È in atto un disfacimento della società. Le dimostrazioni contro i vaccini e contro il certificato verde non possono non richiamare alla memoria il Cile che apre le porte a Pinochet (scioperi dei camionisti a oltranza, cortei di piccola borghesia, casalinghe che percuotono coperchi con i mestoli…). Non arriveremo a quel punto, speriamo (ma dove sono gli anticorpi?). Si stanno saldando discorsi inquietanti. La discussione sul “passaporto verde” è solo la più eclatante; e si è – oggettivamente – saldata con quella sulla nuova disciplina della raccolta delle firme dei promotori di referendum. Entrambe (in questo sta l’elemento unificante) sono sintomi di un modo di intendere la democrazia – e il suo presupposto: la sovranità popolare – molto diverso da quello presupposto dagli “Stati costituzionali” della seconda metà del Novecento.
Al di là della irritazione che provocano gli atteggiamenti di molti degli avversari del passaporto verde o dei sostenitori della raccolta delle firme in via informatica, per la leggerezza con cui affrontano, anche se solo indirettamente, un tema tanto importante quale quello della concezione della sovranità popolare, queste discussioni meritano una grandissima attenzione: sono probabilmente elementi di accelerazione di un processo che sta comportando una trasformazione della stessa forma di Stato (in una direzione populistico-plebiscitaria a mio parere tutt’altro che desiderabile). Per sovranità popolare questi discorsi intendono la libertà naturale di tutti gli individui, che non potrebbe essere limitata in alcun modo (green pass) o non potrebbe essere gravata di alcun onere (recarsi nei luoghi deputati per sottoscrivere la richiesta di referendum).
Iniziamo dalla discussione sul passaporto verde. Qui ci vorrebbero squadre di caterpillar per rimuovere i cumuli di illogicità, di confusioni, di errori e di ignoranza che si sono accumulati sui mass-media, tanto da presentare – all’inizio della vicenda – come pareri oracolari la ripetizione da parte di giuristi illustri di alcune ovvietà che qualunque studente del primo anno conosce. Ma su queste confusioni la stampa, e parte notevole dei giuristi, ha continuato a insistere, e ha formato il brodo di coltura dei movimenti eversivi che oggi generano “turbamento”. Non è qui il caso di frugare in essi, ma bisogna avere ben chiaro che (come è stato esattamente scritto da Paolo Soldini) che “le colpe degli squadristi fascisti non sono solo degli squadristi fascisti”.
Limitiamoci a esaminare quattro argomenti “politici” addotti dagli avversari della vaccinazione e del passaporto,
Il primo: non esiste la certezza scientifica della innocuità del vaccino. Essendo stata la sperimentazione troppo breve, non è escluso che esso possa provocare danni in futuro. Dunque non si possono trattare i cittadini come cavie. Ma è ovvio che questa obiezione è priva di fondamento, giacché pretendere la certificazione scientifica di dati che solo il futuro potrà fornire, è impossibile. Come è stato detto: non è ancora stata inventata la macchina del tempo, che ci permetta di osservare l’oggi da un domani lontano. Obiezione, dunque, sciocca, ma che deriva da una convinzione molto grave: il rifiuto del principio – che dovrebbe essere ovvio, e che è connaturato con l’idea stessa di politica – per cui quando non è possibile dedurre una linea di comportamento da regole “scientifiche”, allora deve intervenire la discrezionalità politica, o più precisamente la “decisione politica”. Dire che questa non può intervenire fa crollare l’intero edificio politico (e giurisdizionale, essendo acquisito – Kelsen docet – che ogni pronuncia giudiziaria è frutto “anche” di una scelta di volontà, cioè di una decisione).
Il secondo argomento cardine, molto diffuso, è che il certificato verde è uno strumento obliquo e ricattatorio per affrontare il problema della diffusione dei contagi, mentre il metodo lineare sarebbe quello di imporre per legge l’obbligo vaccinale universale. In quanto tale, oltre che essere sintomo di pavidità politica, il passaporto comporterebbe ingiustificate “discriminazioni” (terzo argomento).
L’argomento è privo di senso. Premesso che una cosa è l’obbligo vaccinale universale imposto per legge – che non c’è –, mentre altra e diversa cosa è l’obbligo di esibire il green pass per l’esercizio di determinate attività, imposto con legge – che invece c’è (anche se questa distinzione sfugge a molti giornalisti della carta stampata e conduttori dei talk show televisivi) –, non si può non ammettere che, una volta che fosse imposto per legge l’obbligo vaccinale universale, bisognerebbe approntare un sistema di controlli e sanzioni, senza il quale l’obbligo sarebbe inesistente. E si tornerebbe daccapo, anzi in un contesto ancora più invasivo, perché come altrimenti garantire l’osservanza dell’obbligo legale e universale se non prevedendo l’obbligo legale e universale di esibire la certificazione dell’avvenuto assolvimento dell’obbligo? Qualunque agente di pubblica sicurezza potrebbe in qualunque momento chiedere a chiunque di esibire quella certificazione. E allora? Come si può ingenuamente credere che, stabilito l’obbligo universale, la realtà dei comportamenti di per sé si adegui a esso? E che dunque il controllo tramite certificazione diventi inutile? Ma è tollerabile che in una società “civile ovvero politica” si possa pensare una cosa simile? Certo, se l’obbligo fosse universale non si potrebbe parlare di “discriminazioni”. Ma se la distinzione tra vaccinati e non vaccinati è ragionevole, alla luce dei parametri costituzionali, come si può qualificare come discriminazione l’accertamento di un obbligo imposto solo a una delle due diverse categorie?
Il quarto argomento è che non si può imporre un obbligo per poter esercitare una attività che è un diritto (studiare, lavorare…). Anche qui siamo di fronte a una colossale violazione della logica. Se la ratio del green pass è impedire la compresenza di troppe persone in un determinato spazio, il fatto che queste persone si ritrovino per studiare la Critica della ragion pura o per ballare lo Slow Foxtrot è esattamente lo stesso: del tutto irrilevante. Eppure molti accademici ci sono cascati (per non dire dei sindacati).
Per quanto riguarda il referendum è già stato detto l’essenziale. Il modello indiscutibile è quello del cittadino che non deve essere disturbato mentre fuma il narghilé sdraiato sui cuscini, come un pascià. Sovranità popolare vuol dire libertà di non essere infastidito. Come si può pensare che un tale cittadino sia l’elemento fondante della maestà del popolo, e cioè della sua sovranità? In tempi bui questo cittadino era detto: panciafichista. Stiamo facendo di tutto perché quei tempi bui ritornino. La distruzione della ragione è in atto. Purtroppo in nome della libertà e del lavoro.
La questione no green pass va dunque vista come sintomo di un problema molto più profondo di quello del green pass stesso. Non è in questione il giudizio morale su chi protesta contro una politica che può aver avuto molte pecche. Non è in questione che esistano molte persone affette da gravi forme di ansia o da fobie, per le quali l’idea stessa del vaccino desta repulsione. Non è in questione che ampi strati della società si sentano impoveriti e abbandonati. Sono problemi che devono essere risolti da politiche mirate e ben giustificate e articolate. Quel che è in questione è la tenuta o meno della possibilità stessa di esistenza dei “gruppi politici”, cioè, oggi, degli Stati. Si potrebbe dire: il loro “poter essere” medesimo, quello che negli studi classici si chiamava l’“obbligazione politica”, dalla quale discende quel legame che rende ammissibile il principio di maggioranza e il dominio della legge anziché della forza bruta. Di qui le gravissime responsabilità di quello strato di intellettuali, politici e giornalisti che hanno coltivato – con somma leggerezza e ignoranza – le contraddizioni e le sciocchezze di cui si è nutrita la jacquérie che oggi stiamo osservando. E di qui il dovere della più grande fermezza di fronte a essa e soprattutto di fronte ai suoi più o meno consapevoli fomentatori.
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