Le sanzioni sono una reazione sacrosanta all’aggressione russa, anche se avranno gravi conseguenze economiche per noi e se non sembrano inficiare la volontà di Putin di continuare la guerra. Ma estenderle al boicottaggio del petrolio russo, e in prospettiva al gas, ha, per i i paesi europei che ne dipendono per un’alta percentuale del loro fabbisogno, qualcosa di paradossale: sono spinti da Washington e Londra a fare questo passo al più presto per punire Mosca, a costo di pesanti sacrifici per le loro economie e per il benessere delle popolazioni; al tempo stesso temono che sia la stessa Russia a chiudere il rubinetto del gas.
A questo riguardo, l’embargo decretato contro Polonia e Bulgaria è un chiaro avvertimento rivolto ad altri paesi UE, in primis Italia e Germania, per dissuaderli dal fornire armi pesanti all’Ucraina. Un altro segnale è la decisione di Gazprom di lasciare vuoto un grande deposito di metano nei pressi di Salisburgo, destinato a rifornire la Baviera.
Si sta ora faticosamente formando un consenso (con alcune eccezioni) sull’obbiettivo di renderci indipendenti dalle forniture russe di petrolio entro fine anno, e per il gas fra 3-5 anni, ma sperando che fino a quelle scadenze i due flussi, pur in via di diminuzione, non vengano interrotti bruscamente. Questo gradualismo corrisponde agli interessi di Mosca: una immediata interruzione delle esportazioni verso l’Europa produrrebbe gravi perdite finanziarie (e, nel caso del petrolio, costringerebbe a chiudere i pozzi danneggiandoli); ma una loro deviazione verso Cina e India fra 3-5 anni, quando saranno stati costruiti appositi gasdotti, navi LNG e impianti di liquefazione e rigassificazione, non è un problema. Anzi, servirà a cementare nuove alleanze strategiche.
Ciò significa che queste specifiche sanzioni, oltre a non essere state efficaci a scopo dissuasivo, assolveranno a una funzione punitiva a scoppio ritardato, quando la guerra sarà finita e quando non faranno più male al destinatario; ne faranno invece a noi, se la disponibilità di fonti alternative sarà insufficiente e causerà un aumento dei prezzi; comporteranno comunque costi aggiuntivi dato che richiederanno costosi investimenti infrastrutturali (terminal LNG, nuovi gasdotti, centrali nucleari, ecc.).
Più che una punizione inflitta agli aggressori russi, o da loro ai consumatori europei, l’operazione si risolverà in uno sganciamento consensuale delle loro economie, e una trasformazione geopolitica: la Russia si legherà alla Cina; l’India – altra beneficiaria delle forniture russe di idrocarburi a prezzi scontati – sfuggirà all’abbraccio degli Stati Uniti (minando così il disegno americano del Quad indo-pacifico) e si avvicinerà a Mosca; l’Europa diverrà più dipendente dagli Stati Uniti che le forniranno il metano LNG, nonché dagli sceicchi. Il mondo si dividerà fra un blocco di autocrazie euro-asiatiche e un raggruppamento di democrazie e pseudo-democrazie pro-occidentali; fra i due blocchi si svilupperà una aspra competizione per l’influenza sui paesi meno sviluppati e per lo sfruttamento delle loro risorse naturali.
Questo divorzio, una volta avviato, andrà avanti anche se il conflitto in Ucraina sarà finito, persino se Putin sarà stato messo da parte. E il rafforzamento della coesione atlantica, cioè della egemonia (pardon, leadership) americana sull’Europa, non verrà meno anche se Trump o un suo seguace si riprenderà la Casa Bianca. La guerra fredda, con il suo corollario di aumentate spese militari, avrà un costo non trascurabile per le popolazioni e produrrà tensioni politiche e sociali, senza giovare al popolo ucraino, prevedibilmente vittima di un “conflitto congelato”. L’ostilità fra i due blocchi impedirà una collaborazione per frenare la corsa verso il disastro climatico; e anzi, la sostituzione degli idrocarburi russi imporrà il ritorno al carbone e al nucleare.
Questo scenario non può essere scongiurato, ma forse mitigato. Per quanto appaia difficile, di fronte alle atrocità commesse in Ucraina e alle falsità e minacce diffuse dalla propaganda russa, varrebbe la pena cominciare a riflettere sul dopo-crisi, con l’ambizione di ricucire un minimo di collaborazione economica e scambi commerciali con la Russia, sganciarla dalla alleanza di fatto con la Cina, ed eventualmente anche sfruttare eventuali tensioni russo-cinesi per frenare l’espansionismo di Pechino.
Tornando al tema specifico degli idrocarburi, il boicottaggio dovrebbe essere concepito come non irreversibile e non assoluto. Ai fini della lotta al riscaldamento globale, e nell’attesa di una piena transizione all’energia verde (se mai ci si arriverà), sarebbe nell’interesse di tutti – ma in modo particolare di Italia, Germania e altri europei – mantenere una quota ridotta di importazioni di metano dalla Russia (10-15%?) tale da non esporci più al ricatto del Cremlino, ma sufficiente a conservare un certo potere negoziale nei confronti degli altri fornitori, contenere l’aumento dei prezzi, non lasciare inutilizzati i gasdotti esistenti.
Il ristabilimento di una certa dose di normalità nei rapporti economici aiuterebbe la ripresa aprendo il mercato russo a molte nostre aziende industriali e agroalimentari, e al settore turistico. Ma soprattutto arresterebbe la spirale delle animosità e ritorsioni fra Russia e Occidente, e quindi la corsa al riarmo.
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