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Articolo pubblicato su “il manifesto” del 13.12.2024.

Dopo le decisioni della Corte costituzionale e dell’Ufficio centrale per i referendum, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Non si tratta più solo di abrogare una brutta legge, ma di affermare in positivo un regionalismo che sia costituzionalmente orientato. Questo ora è scritto in una sentenza della Consulta e la Cassazione ha aperto le porte al definitivo smantellamento della normativa vigente. Dai giudici non ci si può aspettare di più, tocca al popolo della Costituzione far valere le sue ragioni.

Prima di lanciarci nella campagna per l’abrogazione totale della legge 86 del 2024 aspettiamo fiduciosi di superare l’ultimo ostacolo – il sindacato sull’ammissibilità che verrà svolto sempre dalla Consulta a fine gennaio – ma vale la pena cominciare a riflettere su come affrontare la battaglia decisiva.

Come riuscire a convincere 25 milioni di cittadini a schierarsi dalla parte giusta, dalla parte della Costituzione e della sua attuazione. In molti, giustamente, chiedono al Governo di fermarsi, forse però dovremmo pensare anche a rilanciare.

Spetta ai soggetti che hanno sostenuto il referendum, e a tutti coloro che hanno già ottenuto questi grandi e non scontati risultati, indicare la rotta del cambiamento. Ripartendo magari dalle chiare indicazioni della Consulta. Un regionalismo – è scritto nella sentenza – che per essere in armonia con il complesso della forma di Stato italiana deve reggersi sui principi di solidarietà, eguaglianza, garanzia dei diritti fondamentali e preservare l’unità della Repubblica.

L’opposto rispetto alla prospettiva di un regionalismo fondato sui principi di appropriazione e differenziazione, che ha mosso i “governatori” ad autoproclamarsi rappresentanti di un inesistente «popolo regionale» separato dal resto del territorio nazionale e a chiedere tutte le materie possibili, sottraendo le risorse al resto della Nazione.

La strada alternativa dunque c’è e deve essere ora percorsa con coraggio e fantasia, è nostra responsabilità esplorarla. Alla Corte costituzionale spetta infatti richiamare i principi e porre dei limiti insuperabili, ma non può certo essere un giudice a scrivere le leggi, neppure a definire i rapporti tra Stato e regioni, né le modalità in concreto della tutela dei diritti su tutto il territorio nazionale. Spetta alla politica, che opera entro i limiti della Costituzione, dare attuazione a un regionalismo solidale.

D’altronde, a ben vedere, neppure l’auspicata vittoria al referendum – se mai ci sarà – e l’abrogazione per intero della legge Calderoli ci esimerebbe dal proporre un altro regionalismo: perché non iniziare sin d’ora? Vero è che la pronuncia popolare assicurerebbe una forza politica e una legittimazione straordinaria, frutto del “plusvalore” democratico del referendum.

Diciamo così: il consenso popolare – se ci sarà – ci porrà in una situazione di vantaggio e potrà sbarrare la strada a chi ancora prova a oscurare il passaggio di fase sancito dalla decisione del nostro garante della Costituzione (le dichiarazioni del ministro per gli affari regionali e del presidente della regione Veneto tendono a ribaltare il significato di quanto deciso della Consulta e sono francamente al limite del vilipendio all’autorevolezza della Corte), ma non sarà neppure esso definitivo. Un referendum abrogativo vittorioso può cancellare totalmente la legge e assicurare una forza politica e una legittimazione straordinaria, ma non può fare nulla in positivo. E allora perché non anticipare questo passaggio per mostrare sin d’ora qual è il nostro orizzonte e assumerci le nostre responsabilità? Una campagna referendaria tutta all’attacco, in nome della solidarietà regionale e non solo contro l’illegittimo egoismo appropriativo.

È il modo migliore per chiedere il voto, non solo per dare un colpo definitivo a un regionalismo moribondo, ma per iniziare a guardare a un altro regionalismo possibile. Magari convincendo i più che vale la pena andare a votare. Si tratta di passare dalla protesta contro un disegno politico che si è rivelato contrario ai principi della nostra Costituzione, a una proposta che sia in grado di attuarla. Passaggio sempre delicato, ma siamo a questo bivio, non possiamo fare altro che attraversarlo.

Un solo suggerimento concreto può essere utile. Anche alla luce delle indicazioni fornite dalla Consulta (non solo con la sentenza 192 che ha archiviato l’autonomia differenziata, ma anche con la successiva sentenza 195 che ha richiamato alla necessità di ridefinire gli equilibri e le compatibilità finanziarie per garantire i diritti fondamentali «incomprimibili») per attuare il disegno costituzionale del regionalismo solidale, prima ancora di pensare ai trasferimenti di funzioni in base al principio di sussidiarietà bisognerebbe porre tutte le parti del territorio nazionale in condizioni di eguaglianza.

E allora, anziché pensare all’articolo 116, terzo comma della Costituzione, «considerata come una monade isolata» (così la Consulta), bisognerebbe prima attuare il sistema di autonomia finanziaria e fiscale così come scritto nell’articolo 119, quinto comma: «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». Come dire, passare dalla secessione dei ricchi alla riunificazione nazionale nella prospettiva della solidarietà, dell’eguaglianza e del rispetto dei diritti fondamentali. Un’inversione della storia. Ora spetta al popolo della Costituzione pretendere la sua realizzazione

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