Interventi

Con l’elezione di Enrico Letta il Partito Democratico sta cercando di uscire dalla crisi che lo ha coinvolto, crisi che si è resa evidentissima grazie al “grido di dolore” di Nicola Zingaretti.

Letta è partito con grande determinazione facendo riferimento a una premessa per me ovvia e ineludibile: il PD va completamente ricostruito.

Per la verità lo stesso Zingaretti, tempo fa, in un’Italia pre-pandemia che appare lontanissima, si era richiamato alla necessità di dar vita a un partito totalmente nuovo. O meglio radicalmente cambiato.

Le cose, poi, tra vicende di governo e dramma globale, hanno preso la piega che conosciamo. Ora la sensazione che si avverte in modo palpabile è che questo sia davvero l’ultimo appello possibile.

In questa cornice le prime scelte del nuovo segretario mi sembrano incoraggianti, a partire dall’aver individuato due figure come Provenzano e Tinagli da collocare al vertice, e dall’esplicitazione di alcuni contenuti affermati nei primi giorni di mandato.

Credo, tuttavia, che sottolineare con soddisfazione tutto ciò non possa autorizzare nessuno a semplificare troppo.

La crisi del Partito Democratico, infatti, è una crisi di “senso” prima che di consenso. E va affrontata senza illudersi che sia sufficiente l’aver azzeccato il leader del momento per emergere.

Se dovessi, tra le tante questioni aperte, sottolineare quella che mi pare più allarmante ed evidente direi che il punto da cui partire stia dalle parti dei danni generati dalla cultura della “responsabilità”.

O più precisamente dal fatto che al grande senso della Repubblica e delle istituzioni che ha accompagnato numerosi dei comportamenti dei “democratici” in tutti questi anni non si è accompagnata una solida piattaforma di principi ispiratori, priorità, temi attraverso i quali alimentare la stessa azione politica.

Così l’assenza di contenuti forti e condivisi ha fatto che sì che l’unico vero “contenuto” fosse proprio il bisogno di garantire stabilità e certezze al Paese.

Paese che ha conosciuto il PD soprattutto per la sua capacità di intervenire come una sorta di grande agenzia “anticrisi” nei momenti (molti, anche in ragione delle mancate riforme istituzionali) più travagliati, ma certo non per una visione di società e per il progetto di “futuro” da avanzare.

In questo quadro, per me, nasce quella sorta di cultura del “potere per il potere” che ha finito per mortificare e consumare lo stesso progetto del PD: quando pensavamo al “riformismo radicale” ai tempi del Lingotto di Veltroni credo non alludessimo a un ossessivo desiderio di annacquare le scelte.

Non voglio farla facile, poiché facile non è.

La sinistra, la variegata famiglia progressista, nel mondo vive una fase di gigantesca incertezza e transizione. E a dirla tutta, senza scomodare i classici, questa è proprio la stagione dell’inquietudine e dell’incertezza.

Tuttavia il caso italiano, con la presenza quasi continuativa ai vertici delle istituzioni di un partito che poche volte è arrivato “primo” nella contesa elettorale, fa abbastanza impressione.

La segreteria del PD, a ben guardare, in questi anni aveva tentato di uscire dall’angolo.

Lo aveva fatto provando a imboccare alcune strade, tra cui quella di porsi il tema, prima di altri, della lotta alle diseguaglianze.

L’alta conflittualità interna e la tortuosa e complessa vita (e composizione!) del Governo Conte hanno però finito con il mortificare quel tentativo, probabilmente non intrapreso con la necessaria decisione, da cui, credo, si debba comunque ripartire, andando ben oltre il suo “titolo”.

Credo che infatti vi sia bisogno come il pane di un partito (e di una sinistra ben più ampia di esso) che si ponga al centro di alcune battaglie politiche, sociali, civili.

Penso innanzitutto a come misurarsi con la prima delle diseguaglianze: quella tra i generi.

Che deve significare, coerentemente, la costruzione di una vera piattaforma di governo per fare delle pari opportunità un elemento irrinunciabile in un mondo nel quale il 98% dei posti di lavoro persi durante la pandemia ha riguardato proprio le donne.

O, ancora, penso che la sempre più urgente attenzione riposta verso gli effetti della crisi climatica e verso la necessità di governare la transizione ecologica finisca per svuotarsi, se non va di pari passo con scelte e misure capaci di garantire i soggetti più fragili a imboccare nuove strade sul terreno del lavoro e della produzione, o se non si misura con il tema dei beni comuni e pubblici, e dunque con il bisogno di difendere la “terra”, l’ambiente, l’acqua in ragione dell’essere patrimonio collettivo indivisibile.

E proprio in questi mesi, ragionando di principi ispiratori e di agenda delle priorità, mi auguro che sia innanzitutto il PD a giocare un ruolo combattivo per far sì che il tema del diritto alla salute voglia dire rilancio della sanità pubblica e grande azione globale perché sia garantito il vaccino per tutti, attraverso la possibilità di sottrarlo dal ricatto dei brevetti.

Potrei continuare pensando allo sfruttamento dei lavoratori delle piattaforme o al sottoscala dei diritti nel quale sono stati scomodamente riposti i nuovi cittadini italiani, a cui Letta si è giustamente riferito, richiamando la proposta dello ius soli.

E così via.

Quel che intendo dire, per concludere, è che il PD può avere futuro, e mi viene da dire perfino, per l’appunto, “senso”, se, con radicalità e pragmatismo, sa prendere parte di fronte ai conflitti aperti nella società e dinnanzi alle palesi ingiustizie che la attraversano.

Anche perché, come è già avvenuto nella storia recente, di fronte al mare in burrasca di un tempo tanto segnato dalla trasformazione della produzione e del lavoro, e nel quale si incontrano crisi climatica e crisi “sociale”, se la sinistra non fornisce un chiaro messaggio di accompagnamento degli esclusi e degli impauriti essi trovano nelle bieche parole del pensiero nazionalista della destra peggiore una zattera.

Il fatto che si tratti di un’imbarcazione precaria e priva di bussola non modifica affatto le cose.

E nessuno si illuda: questo può verificarsi anche in anni nei quali l’Europa ha dato una straordinaria prova di sé attraverso Next Generation EU.

Una prova che può essere l’opportunità attraverso la quale alimentare buone politiche e innovazioni prodotte grazie a investimenti pubblici (mai come oggi tanto significativi), ma, pure, (se tutto questo non riguarda la carne viva della società), una straordinaria occasione persa foriera di nuovi sovranismi.

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