Democrazia, Politica, Temi, Interventi

L’analisi dell’esito del referendum sta animando una vivace discussione, nella sinistra e nel sindacato. Si rischia di cadere nel solito luogo comune del “bicchiere mezzo pieno” o “mezzo vuoto”, e pur tuttavia si tratta di provare a dare un giudizio equilibrato, che aiuti a comprendere quanto accaduto.

Partiamo da alcuni dati. Intanto, la percentuale dei votanti (30,6%) è bassa, ma non rappresenta (purtroppo, occorre aggiungere subito, a scanso di equivoci) un particolare “crollo” della partecipazione: anzi, questi referendum sono quelli in cui più si è votato negli ultimi 25 anni, a eccezione di quello sull’acqua pubblica del 2011 e dei referendum costituzionali. Viene però una conferma: considerato che alle ultime elezioni parlamentari del 2022 ha votato il 64%, l’8 e il 9 giugno hanno partecipato poco meno della metà degli elettori che si sono mobilitati per le politiche, e dunque si sta configurando, oramai, una quota di astensionismo “strutturale”, che coinvolge circa un terzo degli elettori (e sulle ragioni di ciò si dovrebbe meglio discutere, ben oltre le consuete lamentazioni generiche che lasciano il tempo che trovano).

È chiaro che, in queste condizioni, il raggiungimento del quorum fosse una missione impossibile, tanto più dopo esser venuto meno il possibile traino-complemento del referendum sull’autonomia differenziata. Vale poi uno specifico assioma: una variabile sempre più decisiva nel motivare o meno la partecipazione al voto è legata alla percezione sull’incertezza della competizione. Vale moltissimo persino per le elezioni locali e regionali, figuriamoci per un referendum come questo, in cui non ha pesato solo un’esplicita campagna di boicottaggio (che toglieva ogni pathos alla gara), ma uno scetticismo oramai diffuso sulla possibilità di raggiungere il quorum.

Non sono pochi, dunque, 14 milioni di votanti: ma le domande politiche, naturalmente, sono altre: valeva la pena, per la CGIL, promuovere un’impresa così rischiosa? Non ci sono rischi di contraccolpi negativi? E come valutare quello che appare come il dato più inatteso e politicamente “inquietante”, ossia l’alta percentuale di No per il referendum sulla cittadinanza?

Anche qui, bisogna partire dai dati. Chi scrive forse appartiene al partito del “mezzo pieno”, ma 12 milioni e 250 mila Sì sul primo quesito (leggermente di meno sugli altri tre) non sono pochi, né erano scontati. Sulla base di quale parametro valutare l’entità di questo consenso? Un possibile punto di riferimento sono i voti raccolti alle elezioni del 2022 dai partiti che esplicitamente sostenevano i quattro quesiti su lavoro (PD, AVS, M5S), ossia 11 milioni e 675 mila, a cui vanno aggiunti certamente gli elettori di un’area di estrema sinistra (400 mila). A questi dati vanno aggiunti i risultati del voto degli italiani all’estero: su 5 milioni e 300 mila aventi diritto, hanno votato Sì 753 mila e No 375 mila: in tutto, poco più del 20% degli aventi diritto (ma anche alle politiche, avevano votato solo il 25%: il che rende, tra l’altro, ancora più proibitivo il livello del quorum). Anche per il voto estero, c’è un’espansione significativa del Sì rispetto al voto politico (quando i consensi ai tre partiti citati si era fermato a 500 mila voti). I dati poi mostrano che, se il saldo finale è di +575 mila voti, questa espansione – rispetto al potenziale elettorato di riferimento – è molto alta in Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto. Tra le maggiori città (a parte Bologna e Firenze), la partecipazione più alta si è avuta a Torino e a Genova, con oltre il 40%.

Per il sindacato, questi referendum hanno significato e forse, almeno in parte, riattivato una relazione positiva con il mondo del lavoro. Non sappiamo se fosse questo, all’inizio, l’obiettivo che ha spinto la CGIL a promuovere un’iniziativa così rischiosa come un referendum: ma si può dire che uno degli effetti sia stato proprio quello di aver lanciato un messaggio unificante a un mondo del lavoro che vive in uno stato di frammentazione, isolamento, debolezza contrattuale. I temi al centro del referendum (la precarietà, i diritti, la sicurezza) sono temi che hanno parlato trasversalmente a tanti segmenti sociali che sono e si percepiscono come ininfluenti, non tutelati né rappresentati, e che spesso non comunicano neanche tra di loro.

Anticipo un’obiezione: non può essere un referendum a rimettere la questione del lavoro al centro dell’agenda politica e a produrre la ricomposizione di un blocco sociale. E non può essere nemmeno solo il sindacato a farsene carico. Ed è certo così. La parola spetta alla politica, naturalmente

E qui bisogna essere chiari. Non è corretto sovraccaricare di significati politici questo voto; tuttavia, emerge la notevole prova di compattezza e di mobilitazione che ha dato l’elettorato di sinistra, in condizioni piuttosto difficili. Oltretutto, si trattava di votare contro leggi approvate da passati governi di centrosinistra, che erano già costate molto care al PD nelle elezioni del 2018. Evidentemente, il “nuovo corso” del partito è apparso credibile. La scelta di Elly Schlein di schierare senza esitazioni il partito a fianco della CGIL ha avuto un notevole riscontro. Anche i dati dell’Istituto Cattaneo hanno mostrato un elevatissimo livello di compattezza degli elettori del PD, un segnale di ritrovata sintonia politica con il proprio elettorato di riferimento, e su un terreno dall’alto valore simbolico, come il tema del lavoro. Provate solo a immaginare cosa sarebbe accaduto se la segreteria del PD si fosse dimostrata “tiepida” e distaccata, come suggeriva la minoranza del partito: gli effetti sarebbero stati, a dir poco, laceranti.

Dal punto di vista del PD, questo difficile passaggio referendario potrà essere forse visto, in futuro, come un passaggio fondamentale della sua storia: il vecchio “partito della nazione”, il partito genericamente interclassista delle origini, quale ad esempio fu teorizzato nel discorso fondativo di Veltroni al Lingotto, è morto e sepolto, e naturalmente a segnarne la fine sono stati i sei milioni e oltre di voti persi tra il 2013 e il 2022. Le scelte di oggi segnano, forse, l’avvio di una nuova fase, un primo tassello nella costruzione di un nuovo profilo identitario. Ma l’esito non è scontato. E a renderlo non scontato è proprio quello che un tempo si diceva “lo stato del partito”.

La nuova segreteria ha molti meriti (non da ultimo aver risollevato, anche sul piano elettorale le sorti del partito) e ha cominciato a ridefinirne il profilo programmatico. Tuttavia, non è stato ancora veramente affrontato il tema di una riforma del modello di partito a cui si ispira il PD. Un partito che, semplicemente, non funziona come luogo di partecipazione e di elaborazione collettiva. Non occorre qui ripercorrere un’analisi che chi scrive ha svolto in varie occasioni: per riassumere in una formula i vari aspetti del problema, il cuore di una possibile riforma del PD è quello di ricostruire (o meglio costruire per la prima volta) un partito in cui sia attiva una vera connessione, una circolarità, tra discussione politica, partecipazione e decisione. Le stesse, oramai stucchevoli, diatribe correntizie, che stanno segnando ora anche il post-referendum, nascono da un partito che – e non certo da ora – semplicemente non sa discutere. Basti ricordare quanto accaduto con i referendum (come già a suo tempo per la posizione del partito sul riarmo europeo): relazione della Segretaria in Direzione, dibattito veloce e svogliato e, poi, al momento della votazione, molti si defilano (per non votare contro, dicono: e perché mai non dovrebbero, se ne sono convinti?), relazione approvata all’unanimità. Salvo poi, subito dopo, la ripresa del cicaleccio mediatico nei corridoi o sui social. Si ha proprio l’impressione che si sia di fronte a una “minoranza rumorosa”, che gode di un’ampia copertura mediatica e che ha il solo scopo di garantirsi una comoda rendita di posizione. Ma così questo partito non può reggere.

Tutto ciò può accadere perché il suo intero modello di governance – sin dalle origini – appare guidato dalla logica di una democrazia plebiscitaria, non da quello di una democrazia propriamente rappresentativa e deliberativa. Come conseguenza di tutto ciò, le “correnti” non sono state espressione di posizioni politiche e culturali, ma solo aggregazioni mutevoli delle filiere del potere interno. I problemi del PD, in fondo, nascono da un semplice dato di fatto: è un partito che non ha mai fatto un congresso vero, ossia una discussione su documenti politici, anche alternativi tra loro, da votare e emendare nelle unità di base, da sancire infine con una platea ufficiale di delegati, eleggendo organismi dirigenti rappresentativi degli orientamenti del partito.

Un percorso di ripensamento del modello di partito non è stato avviato finora, e forse lo si può anche capire: l’imperativo dei primi due anni della nuova segreteria è stato il primum vivere, a fronte di un partito raccolto sull’orlo dell’abisso. E le continue scadenze elettorali non aiutano (sono alle porte cinque importati elezioni regionali); ma l’avvio di questo percorso ora è ineludibile.

