o diritto a risarcimenti significati se dipendenti in aziende sotto i 15 dipendenti) vedrebbero finalmente aumentare il loro potere. Milioni di uomini e donne (le più esposte alla precarietà, ai part-time involontari, ecc.) che lavorano negli appalti e per cui i vari rischi specifici in materia di salute e sicurezza non sono “affari che riguardano” il committente, cioè chi alla fine beneficia della loro prestazione, potrebbero avere tutele reali se si ammalano o se si fanno male (e tutto ciò che rafforza la responsabilità in solido del committente, aiuta a ridurre la funzione dell’appalto a mero risparmio su salari e diritti).

E poiché parliamo di restituire diritti e potere a circa una decina di milioni di persone, già questo varrebbe lo sforzo, l’impegno di tutte e tutti.

Ma ripeto, il valore dei referendum va al di là dei suoi pur importanti effetti pratici. Rimettere al centro il lavoro di qualità, rimettere al centro l’inclusione, farlo con lo strumento principe che la carta costituzionale riconosce alla “sovranità popolare” (cioè il referendum) è battaglia di senso, di modello, di quale idea alternativa vada oggi portata avanti e rafforzata.

È una battaglia di resistenza? Certo.

È una battaglia per difendere il portato più profondo dell’Europa, la sua distintiva anima sociale, figlia del compromesso capitale-lavoro? Anche questo, facendo dell’esempio uno dei principali strumenti anche per agire la forza della diplomazia.

È una battaglia di retroguardia? Assolutamente no, perché rimettere al centro la dimensione umana è la prima questione per provare a rovesciare il paradigma per cui l’uomo serve la tecnologia quando invece dobbiamo riappropriarci del fine ultimo della scienza e del progresso: il nostro stare meglio, il nostro vivere meglio, il nostro diritto a essere felici perché liberi. E liberi perché felici.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *