Il genocidio perpetrato contro i tutsi del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi del XX secolo. Secondo alcune stime, dal 7 aprile alla metà di luglio del 1994 vennero massacrate sistematicamente circa 1.200.000 di persone. Le vittime furono prevalentemente di etnia Tutsi, corrispondenti a circa il 20% della popolazione, ma le violenze finirono per coinvolgere anche Hutu moderati appartenenti alla maggioranza del paese.

Le politiche coloniali belghe alterarono la serena convivenza tra Hutu e Tutsi, trasformando, a partire dal 1926, una semplice differenziazione socio-economica (gli Hutu erano agricoltori, i Tutsi allevatori; e gli scambi e i matrimoni misti fra i due gruppi erano comuni) in una differenziazione razziale basata sull’osservazione dell’aspetto fisico degli individui, partendo dalla quale furono assegnati ai tutsi ruoli di prestigio e di comando all’interno della società, mentre gli hutu furono relegati a funzioni più umili e peggio retribuite.

Recentemente, il presidente Macron ha fatto invece alcune importanti ammissioni sulle rilevanti responsabilità francesi, nella conferenza stampa congiunta col presidente Kagame, durante la sua ultima visita ufficiale in Ruanda. Ma sono sufficienti? Quanto altro c’è ancora da chiarire? E cos’altro bisognerà fare per riconciliare le verità ufficiali con la giustizia storica?

Ne discutiamo con Honorine Mujyambere, presidente dell’associazione Ibuka Italia*.

In cosa consistono le ammissioni del presidente Macron, come tentativo di riconciliazione da parte della Francia?

Quattro anni fa, appena eletto Macron alla presidenza francese, il suo omologo ruandese Kagame, commissionò allo studio legale statunitense Levy-Firestone-Muse un rapporto sulle responsabilità francesi nel genocidio del 1994, che fu concluso nel mese di dicembre e presentato all’Eliseo. Macron reagì dopo un anno e mezzo, nella primavera del 2019, nominando la Commissione Duclert, a sua volta incaricata di consultare gli archivi della presidenza Mitterrand e di scrivere un documento parallelo (pubblicato il 26 marzo 2021). Nel frattempo, il rapporto Muse (come viene comunemente chiamato) è stato approfondito e completato (reso pubblico il 19 aprile 2021). Entrambi sono stati presentati due mesi fa, in occasione del ventisettesimo anniversario, il che ha aperto la strada alla recente visita di Macron a Kigali. La visita è stata positiva, anche se Macron non ha presentato scuse. Se riuscirà a rappresentare una svolta nella politica francese in Africa non è possibile dire.

Una svolta dalla strategia detta “Françafrique”, dettata da pretese egemoniche e di sapore neocolonialista, ad una più paritaria e mutualmente vantaggiosa (che potrebbe estendersi su altri paesi africani, soprattutto quelli della regione dei Grandi Laghi), tipo quella esistente nel Commonwealth, sembra essere nelle intenzioni di Macron, il quale però tra un anno dovrà affrontare le elezioni e battere Marine Le Pen, certamente non ostile alla tradizione della Françafrique. Il futuro, pertanto, è incerto e il cammino percorso nella riconciliazione non è ancora completato.

Quanto sono vicine e in cosa differiscono ora le versioni dei due paesi sugli accadimenti storici del genocidio?

È una domanda complessa perché forse non esistono una versione ‘ruandese’ e una ‘francese’ del genocidio dei Tutsi. Certo, le rispettive istituzioni – come i presidenti, i governi e i parlamenti – si sono pronunciate su questi eventi e l’hanno fatto in modo diverso. Ma in entrambi i paesi il dibattito è vivace: intellettuali, studiosi, associazioni e anche semplici cittadini riflettono su quanto accaduto e contribuiscono a costruire la memoria del genocidio perpetrato contro i Tutsi.

Non solo: il ricordo, la memoria, le ‘versioni’, sono ancora in fase di costruzione. Ciò non deve sorprendere perché un genocidio è un evento talmente enorme che la sua elaborazione richiede necessariamente molto tempo, anche decenni.

Detto questo, se pensiamo alle prime dichiarazioni di Mitterand, presidente francese all’epoca dei fatti, vengono i brividi. Nel novembre del 1994, durante il vertice franco-africano di Biarritz, un giornalista gli fa una domanda sul genocidio commesso in Rwanda. E Mitterand risponde: «Di quale genocidio parla? Di quello degli hutu contro i tutsi o di quello dei tutsi contro gli hutu?». Insomma, la massima carica dello Stato francese, nel ’94, non si limitava ad avere una propria ‘versione’ del genocidio commesso contro i tutsi, ma alimentava il peggiore revisionismo. Come si può ben capire, in questo la distanza con la ‘versione’ del Rwanda – se vogliamo usare questa semplificazione – è abissale e non potrebbe essere altrimenti.

Da allora, fortunatamente, la posizione della Francia si è evoluta. Già nel 1997 il parlamento francese ha istituito una commissione d’inchiesta che ha prodotto un importante rapporto che mette in luce molte responsabilità di Parigi. Era un passo avanti, rispetto alle dichiarazioni di Mitterand del ’94, anche se le conclusioni del rapporto – sorprendenti e inaccettabili – assolvevano completamente il paese. Anche rispetto a questo rapporto, il clima in Francia sembra essere cambiato.

Un altro punto di disaccordo, su cui pure è stato compiuto qualche passo, è la responsabilità dovuta alla colonizzazione. In Rwanda è molto forte l’idea che la divisione – del tutto artificiale – tra hutu e tutsi sia stata il prodotto di una politica razzista voluta da colonialisti, tedeschi prima e belgi poi. In Francia, ma più in generale in Europa, questo aspetto della storia è stato a lungo sottovalutato.

Sulla linea di questo percorso, quanto i nuovi accordi tra i due paesi possono contribuire a una più approfondita ricerca storica e giudiziale?

Il riavvicinamento tra la Francia e il Rwanda crea senza dubbio un contesto di maggiore apertura e collaborazione nelle indagini storiche sulle responsabilità francesi nel genocidio perpetrato contro i Tutsi in Rwanda. Certo, anche se il lavoro della Commissione Duclert è stato reso possibile da una parziale apertura degli archivi, molto resta da fare in materia.

Il rapporto Muse, ad esempio, lamentava il negato accesso ad alcuni documenti. E il vero “buco nero” rimane l’Opération Turquoise con il paradosso, da molti denunciato, per il quale un’operazione militare a carattere ufficialmente “umanitario” resta, oltre un quarto di secolo dopo, totalmente opaca e “top secret” per i ricercatori.

Ora alle parole di Macron devono seguire delle azioni concrete, su diversi fronti. Innanzitutto la Francia si deve impegnare a fare davvero luce sul proprio ruolo e le proprie azioni relative al genocidio perpetrato contro i Tutsi. Questo significa indagare, essere trasparenti, non trascurare nulla. Il presidente francese, su questo punto, con le sue dichiarazioni sembra contraddirsi: come fa a escludere a priori la complicità della Francia con i responsabili del genocidio, se egli stesso ammette che ancora non è stata fatta luce completa su come sono andate le cose?

Quando a genocidio in corso gli esponenti del governo estremista andavano in visita a Parigi e venivano accolti con tutti gli onori, qual era il ruolo della Francia? Dall’esterno sembrava di totale supporto ai responsabili di gravi crimini. E l’operazione Turquoise quanto era una missione umanitaria e quanto un concreto sostegno ai carnefici in fuga? E le forniture di armi? Quante sono state, da chi sono state autorizzate, sino a quando sono continuate?

Sul piano giudiziario la Francia ha già dato prova di una mutata disponibilità con l’arresto e l’estradizione di Félicien Kabuga, l’anno scorso. Ci aspettiamo che ora Parigi non conceda più protezione ai tanti responsabili di crimini in Ruanda, che ancora vivono indisturbati in Francia ma che, al contrario, s’impegni per assicurarli alla giustizia. È tuttavia altamente improbabile che procedimenti giudiziari vengano avviati verso i tre maggiori responsabili, tuttora in vita, del coinvolgimento francese nella vicenda: Alain Juppé, all’epoca ministro degli esteri; Hubert Védrine, segretario generale dell’Eliseo; e l’ammiraglio Jacques Lanxade, capo degli Stati maggiori riuniti.

Sono solo alcuni esempi di fatti su cui occorre fare luce, prima di poter dire che la ‘Francia non è stata complice’. Noi ci aspettiamo che nei prossimi tempi – nel giro cioè di mesi, non di anni – su questa vicenda venga fatta luce davvero.

Note

*Il 16 agosto del 1994, all’indomani del genocidio contro i Tutsi, avvenuto in Ruanda, è nata a Bruxelles Ibuka – Memoria e Giustizia.

Questa associazione si proponeva di rispondere a quei terribili eventi, coordinando gli sforzi dei suoi membri per promuovere a livello internazionale la memoria delle vittime e contribuendo affinché fosse fatta giustizia verso chi li aveva progettati, supportati, organizzati o ne era stato complice, ovunque si trovasse.

Ibuka Sezione Italia è un’associazione non-profit nata il 10 aprile 2015, con sede legale a Roma.

I suoi obiettivi sono in particolare di:

  • perpetuare la memoria di tutte le vittime del genocidio perpetrato nel 1994 e negli anni precedenti;
  • riabilitare e difendere i sopravvissuti di tale genocidio;
  • promuovere ogni iniziativa utile a individuarne e segnalarne alla giustizia i responsabili;
  • combattere la banalizzazione, il negazionismo e il revisionismo;
  • predisporre ogni mezzo affinché una tale tragedia non si ripeta più;
  • sviluppare una buona cooperazione con le altre associazioni che perseguono i medesimi obiettivi, ovunque esse si trovino;
  • appoggiare le richieste di indennizzo da parte di tutti i sopravvissuti nei confronti degli Stati e delle organizzazioni responsabili;
  • promuovere iniziative benefiche e di assistenza a vantaggio dei sopravvissuti, attività, eventi e manifestazioni culturali, di studio e di ricerca, per divulgare e approfondire la conoscenza del genocidio, anche svolgendo attività educative rivolte alle nuove generazioni;
  • promuovere e organizzare, il 7 aprile di ogni anno, una commemorazione in ricordo delle vittime, oltre ad altre iniziative correlate.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *