Articolo pubblicato su “il manifesto” del 07.05.2024.
I referendum possiedono un plusvalore simbolico che trascende la portata della norma che si vuole abrogare. La cancellazione di alcune disposizioni vigenti – a volte solo parte di esse, altre volte frasi prive in un proprio autonomo significato normativo – sono lo strumento attraverso cui si manifesta la volontà del corpo elettorale su temi di ben più estesa portata.
I referendum su divorzio, aborto, nucleare, legge elettorale hanno segnato svolte profonde e durature della nostra storia. Vero è che il referendum non basta a sé stesso; infatti, è accaduto che il legislatore non abbia voluto dare seguito alla indicazione espressa dal corpo elettorale (si pensi ai casi diversi del finanziamento ai partiti o a quello dell’acqua-bene comune). Il problema della natura dei vincoli (negativi più che positivi) al legislatore conseguenti al referendum abrogativo è delicatissimo e coinvolge gli equilibri su cui si regge la nostra complessiva democrazia rappresentativa, ciò non toglie però che il referendum pone sempre alla politica una questione che travalica l’oggetto del quesito sottoposto al voto. Di fronte ad un muro che si vuole abbattere il referendum apre una breccia che si dovrà poi attraversare.
È per questo che sono prive di fondamento le critiche mosse nei confronti dei referendum promossi dalla CGIL sul lavoro. È vero, di per sé non aboliranno la precarietà nel lavoro, ma pongono nel modo più solenne per le democrazie la questione dei diritti legati alle tutele dei lavoratori, limitandosi a cancellare alcune norme specifiche particolarmente odiose. Non è certo poco, anzi è il massimo che si può immaginare in questo momento.
Una mossa ad alto rischio, peraltro, poiché visti i tempi e i precedenti infausti nessuno può assicurare che non finisca con un fin de non recevoir, se non si riuscirà a creare un movimento reale gli ostacoli (il quorum di partecipazione, ma non solo) rischiano di farci cadere ancora più in basso. Sono però proprio le difficoltà, di cui siamo consapevoli, che ci invitano a prendere sul serio la sfida che ci viene proposta.Una richiesta di cambiare rotta, rimettendo in discussione la lunga egemonia neoliberista che ha promosso una legislazione sociale sempre più lontana dai principi costituzionali legati alla dignità del lavoro. In fondo, ad essere diretti e sinceri, una cultura cui il fronte progressista non è rimasto estraneo.
Il Jobs Act è stato solo l’ultimo atto di una incapacità (o non volontà) di promuovere politiche in grado di rispondere alle trasformazioni del mondo del lavoro in modo da assicurare oltre alle ragioni delle nuove imprese, anche quelle dei nuovi lavoratori, che hanno pur sempre diritto «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé a alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Quel che ci dicono ora i quesiti referendari è che dovremmo tornare a riflettere su queste parole scolpite nella nostra Costituzione e per troppo tempo dimenticate.
Ciò che si pone alla base delle richieste referendarie è la volontà di reagire ai tempi che stiamo vivendo, nel tentativo di fermare l’involuzione in atto e di cominciare a sperare in un’alternativa possibile. Ci invita a contrastare la protervia di una destra che si accinge a portare a termine il lavoro sporco iniziato da tempo: cambiare la Costituzione (premierato e separazione delle carriere dei magistrati) e farla finita con la solidarietà nazionale (autonomia differenziata). Ci propone una diversa prospettiva: quella di riscoprire la portata “rivoluzionaria” di una Costituzione poco e male attuata. È questa la via maestra per opporsi al declino. La richiesta, rivolta a tutte le forze progressiste, è quella di ricominciare a pensare al cambiamento non più in nome del mercato, ma in nome della Costituzione. In fondo i referendum richiesti dalla CGIL si limitano ad anticipare quello sull’autonomia differenziata (se ci sarà) e quello sul premierato (che certamente arriverà). Una battaglia comune contro il regresso, per un progresso tutto da conquistare. Prima che sia troppo tardi.
Un orizzonte che irrita molti, lo si può comprendere. Naturalmente trova contraria la destra, perché vede messa in discussione una sua egemonia culturale, conquistata a fatica e che ritiene ormai saldamente acquisita (il neoliberismo come unica ragione del mondo), ma inquieta anche una parte importante della sinistra, quella più governista. In quest’ultimo caso ciò che innervosisce non è tanto che si invochi una svolta, quanto che ciò contenga una implicita ma inevitabile critica a chi s’è fatto paladino nei tempi passati di una politica estranea alla propria tradizione, quella legata al lavoro. Non nascondiamocelo, per alcuni – soprattutto dentro il PD – si tratta di fare i conti con sé stessi, senza sconti.
Ma se un nuovo corso vuole essere inaugurato, qualche rottura è necessaria.
Comprendo le difficoltà della segreteria del Partito democratico nei confronti di chi vede messa in discussione la propria storia recente, ma chi ha preso in mano il partito con l’idea di innovare deve essere anche consapevole della propria enorme responsabilità e delle aspettative di tutti coloro che guardano alla nuova dirigenza confidando su una soluzione di continuità che possa contribuire ad uscire dalla paralisi dentro la quale versa l’intero popolo della sinistra. Una responsabilità storica e non limitata solo al proprio partito. Elly Schlein ha annunciato che firmerà i referendum della CGIL, ma lo farà solo a titolo personale. La sottoscrizione o meno dei quesiti proposti non può essere però ridotta a una scelta individuale. Un’indicazione in tal senso – ciascuno faccia quel che gli pare – rappresenta solo un modo per non dare risposte e ridurre la portata di un cambiamento che – come s’è detto sin dall’inizio – deve essere assunto al di là delle proposte abrogative. La scelta di una più complessa strategia che operi oltre il singolo fatto o un unico partito. Se si riconosce che la situazione è cambiata – e chi può negarlo? – forse anche chi sino a ieri ha sostenuto politiche che ora rischiano di ridurre il lavoro a una mera variabile dipendente del mercato può decidere di cambiare. Né più, né meno.
In fondo, tornare ad ascoltare i lavoratori sarebbe finalmente dire “qualcosa di sinistra”. Nanni Moretti, tanti anni fa, lo chiedeva a Massimo D’Alema, noi oggi a Elly Schlein.
Qui il link per leggere e firmare i quattro quesiti referendari
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