Senza attendere future modifiche statutarie, si possono fare subito alcune scelte. E qui il discorso ci riporta ai referendum. Possiamo partire da una critica ricorrente che viene rivolta all’attuale segreteria ma che in realtà ha caratterizzato da sempre il modo di essere del PD: quella critica che si esprime in una formula, ossia che “manca una visione”, l’assenza di una cornice che riconnetta i vari segmenti di un programma. Il punto è: si può chiedere al segretario pro tempore, si può pretendere da una singola figura, di svolgere un compito immane, quello di ridefinire l’identità e la visione della sinistra, nel secondo quarto del XXI secolo, quando da almeno trent’anni la sinistra ha perso una propria bussola teorica?

Come rimediare a questo vuoto? Nello statuto vigente sono previsti alcuni istituti (mai utilizzati): la conferenza programmatica annuale e il congresso tematico. Ecco il terreno su cui il pluralismo interno può davvero rivalersi proficuo ed essere correttamente valorizzato. Bisogna attivare canali e sedi di discussione e di confronto: il “pluralismo” non può essere un gioco di equilibri tra gruppi di potere interno. Le diverse culture e tradizioni politiche si devono mettere in gioco, traducendo le implicazioni della loro ispirazione nella discussione specifica su un ambito programmatico. Su molti, troppi temi si intuisce e, in qualche occasione si palesa clamorosamente, una profonda differenza di idee all’interno del partito: ma, in assenza di sedi in cui tali differenze siano espresse chiaramente, il partito appare, di volta, afasico o cacofonico. Cosa si può fare, in circostanze simili? Come misurare il grado di consenso che riscuotono nel partito le varie posizioni? Si può pensare, appunto, a una conferenza programmatica annuale, su due o tre temi rilevanti, su cui si sente il bisogno di un chiarimento, da svolgere anche in questo caso sulla base di documenti (non dei trattati, ma nemmeno striminziti comunicati in cui ciascuno può leggere quel che più gli aggrada), da discutere, votare e approvare nelle unità di base, e poi in un consesso nazionale di delegati.

I temi non mancano: la politica estera, in primo luogo, ma anche le questioni istituzionali, la riforma elettorale, la riforma del regionalismo, le politiche del lavoro. Tutti terreni, lo si vede bene, su cui ci sono posizioni diverse, senza però che se ne venga a capo. E così il discorso pubblico del partito, spesso, rimane indecifrabile o generico.

Ed è proprio questa la nota dolente: la capacità di orientare il discorso pubblico. Questo deficit di egemonia culturale (non so come altrimenti chiamarlo) lo si è potuto misurare drammaticamente anche con i recenti referendum: oltre 3 milioni su 12, un quarto dei SI sulle questioni del lavoro, hanno votato No nel quinto referendum, quello sulla cittadinanza. Solo analisi più raffinate potranno dirci se esiste una correlazione significativa tra almeno tre variabili: una specifica dimensione sociale-territoriale (ad esempio, la frattura tra città e piccoli centri, o tra centri e periferie delle città); il tasso di partecipazione; il livello precedente del voto ai partiti e in particolare al M5S. Le ipotesi che si dovranno verificare sono essenzialmente due: quanto ha pesato una quota di elettori M5S (non credo che sia stato un caso che Conte abbia lasciato “libertà” di voto su questo quesito; evidentemente aveva intuito questi umori); e, soprattutto, quanto hanno pesato “normali” elettori di sinistra, che sui temi dell’immigrazione non sembrano in sintonia con la visione politica e culturale che su tale questione viene loro proposta dai partiti di riferimento. È certo un fenomeno preoccupante, che solleva molti problemi; ma non per questo se ne può dedurre che, avendo votato No, questi elettori “non possono” essere considerati di sinistra, né togliere il fatto che questi stessi si percepiscano come tali e come tali si comportino su altri terreni. Bisogna cercare di capire perché accade questo e come parlare a questi elettori.

Sbaglierebbe profondamente chi da questi dati tragga la conclusione che alla sinistra non resti altro che inseguire la destra su un terreno securitario. Il problema è: ha la sinistra gli strumenti e le cose da dire per contrastare la forza del “senso comune” che si è formato su questi temi? Per rispondere positivamente con una proposta politica alle paure che colpiscono anche una parte del proprio elettorato? E qui si ritorna al tema del partito. A quanto mi consta il PD ha preparato un pregevole progetto di legge sulla riforma delle politiche migratorie, elaborato anche attraverso una larga consultazione con il mondo associativo che opera in questo campo: ebbene, qualcuno sa cosa dice questo progetto? Dove è stato presentato? Il partito “diffuso” di dirigenti e militanti se ne è appropriato? Il semplice iscritto o elettore del PD è in grado di sostenere una discussione al bar, spiegando cosa propone il partito?

Il PD è come una macchina arrugginita, pensata con altre logiche e in un’altra stagione, pensata sempre più in funzione della presenza nelle istituzioni, ma senza una radicale revisione, anche il rinnovamento che si prova a mettere in gioco ai “piani alti” resterà senza eco nella società.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *