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Ricordi di Elettra Deiana

Un ricordo di Elettra Deiana, amica, politica e intellettuale femminista da poco scomparsa, assieme a una lettura di alcuni suoi articoli pubblicati su Bandiera Rossa.

Articolo pubblicato su “transform!italia” il 22.02.2023.

Non è facile per me parlare di Elettra a soli pochi giorni dalla sua scomparsa.  Molte compagne e molti compagni, nei loro ricordi alla cerimonia funebre e nei diversi articoli su quotidiani e siti web (si possono trovare tutti sul suo profilo Facebook) hanno tratteggiato la sua figura di intellettuale, femminista militante, dirigente comunista, parlamentare, molto meglio di come potrei fare io. Né, peraltro, mi sento di parlare dell’amica che negli ultimi anni era diventata una persona di famiglia, dei momenti di convivenza durante i fine settimana e i periodi di vacanza passati a casa nostra, della passione che nutriva, fin dai primi mesi di vita, per il nostro primo nipote, oggi undicenne. Non è solo pudore, è che il tempo non ha ancora sedimentato i sentimenti trasformandoli in ricordi. E mi è difficile anche parlare del suo malessere degli ultimi due anni. Malessere non nel senso di malattia ma di “mal essere”, mal esistere. Un “male di esistere” che per la pandemia e la guerra aveva colpito proprio lei che professava la “rivoluzione dell’esistenza”. La “strage di anziani” le aveva trafitto le carni e l’anima, la guerra vissuta come la vera sconfitta della nostra generazione.

In questi giorni ho cercato di ricordare Elettra frugando nei meandri più reconditi della memoria. “Ricordare” nell’etimo latino di “riportare al cuore” – la comune passione per l’etimologia e la semantica dava luogo ad appassionate discussioni sul degrado del linguaggio, in particolare quello televisivo, e sulle sue radici politiche. Quindi, non quello che c’è già nella mente ma ciò che ella stessa, nella sua autobiografia1, definiva “ricordi vaghi, indefiniti, spesso confusi”. Ed è così che “i ricordi mi vengono incontro”, come direbbe Edgar Morin, e, man mano, alcuni diventano più nitidi, altri restano nebulosi.

Una giovane donna di ventinove anni, glaucopide (nel senso della lucentezza degli occhi), riservata e, al tempo stesso, sagace, un’intelligenza vivace, una bellezza discreta ma di quelle che lasciano il segno. Questo è il ricordo più antico che ho di Elettra Deiana. L’ho conosciuta, insieme al suo compagno Edgardo Pellegrini, verso la fine del 1970. Avevo iniziato da poco a frequentare la sede romana dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (Sezione italiana della IV Internazionale). Il mio interesse era nato dalla lettura del loro libretto “Risposta alle Tesi del Manifesto”, in cui avevo trovato conferme ai dubbi che mi avevano suscitato le famose “Tesi”. Di quel Gruppo mi piaceva, innanzi tutto, l’apertura internazionalista, la capacità di mettere in collegamento la condizione operaia nei paesi industrializzati con quella dei proletari dei Paesi meno sviluppati, per cui dalle discussioni sulle lotte dei lavoratori della Fiat, si passava a parlare di America Latina o di Indonesia – era ancora vivo il ricordo dei massacri dei comunisti ad opera della controrivoluzione di Suharto, pilotata dagli USA, e forte era l’indignazione per la generale indifferenza/ignoranza nell’opinione pubblica italiana. Mi piaceva anche il rigore nell’individuare e denunciare tutte le forme di burocrazia stalinista presenti nelle diverse formazioni e movimenti politici, dai Partiti Comunisti europei alla Rivoluzione Culturale cinese, senza mai indulgere a posizioni estremistiche né a tentazioni riformiste.

E poi c’erano le persone. Era difficile rimanere indifferenti al fascino dello spessore culturale e politico di Livio Maitan. Un carisma, un entusiasmo quasi giovanile che mi ricordavano un altro Livio: Livio Labor, colui che aveva portato le ACLI a liberarsi del collateralismo con la Democrazia Cristiana, trasformando questa organizzazione da bastione cattolico dell’anticomunismo militante a punta di diamante della sinistra d’ispirazione cristiana, connotata da una inedita radicalità. Edgardo Pellegrini era il pivot del Gruppo romano, uno degli artefici della ricostruzione dei GCR, dopo una stagione di lacerazioni e scissioni; penna brillante – nel periodo dell’entrismo era stato giornalista del Paese Sera e dell’Unità – aveva appena assunto la direzione di Bandiera Rossa; un eloquio fluente e accattivante, basato sul ragionamento logico senza concedere nulla alla demagogia e non contaminato dagli stereotipi del linguaggio dell’“estrema sinistra”.

E poi c’era Elettra. Non ancora la personalità di spicco che, di lì a qualche anno, sarebbe diventata nella leadership della Lega Comunista Rivoluzionaria (così si chiamò l’Organizzazione a partire dal ‘79). Ma lontana mille miglia dalla classica figura della “compagna del leader”. Interveniva con parsimonia nei dibattiti ma sempre con non comune acutezza nelle analisi e, soprattutto, nei giudizi politici.

Con Elettra ed Edgardo si era subito stabilita una corrente empatica, tradotta in una intensa frequentazione. Ciò che mi piaceva di più di questa bella coppia era il modo garbato e intelligente con cui manifestavano il loro assoluto rifiuto di ogni conformismo. Per quanto riguardava me, era evidente la loro curiosità per un esponente della sinistra ACLI convintamente marxista, il che andava ben al di là della “scelta socialista” fatta pochi mesi prima da questa organizzazione nell’annuale Convegno di Vallombrosa.

Quando discutevamo tutti e tre, trovavo soprattutto in Elettra una sponda, spesso sintonica, ai miei dubbi e alle mie inquietudini. Per esempio, non trovavo nei GCR una risposta convincente alla questione fondamentale del “rapporto avanguardie-masse”, non solo a livello fattuale ma anche sul piano teorico; avvertivo che l’organizzazione aveva assunto una piegatura più di tipo leninista che non luxemburghiano. Forse anche per la mia formazione, ero alla ricerca di una soluzione a questo problema che valorizzasse sinergicamente il ruolo delle “avanguardie coscienti” e la “partecipazione delle persone”. Per questo non mi soddisfacevano le soluzioni offerte dalla “sinistra extraparlamentare”: né l’“inchiesta maoista” e il paradigma “dalle masse alle masse” né, tanto meno, la negazione della stessa esistenza delle avanguardie. Una conferma che su questo terreno ci fosse più assonanza con Elettra che non con Edgardo, l’ho trovata in un passo della sua autobiografia – citato anche nel ricordo di Maria Luisa Boccia2.

Ricordo molto bene una discussione sull’alienazione. Un argomento che sul piano teorico conoscevano senza dubbio meglio di me, ma non posso dimenticare gli occhi di Elettra mentre raccontavo loro dell’alienazione vissuta quotidianamente sulla mia pelle nei miei quattro anni di fabbrica, pur nello status privilegiato di impiegato, ultimo e infimo strumento del potere di una grande multinazionale americana. Queste discussioni avvenivano spesso in auto, nel tragitto tra Roma e Aprilia, dove andavamo a fare il cosiddetto “lavoro politico” all’uscita degli operai della Massey-Ferguson: volantinaggio, discussioni, tessiture per la costruzione di una cellula operaia di cui non ho più saputo nulla. Durante l’ultimo viaggio che facemmo ad Aprilia, Edgardo – si era fatto scuro in volto, la voce grave – ci parlò di una importante riunione di Potere Operaio, in cui si era appalesata la componente che propugnava l’opzione della “lotta armata”. Non avevo mai visto Elettra reagire con tanta veemenza e tanta indignazione.

Quella frequentazione durò solo pochi mesi, fino all’estate del 1971, quando Elettra ed Edgardo si trasferirono a Milano, inseguendo un altro oggetto di desiderio militante, i CUB, i Comitati Unitari di Base. La mia frequentazione del Gruppo trotzkista si fece rarefatta fino a terminare del tutto, anche perché assorbito da altre militanze con impegni e responsabilità più dirette. Non ho mai più rivisto Edgardo, scomparso nel 1998, Elettra l’ho rivista nel 2008. Ne seguivo da lontano le vicende politiche: il suo ingresso nella segreteria dei GCR, nel 1978, e poi nella Lega Comunista Rivoluzionaria, la confluenza in Democrazia Proletaria e poi in Rifondazione Comunista. Da allora l’unico filo con Elettra fu, dapprima, la lettura degli articoli che scriveva su Bandiera Rossa, poi, qualche sporadico ascolto, su Radio Radicale, di suoi interventi alla Camera dei Deputati. Una relazione del tutto indiretta ma che mi dava la misura della crescita del suo spessore politico; quella della sua profondità umana lo avrei scoperto dopo il rincontro.

Gli articoli di Elettra Deiana su Bandiera Rossa

Le lotte nella scuola

Pensando ai suoi articoli, sono andato a spulciare ciò che rimane della mia collezione di Bandiera Rossa. Vi ho trovato articoli del ’74- 75 sulle lotte nella scuola, settore Elettra che seguiva anche per il suo lavoro d’insegnante. Si tratta di articoli che punteggiavano le vertenze di quel momento, caratterizzati da una costante critica ai sindacati di categoria, subalterni alle Confederazioni, concentrati sui “Decreti delegati” anziché sui bisogni dei lavoratori della scuola. Una critica che non risparmiava la presenza della sinistra extraparlamentare nel sindacato scuola. A questo proposito, ho trovato molto interessante – anche per capire o ricordare lo spirito del tempo – un articolo a margine di un convegno della Federazione CGIL-CISL-UIL dell’aprile del 1975 sulle 150 ore dopo il primo anno di operatività. Anche qui una critica serrata in varie direzioni. Innanzi tutto, sui limiti delle stesse 150 ore: uno strumento inadeguato per rispondere alle “esigenze sentite da larghi settori operai di uscire dalla fabbrica e di affrontare problemi più complessivi, confrontandosi con l’intera società e portandovi le proprie esperienze, i propri bisogni”3.

I risultati di quel primo anno sono giudicati estremamente modesti, sia sul piano quantitativo che qualitativo. Si individuano forti rischi: dall’esterno, l’attacco alle 150 ore da parte del Ministro della Pubblica Istruzione Malfatti e il tentativo da parte della burocrazia ministeriale di banalizzare l’esperienza (“corsa al pezzo di carta”). Dall’interno: la preoccupazione per il ventilato passaggio della gestione delle 150 ore dalla FLM alle Confederazioni; ma anche quello di relegarle in una esperienza elitaria e quindi condannarle alla ghettizzazione. E qui, ancora, la critica di Elettra Deiana si rivolge alla sinistra sindacale ed extraparlamentare e sulla sua rappresentazione mitologica delle 150 ore come strumento della classe operaia per trasformare la scuola e il rapporto tra questa e il mercato del lavoro. Ma nonostante queste critiche, Elettra afferma con forza l’esigenza di difendere, da tutti i rischi, le 150 ore e di estenderle collegandole alle lotte degli studenti e degli insegnanti, ma evitando gli idealismi di un certo estremismo. “Ma questo deve avvenire in termini politici, individuando obiettivi e terreni di lotta unificanti e senza scadere in sterili prefigurazioni che in nulla aiutano la classe operaia e aprono anzi la strada a pericolose illusioni di segno neoriformistico”.

Le lotte operaie e sindacali

In alcuni articoli scritti tra il 1979 e il 1983 (anno in cui si ferma la mia incompleta collezione di Bandiera Rossa), Elettra Deiana sposta la sua attenzione critica sulle vicende generali delle lotte operaie e del sindacato. Sono gli anni segnati dalla “svolta” (o “strategia”) dell’EUR, dove, nel febbraio del ’78, si svolse la Conferenza nazionale di CGIL-CISL-UIL che, soprattutto su ispirazione di Luciano Lama, sancì l’offerta al padronato della moderazione salariale in cambio di investimenti e occupazione. In un articolo dell’ottobre ’79 4, chiosando il “ritorno in fabbrica” proclamato dallo stesso Lama – che ammetteva che dopo quasi due anni la “svolta” non aveva conseguito nessun risultato, addossandone però la responsabilità al Governo – osservava come questo “ritorno” si prospettava all’insegna della produttività assunta come obiettivo del sindacato.

Più tardi, la sconfitta alla FIAT – dopo i famosi 35 giorni di lotta per reintegrare i 61 licenziati – è considerata una conseguenza naturale della “strategia” dell’EUR ma anche il risultato della miopia di una strategia sindacale focalizzata unicamente sul braccio di ferro con la controparte aziendale, perdendo di vista che l’attacco padronale non rispondeva solo alle esigenze di ristrutturazione della Fiat ma era l’avamposto di una riscossa che il capitale stava portando a termine dopo un decennio di lotte operaie. Per questo esso esigeva la risposta globale di una lotta generale che non poteva essere lasciata sulle spalle dei lavoratori della FIAT, con un negoziato soltanto aziendale5.

Il lodo Scotti

L’ ultimo articolo 6sulla parabola sindacale tra fine anni ’70 e inizio anni ’80, che ho potuto reperire, racconta dell’accordo del 22 gennaio 1983 tra Governo, Confindustria e CGIL-CISL-UIL, visto come conclusione (a quel momento) della stagione del ripiegamento sindacale iniziato con la strategia dell’EUR. L’accordo, chiamato anche “Lodo Scotti” (dal nome dell’allora Ministro del Lavoro), viene ricordato soprattutto per la decurtazione del 15% del punto unico di contingenza, la sospensione per 18 mesi della contrattazione integrativa, la concessione alle imprese di una consistente fiscalizzazione degli oneri sociali e finanziamenti per investimenti nel Mezzogiorno, norme contro l’assenteismo, assunzione di giovani in regime di formazione lavoro. L’articolo così individuava le prevedibili conseguenze dell’accordo: riduzione dei salari reali, pieno controllo padronale sul mercato del lavoro e arretramento dell’occupazione, indebolimento delle capacità negoziali del sindacato anche per la fine della contrattazione articolata, passaggio a un modello di relazioni industriali non più conflittuale ma circoscritto nel perimetro delle “compatibilità”.

È soprattutto sul significato più generale che l’accordo assumeva nel quadro delle lotte dei lavoratori che si erano venute a creare a partire dall’”autunno caldo”, che la riflessione diventa pregnante. “Tutta l’impalcatura politico-rivendicativa (egualitarismo, controllo sull’organizzazione del lavoro, rifiuto degli incentivi, ecc.) e il tessuto di coscienza operaia su cui si era costruito ed era cresciuto il sindacato dopo la grande ascesa di lotte dell’autunno del ’69, vengono rimessi drasticamente in discussione”. È interessante, a questo proposito, la citazione nell’articolo di una dichiarazione, Ottaviano Del Turco: “Con questo accordo abbiamo vomitato un pezzo della nostra storia”, rivelatrice – oltre che del profilo pluridimensionale dell’allora Segretario Generale Aggiunto della CGIL – del disagio vissuto da molti dirigenti sindacali. Così continua l’analisi di Elettra: “Lo svuotamento dei Consigli, la prassi accentratrice e manipolatoria delle decisioni, la definitiva trasformazione della sede unitaria CGIL-CISL-UIL in luogo di estenuanti mediazioni tra le componenti sul come impacchettare ai lavoratori la linea dei sacrifici, sono le conseguenze del nuovo corso imposto al sindacato dopo l’assemblea dell’EUR”.

Ma tutto il senso dell’articolo è quello di non fermarsi alla critica dell’accordo. Partendo, da un lato, dalla costatazione dell’inefficacia, fino a quel momento registrata, della pressione della base operaia sui vertici sindacali nonché delle battaglie condotte dall’interno da parte della sinistra sindacale, dall’altro lato, dalla contraddizione tra una base sindacale che rifiutava l’accordo e la sua rinuncia a mettere in discussione la stessa rappresentatività dei vertici sindacali – ai quali era stata lasciata una “delega in bianco per la trattativa” – la conclusione è quella di una riorganizzazione della base operaia, superando la dispersione delle lotte con efficaci strumenti di coordinamento, per “accrescere il ruolo delle strutture unitarie che ancora resistono” e che “difendono una concezione di classe del sindacato”.

Governabilità e seconda repubblica

A partire dal 1980, Elettra Deiana firma una serie di articoli sulla situazione politica e segue assiduamente l’attività e le posizioni del Partito Comunista Italiano, con acume analitico quanto con critica rigorosa e intransigente. Un articolo che dà il quadro generale della situazione politica generale dopo la caduta del Governo Cossiga 2 (28 settembre 1980) – per il rigetto della Legge finanziaria, a opera di un certo numero di franchi tiratori (“vil razza dannata” li aveva chiamati la Repubblica) – è interessante perché dà conto del dibattito sulla “governabilità” e delle prime proposte per una “seconda repubblica”7. La governabilità fu poi il leitmotiv della politica socialista per tutti gli anni ’80, ma già da allora i socialisti “si sono fatti portavoce di queste aspirazioni di normalizzazione della vita politica”.

Per quanto riguarda la “seconda repubblica” si citano gli articoli di Giuseppe Tamburrano sull’Avanti e di Salvatore Sechi (storico del PCI poi uscito dal partito nel 1983) sul Corriere della Sera. Ambedue gli articoli non parlano della “seconda repubblica” frutto di un profondo mutamento costituzionale così come l’aveva intesa a suo tempo Giorgio Almirante, ma propongono di introdurre modifiche alle leggi elettorali nella direzione di un simil premierato e di un sistema semi-maggioritario; ciò che avvenne sostanzialmente una dozzina di anni dopo con il “Mattarellum”. “Incapaci di trovare una governabilità impossibile con gli attuali rapporti di forza, i politologi sognano una seconda repubblica. Il pericolo si farà concreto solo se la resistenza operaia sarà sconfitta dall’attacco padronale e dalla strategia perdente dei riformisti”.

La “governabilità” viene da Elettra analizzata da un punto di vista di classe. Essa, pertanto significa: attacco alla scala mobile, aumento del costo della vita, ristrutturazioni aziendali e licenziamenti. C’è poi l’analisi delle cosiddette forze in campo. La borghesia vuole la governabilità – sia nella versione con il PCI (unità nazionale) che in quella con il PSI – ben sapendo che essa non può avere vita facile, perché “dovrebbe imporre le regole del gioco volute dalla borghesia a una classe operaia che non ha nessuna intenzione di subirle supinamente”. Qui Elettra mostra un grande ottimismo sulla tenuta del movimento sindacale e sui problemi del campo avverso: “per imporre il passaggio a questa seconda repubblica (…) occorrerebbe un sostanziale ridimensionamento della forza e della rappresentatività sociale e politica del movimento operaio”. Da qui l’attacco di Agnelli, con il licenziamento alla FIAT dei 61 lavoratori e la campagna denigratoria contro il Sindacato dei Consigli. Ma da qui la logica ferrea della conclusione politica che Elettra trae sulla questione della “governabilità”. Se è questa la “radice della cosiddetta governabilità, è da qui che bisogna partire”; “occorre partire dalle lotte, rafforzarle, unificarle e generalizzarle”. “Il movimento operaio ha la forza per mettersi su questa strada”. Una vera professione di ottimismo gramsciano.

La svolta atlantista e la terza via

L’attività di notista politica di Elettra si dispiega, come detto, soprattutto seguendo passo dopo passo le vicende del PCI; e, da perfetta analista comunista, le questioni interne al partito, quelle della politica nazionale vengono sempre intrecciate con il quadro internazionale. In questo senso il punto di partenza non può che essere la svolta atlantista del partito, compiuta da Berlinguer già dagli anni ‘70. Un’occasione che non poteva passare inosservata, per ribadire la critica alla scelta del PCI e al sostanziale capovolgimento della sua collocazione internazionale, fu l’approvazione alla Camera dei Deputati, il 12 marzo 1980, di una Risoluzione di politica estera su un testo concordato da tutti partiti, eccetto il Partito Radicale e il Movimento Sociale-Destra Nazionale. Una Risoluzione d’ispirazione democristiana, e colma di “succube e tracotante atlantismo”8, in cui oltre a ribadire la fedeltà al Patto Atlantico, si impegnava il Governo a collaborare con gli USA per la “riduzione bilanciata” degli armamenti, e si condannava l’intervento sovietico in Afghanistan. La Risoluzione fu approvata, ovviamente, con il voto dichiarato del Gruppo parlamentare comunista, ma con 60 franchi tiratori, tra cui molti del PCI; una prova dell’inquietudine che su questi temi attraversava una parte non trascurabile del partito.

La critica di Elettra si muove su tre livelli. Il primo di politica internazionale, d’ispirazione pacifista: accettare il principio della coesistenza pacifica significa ragionare in termini di blocchi militari. E poi, mentre si condanna l’URSS per l’Afghanistan, “L’imperialismo USA è quasi scomparso dalle polemiche del PCI”. Il secondo riguarda la proposta della “terza via”, di un ruolo autonomo dell’Europa rispetto alle due superpotenze, che il PCI avanzava anche per rassicurare la propria base che non ci si consegnava completamente agli Stati Uniti. Ma questa viene considerata una posizione fragile, da un lato, perché non smentisce i progressivi adattamenti del PCI alla politica americana, dall’altro, perché sposa le ragioni dell’imperialismo europeo, in primo luogo di quello tedesco. “Così la terza via finisce per essere soltanto un vicoletto, una fragilissima ipotesi che si gioca su una differenza tattica interimperialista”. Il terzo livello di critica si riferisce all’uso strumentale delle scelte di collocazione internazionale in funzione dei propri obiettivi di posizionamento in campo nazionale. In questo senso, il bersaglio della critica viene candidamente offerto dal Capo Gruppo Fernando Di Giulio, che difendendo il voto della Risoluzione, sosteneva che la convergenza con la DC sulla politica estera era la dimostrazione che non ci sono insormontabili problemi di linea politica che giustifichino il rifiuto della DC di collaborare apertamente con il PCI. Insomma, un partito che nei suoi vertici non si libera dalla nostalgia dell’unità nazionale.

Tra USA, URSS e Cina

Poco tempo dopo, è il viaggio di Enrico Berlinguer in Cina (13-23 aprile 1980) a offrire materia di critica sulla politica internazionale del PCI. Un viaggio che va inquadrato in un contesto internazionale in cui la Cina, con la “teoria dei tre mondi” di Mao Tse-tung (al primo appartengono i Paesi imperialisti USA e URSS, al secondo i Paesi occidentali più sviluppati, al terzo la Cina e i Paesi colonizzati) ha sostanzialmente sviluppato una politica di crescente allineamento agli USA in funzione antisovietica. Tanto che Berlinguer sente il bisogno di precisare che il viaggio non è contro qualcun altro (URSS) e ribadisce che l’impegno per la pace deve riguardare il più ampio spettro di Paesi, partiti, culture, religioni. Non vi è dubbio, però, che sono proprio questi riassestamenti del quadrante internazionale che spiegano il riavvicinamento del PCI al Partito Comunista Cinese, dopo la rottura ufficiale del 1965. “Il viaggio della delegazione comunista a Pechino è dunque in primo luogo un messaggio che il PCI lancia al suo interlocutore privilegiato: la borghesia italiana e quella degli altri Paesi e quella degli altri Paesi imperialisti. Il senso del messaggio è chiaro: il PCI ha ormai imboccato una strada che lo allontana definitivamente dall’URSS e lo spinge a cercare nuove alleanze” 9.

Ma tutto ciò ha inevitabili riflessi interni al partito. “La crisi di identità che attraversa il Partito, dopo il fallimento del compromesso storico e dell’unità nazionale, si unisce ormai alla perdita di identità sul piano internazionale”. Per questo la base deve vedere che “accanto ai suoi incontri e alle sue aperture verso le socialdemocrazie europee figuri anche un incontro con un partito comunista alla guida di uno Stato operaio, verso cui larghi settori del PCI ebbero in passato un atteggiamento di simpatia e favore, poi, soffocato soltanto dalla necessità di rigido ossequio alle direttive di Mosca di rompere con la direzione cinese”.

In questo gioco di riposizionamenti, l’allontanamento del PCI da Mosca non significa rottura definitiva né che esso possa tranquillamente sposare posizioni degli USA indigeribili. “Il PCI è costretto allora a giocare la carta Europa come perno di una politica di terza via (…). La carta europea diventa così il terreno di mediazione con cui il PCI cerca di conciliare problemi assai contraddittori e in realtà inconciliabili”; cioè: stringere legami più saldi con l’imperialismo USA, non allarmare la propria base, evitare un eccessivo irrigidimento dell’URSS nei propri confronti.

La conclusione dell’articolo sul viaggio di Berlinguer in Cina è disperatamente amara. “Nessun partito comunista, nessuno Stato operaio è in grado di offrire un punto di riferimento unitario, una prospettiva credibile al movimento operaio internazionale”.

La questione polacca

Un anno dopo, il colpo di Stato militare in Polonia e il ruolo che in essa ebbe l’URSS, fece sì che il PCI imprimesse una ulteriore accelerazione al suo allontanamento da Mosca. Nella Direzione e nel Comitato Centrale che si tennero nel gennaio 1982, il PCI deve ancora una volta fare i conti con lo stalinismo e ribadisce la propria storia diversa e atipica. Nei documenti approvati dai due organismi prevale la preoccupazione di far accettare dalla base del partito un orientamento di rottura con il mito del modello sovietico e l’ammissione della “mancanza di democrazia” nei Paesi dell’Est. Ciò che viene da Elettra maggiormente criticato è la posizione del PCI nei confronti dei principali attori della vicenda polacca. Da un lato, un atteggiamento reticente e scagionatore sulle responsabilità del POUP e, dall’altro, una non velata critica di estremismo a Solidarnosc. “Di fronte a un movimento che sempre più decisamente assumeva una dinamica dirompente e si caricava delle aspirazioni e dei bisogni delle grandi masse, fino allora soffocati dal regime, di fronte alla domanda di potere che sempre più chiaramente emergeva dall’azione di Solidarnosc e dal movimento per l’autogestione, il PCI ha sviluppato un atteggiamento di diffidenza e di critica”10.

Nell’operazione di darsi una nuova identità, la dirigenza del PCI sconta anche la presenza di un dissenso interno, la cui punta dell’iceberg è rappresentata da Armando Cossutta, isolato ma l’unico ad aver preso pubblicamente posizione, sulle pagine dell’Unità, contro il documento del Comitato Centrale. Cossutta attacca lo sbocco socialdemocratico impresso alla critica allo stalinismo. Il giudizio di Elettra è articolato: “non è stato in grado di offrire altro che la riproposizione di vecchi miti, di vecchie certezze (ruolo e riferimento all’URSS) ormai logore e screditate, tacendo sui fatti polacchi e sulle specifiche responsabilità del Kremlino nell’iniziativa repressiva contro la classe operaia polacca”11. “Ma non c’è dubbio che una serie di argomentazioni di Cossutta sulla natura dell’imperialismo, sulla necessità di non assolutizzare i valori della democrazia occidentale, (…) colgono problemi reali e toccano la sensibilità dei settori del partito più legati a una visione di classe e internazionalista della lotta politica”12.

Nel riferire l’esortazione di Alfredo Reichlin: “elaborare e portare avanti quella via italiana al socialismo che Togliatti tracciò nel 1956”, Elettra aggiunge: “La terza via – questo l’unico dato sicuro – assomiglia oggi più di ieri al modello socialdemocratico. Ma Berlinguer dice che non è così”. Ancorché non esplicitato, il riferimento sembra essere a quanto affermato da Enrico Berlinguer nell’intervista di Eugenio Scalfari sulla Repubblica del 28 luglio 1981.

L’Eurocomunismo

Non poteva mancare un’analisi, come sempre puntuale, della crisi dell’eurocomunismo. Elettra la compie in un editoriale del supplemento internazionale di Bandiera Rossa, del maggio 1982.  Si parte dalle cause di una crisi dovuta “da una parte, al fallimento dell’ipotesi eurocomunista di fronte all’evoluzione del quadro internazionale, dall’altra, al tipo di politica adottata dai tre partiti nei rispettivi Paesi”13.  Per quanto riguarda il quadro internazionale, una delle “illusioni” su cui si fondava l’eurocomunismo, la persistenza della “coesistenza pacifica”, viene minata dal rilancio della politica di riarmo degli Stati Uniti, dall’intensificazione delle tensioni tra USA e URSS, l’insorgere di nuovi contrasti nei Paesi dell’Est europeo, i fatti di Polonia.

Per quanto attiene alle cause relative alle politiche nazionali “basti pensare alla situazione di un PCI che, nonostante il grande seguito di massa e la prepotente domanda di cambiamento che i lavoratori hanno espresso in Italia contro il sistema di potere democristiano, non ha saputo produrre, in termini concreti, altro che il proprio sostegno esterno al governo di unità nazionale”. Oppure “a un PCE ormai in decomposizione e incapace di apparire una reale alternativa al PSOE, o infine a un PCF che si ritrova oggi al Governo sotto l’ala protettrice dell’odiato Mitterand e sull’onda di uno scacco elettorale di vaste dimensioni come quello delle elezioni presidenziali dello scorso anno”.

Ma è venuta meno anche un’altra delle “illusioni” assunte a fondamento dell’eurocomunismo: la prospettiva di una pace sociale all’insegna della strategia delle riforme; “le grandi promesse di trasformazioni sociali si stanno risolvendo sempre più chiaramente in una volgare accettazione o gestione dell’austerità borghese”. Alla volontà di rivincita della borghesia fa riscontro l’incapacità dei tre partiti di sviluppare una forte mobilitazione anticapitalistica. Finisce così la chimera eurocomunista di “sviluppare un processo graduale e democratico di trasformazioni ‘dall’interno’ per una ‘transizione al socialismo’.

Tutti e tre i partiti comunisti non riescono a dare corpo alla “terza via” e, in questo, affermare una propria identità; hanno difficoltà a competere con i rispettivi partiti socialisti, portatori in politica della “modernità” e fautori della “governabilità”. Il PCI è tra i tre partiti “quello che ancora meglio resiste al processo di crisi che investe l’eurocomunismo, ma al cui interno agiscono poderose spinte alla differenziazione, preludio di crisi più gravi”. È impressionante il carattere predittivo di queste ultime parole.

Lo strappo

La questione del rapporto con l’Unione Sovietica viene ripresa nella relazione con cui Enrico Berlinguer, il 2 marzo 1983, ha aperto i lavori XVI congresso nazionale del PCI, e nella quale il Segretario del PCI cerca di moderare il senso del cosiddetto “strappo” con la tradizione filosovietica. Egli, infatti, dice che si è esaurita la spinta propulsiva del “modello sovietico”, mentre dopo il colpo di stato di Jaruzelski aveva parlato di “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. Questo aggiustamento viene fatto nel “tentativo di smorzare i malumori interni”14. Una precisazione che non può che trovare d’accordo chi, dal versante della Quarta Internazionale, questa distinzione l’ha sempre fatta, ma che si colloca in un processo di “mutamenti ideologici, politici, strutturali”, e di allontanamento da “valori che sono diventati un peso troppo ingombrante per un partito come il PCI profondamente e materialmente inserito nel sistema capitalistico occidentale”.

I limiti dell’alternativa

Il Mezzogiorno

In un supplemento di Bandiera Rossa, del novembre 1982, dedicato al Mezzogiorno 15 Elettra fa un bilancio della politica meridionalista del PCI. Nel corso di quell’anno erano stati pubblicati su Rinascita alcuni articoli di Gerardo Chiaromonte e di Achille Occhetto in cui si esprimeva grande preoccupazione non solo per l’acuirsi della crisi sociale ed economica nel Mezzogiorno, ma anche perché la qualità della questione meridionale si era trasformata combinandosi in una micidiale miscela esplosiva con nuovi elementi quali la disoccupazione giovanile, il malcostume politico, la criminalità organizzata. C’è preoccupazione, ovviamente, per la perdita di consenso al PCI da parte delle masse meridionali, certificata dai deludenti risultati elettorali successivi al grande balzo in avanti del 1976.

“Non sfugge certo al PCI l’acutezza della crisi che sconvolge oggi il Meridione. Le descrizioni di queste crisi, anzi, sono sempre ricche e articolate”. Ma analisi, sempre e solo analisi, “nulla o quasi nulla, invece, sul piano delle proposte concrete”. Insomma, “alla descrizione dei fenomeni e alla denuncia moralistica dei mali non fa riscontro un’adeguata capacità di individuazione delle cause e soprattutto delle responsabilità dirette che il PCI ha in questa situazione. Intorno alla metà degli anni Settanta, come effetto della grande ascesa operaia degli anni precedenti, si determinò un movimento di massa che spostò a sinistra, sul piano politico ed elettorale, i rapporti di forza tra le classi. Le popolazioni, i lavoratori, le donne, i giovani del Sud entrarono massicciamente a far parte di questo movimento, spezzando l’inerzia, la subalternità, l’arretratezza culturale e politica del passato, avanzando, come nel resto dell’Italia, una domanda di cambiamento, una speranza di fine del regime democristiano. (…) Quel momento rappresentò il punto più alto, politicamente, della grande ascesa sociale delle masse italiane. Ne fu premiato soprattutto il PCI che (…) appariva come uno strumento di alternativa e di cambiamento. E invece nulla fu cambiato e il PCI si servì degli eccezionali risultati di quegli anni non per sviluppare una più decisa battaglia contro la DC ma per ricercare con la DC un’alleanza di governo. C’è da stupirsi se il Sud ha voltato le spalle al PCI?”.

Oggi, la linea politica è quella delle “compatibilità economiche e politiche col sistema, della moderazione e dei sacrifici”; ciò che Chiaromonte chiama il “governo possibile” per il Mezzogiorno; “il Mezzogiorno è diventato soltanto il terreno di verifica (il primo e il più immediato, proprio per l’acutezza e la specificità dei problemi) del fallimento della politica del PCI”. Una delle principali cartine di tornasole di questo fallimento è il dopo terremoto dell’80. Il PCI aveva solennemente affermato che “nulla sarebbe stato come prima; che la questione morale sarebbe diventata l’imperativo principale del partito. Tutto però è rimasto come prima: inefficienza, corruzione, camorra sono proliferati nella zona, contro i bisogni delle popolazioni terremotate, e il PCI, anziché spingere per la mobilitazione e l’autorganizzazione delle masse, ha ancora una volta delegato tutto alle istituzioni e alle forze di governo”.

Il risanamento

Per concludere questa carrellata sulla politica interna del PCI, vale la pena di tornare all’articolo (l’ultimo tra quelli reperiti) in cui si analizza la relazione di Berlinguer al XVI Congresso nazionale del PCI 16. Relazione che Elettra paragona a un “coperchio messo forzatamente sopra un pentolone in ebollizione”. Il senso della relazione, il motivo stesso del Congresso, è il “risanamento”, “far uscire l’Italia dalla crisi gravissima in cui si trova”. La relazione è di fatto un ridimensionamento delle speranze di costruzione di una vera alternativa, speranze che le stesse tesi congressuali avevano alimentato. Infatti, “le tesi avevano dato l’illusione che il PCI volesse trasformare l’alternativa in uno strumento per incidere di più nella realtà, per far uscire dall’immobilismo e dalla paralisi (…) il suo corpo militante ed elettorale”.

Nelle tesi l’alternativa era al sistema democristiano, quindi fine delle alleanze di governo con la DC; si propugnava la generalizzazione, laddove possibile, delle giunte di sinistra e si indicava il PSI come interlocutore privilegiato. Alla luce della relazione di Enrico Berlinguer, queste indicazioni “non erano altro che una mossa propagandistica”.

Pensieri finali

Come è facile immaginare, nel riportare questi frammenti della pubblicistica di Elettra Deiana tra il 1974 e il 1983, ho dovuto resistere molto alla tentazione di commentare. Ho voluto limitarmi a mettere in evidenza la straordinaria capacità di analisi e di narrazione nonché il rigore dell’approccio militante di Elettra. Tuttavia, chi legge queste note non può non constatare le analogie e i nessi di quei fatti con alcuni aspetti della situazione politica che stiamo vivendo, che ne decretano l’estrema attualità. Non mi meraviglierei (anzi lo auspicherei) se quanto qui riportato alimentasse una sana riflessione sulle origini dell’attuale “crisi” della “sinistra”, sulle chiavi di lettura che possono essere ancora utilizzate.

Io non so se Elettra sarebbe stata d’accordo su questo “scavo archeologico” su un suo passato poco conosciuto. Quando, dopo 37 anni ci siamo rincontrati, e poi compiuto lo stesso percorso politico, abbiamo parlato spesso di quegli anni. Ma mai Elettra ha avuto accenti di ripudio del suo passato trotskista. Certo considerava quella un’esperienza datata, ma anche un primo essenziale cantiere della sua formazione. D’altra parte, la profondità e il rigore analitico, l’assenza di accenti demagogici o estremistici, l’equilibrio e l’incisività delle valutazioni che si possono riscontrare dalla lettura dei suoi  scritti , sono le tesse qualità che tutti coloro che l’hanno conosciuta nell’età matura hanno sempre apprezzato e anche amato.

Note

  1. Elettra Deiana, Il tempo del secolo. Trame di una militanza femminista. Edizioni Bordeaux, Roma, 2020[]
  2. Maria Luisa Boccia, La rivoluzione dell’esistenza. CRS, 9 febbraio 2023 (https://centroriformastato.it/la-rivoluzione-dellesistenza-di-elettra-deiana/), nel quale parla del differente approccio alla vicenda politica del ’68. “Lui vedeva le potenzialità di un processo rivoluzionario e a sostegno della sua tesi analizzava la nuova classe operaia (…). Io vedevo invece soprattutto la potente attualità di un radicale mutamento antropologico, che coinvolgeva le nuove generazioni – studentesche o operaie che fossero non importava – che avevano in comune la volontà di prendere parola a partire dalla loro vita e dai percorsi di soggettivazione che li animavano.”((Ivi, pag.103[]
  3. Elettra Deiana, 150 ore bilancio dell’esperienza di un anno. Bandiera Rossa, 27 aprile 1975, pag.14[]
  4. Elettra Deiana, CGIL: un “ritorno in fabbrica” all’insegna della produttività, Bandiera Rossa, 21 ottobre 1979, pag. 8[]
  5. Elettra Deiana, È colpa della burocrazia non del sindacato dei consigli la sconfitta alla FIAT. Bandiera Rossa, 2 novembre 1980, pagg. 4 e 5[]
  6. Elettra Deiana, È necessario passare dalle critiche e dai “no” all’opposizione organizzata. Bandiera Rossa, 27 febbraio 1983, pagg. 6 e 7[]
  7. Elettra Deiana, Fantaitalia. La crisi è anche politica. Bandiera Rossa, 19 ottobre 1980, pagg. 9-10[]
  8. Elettra Deiana, L’allineamento del PCI sull’atlantismo democristiano. Bandiera Rossa, 30 marzo 1980, pag.11[]
  9. Elettra Deiana, A Pechino con un occhio a Mosca e uno a Washington. Bandiera Rossa, 27 aprile 1980, pag.10[]
  10. Elettra Deiana, PCI: una svolta?, IMPRECOR, gennaio 1982, supplemento al n.2, 24 gennaio 1982, di Bandiera Rossa, pagg. 16-18[]
  11. Elettra Deiana, Tra reticenze e dichiarazioni di principio, Bandiera Rossa, 24 gennaio 1982, pag.5[]
  12. Elettra Deiana, PCI: una svolta?, cit.[]
  13. Elettra Deiana, Eurocomunismo: la paralisi. Editoriale di IMPRECOR, supplemento al n. 10 di Bandiera Rossa, maggio 1982, pagg.3-4[]
  14. Elettra Deiana, L’alternativa per il risanamento. Bandiera Rossa, 13 marzo 1983, pag. 10[]
  15. Elettra Deiana, Meridionalismo e riformismo. Bandiera Rossa Sud, supplemento al n.18 di Bandiera Rossa, novembre 1982, pagg. 19-20[]
  16. Elettra Deiana, L’alternativa per il risanamento, cit.[]

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