L’hanno subito capito in molti: l’intesa raggiunta dalle forze di opposizione su una proposta legislativa sul salario minimo è una di quelle notizie che hanno un doppio valore. Da un lato per il merito, perché l’intesa coglie nel modo migliore un problema sentito da tante parti della popolazione, e dall’altro perché dimostra che “si può fare!” (per citare una famosa battuta di un celebre film). Dopo tante chiacchiere in politichese del tutto incomprensibili alle persone normali, se si affronta senza paraocchi un problema vero si possono avanzare soluzioni che non sono bandierine da agitare per dimostrare chissà quale primazia, ma al contrario sono il frutto di una sintesi di cui quindi si è capaci, e forse si potrà fare lo stesso anche in altri campi.
Ma perché la soluzione trovata è un avanzamento anche nel merito? Una premessa è d’obbligo: al momento si è all’annuncio di una proposta comune, non all’articolato di legge, e pertanto una dose di cautela resta necessaria. Faremo riferimento al testo pubblicato dall’ANSA, che riporta i 7 punti su cui si articolerà il disegno di legge, ripreso e commentato dall’articolo di Maria Cecilia Guerra su Domani del 2/07/2023.
È necessaria anche un’altra premessa: sono scorsi fiumi d’inchiostro sull’argomento – addirittura dai lavori della Costituente fino ai giorni nostri – segno che non si è trattato di un argomento banale. Al contrario, è un tema su cui hanno pesato e pesano tuttora le vicende, le riflessioni e il vissuto delle organizzazioni sindacali e politiche che hanno fondato e dato vita alla Repubblica dopo la Liberazione dalla tragedia del fascismo e delle organizzazioni sociali di regime. Questi soggetti politici e sindacali hanno sempre avuto chiarissimo il valore della libertà sindacale (1° comma dell’articolo 39 della Costituzione) e quindi hanno sempre diffidato di un intervento eccessivamente invasivo della legislazione (quindi della politica) nelle vicende sindacali. E questo spiega perché l’Italia sia stata sempre priva di un meccanismo legislativo di definizione del salario, affidando interamente la tutela del lavoro alla contrattazione collettiva (l’autonomia contrattuale teorizzata per primo da Gino Giugni). Tuttavia, la storia deve sempre fare i conti con il presente, e sapersi leggere alla luce di questo (sia lecito qui richiamare – a proposito di fare i conti con la propria storia – la proposta contenuta nella Carta dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, elaborata dalla CGIL e depositata in Parlamento nel 2016 sotto forma di iniziativa di legge popolare). E il presente dice – tra le molte altre – almeno due cose: 1) che esiste ormai da anni una proliferazione di contratti collettivi abnorme (al CNEL sono registrati più di 1000 Contratti Collettivi, di cui solo poco più di un quinto siglati da CGIL-CISL-UIL) che ha come conseguenza una concorrenza al ribasso nelle politiche salariali (non ultima ragione per la riduzione del potere d’acquisto dei salari italiani certificata dall’OIL a partire dalla fine degli anni ‘90); 2) che una direttiva europea prevede che gli Stati membri si debbano dotare in alternativa di un sistema di salario minimo legale adeguato oppure di un sistema contrattuale avente efficacia generale. Si è subito levato il coro, guidato paradossalmente dal Governo e dai suoi corifei “indipendenti”, a sostegno della tesi che l’Italia non avrebbe bisogno di un salario minimo legale perché la contrattazione collettiva coprirebbe oltre l’80% dei lavoratori. Peccato che, proprio in forza della mancata applicazione dei commi 2-4 dell’articolo 39 della Costituzione, la contrattazione collettiva italiana non ha valore generale, come la Corte Costituzionale ha più volte rimarcato, quindi il tema assai più complesso per il legislatore italiano è sempre stato quello di normare sul salario minimo legale nel rispetto della contrattazione collettiva di soggetti rappresentativi. Il che è esattamente quanto sono riuscite a fare le forze di opposizione: si leggano al riguardo i primi due punti dell’intesa. Lì si prevede che l’adeguatezza del salario percepito dal lavoratore (secondo quanto prescritto dall’articolo 36 della Costituzione) sia quella derivata dall’applicazione del trattamento economico complessivo definito dai contratti sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori, e che comunque tali importi non potranno essere inferiori al valore orario di 9€. La locuzione “trattamento economico complessivo” implica trattarsi non solo della paga tabellare, bensì anche delle cosiddette voci differite (13° e 14° mensilità, TFR, permessi retribuiti, scatti d’anzianità, diritti sindacali, indennità di malattia e infortunio). Questi punti determinano finalmente le basi affinché cessi lo scandalo dei “contratti pirata”, ma impongono altresì che le conclusioni dei rinnovi contrattuali siano approvate dai veri fruitori di tali intese, i lavoratori e le lavoratrici a suggello della rappresentatività delle organizzazioni firmatarie. Del resto, già nel 2018 CGIL-CISL-UIL avevano sottoscritto inizialmente con Confindustria, e poi con le altre associazioni datoriali, intese volte a definire i criteri di rappresentatività delle organizzazioni sindacali nella loro funzione di agenti contrattuali, sia a livello nazionale che di posto di lavoro. Restano da definire i criteri analoghi per le associazioni datoriali, su cui utili spunti potranno essere desunti dal disegno di legge a firma Catalfo presentato la scorsa legislatura, nonché dagli studi di Michele Faioli alla base dei nuovi codici alfanumerici adottati dall’INPS per i flussi UNIEMENS; ma questo sarà oggetto – sperabilmente – dell’articolato venturo.
Altri due pregi dell’intesa sono i punti 3 e 5, perché il primo include nella popolazione lavorativa da tutelare anche quanti hanno un rapporto formalmente non dipendente, ma che di fatto si svolge sotto il predominio del committente (collaborazioni, lavoro autonomo occasionale e/o a P. Iva); e e l’altro fa pensare, come confermato dall’articolo di M. C. Guerra, adì una effettività immediata delle disposizioni che potranno essere rese immediatamente esigibili dall’Ispettorato del lavoro in caso di verificata inadempienza. Concludono l’intesa un impegno all’istituzione di una Commissione tripartita (Ministero del Lavoro e parti sociali) deputata ad aggiornare il valore minimo legale nel tempo, e un impegno temporaneo a sostenere le imprese nella transizione ai nuovi costi salariali.
Tutto bene? Certo, restano questioni che solo la visione dell’articolato potrà chiarire, in particolare riguardo alla modalità con la quale verranno definite le “equivalenze” dei riferimenti salariali nei confronti dei lavoratori non dipendenti. Ma il vero problema, cui l’intesa e neppure – temiamo – il futuro articolato potranno offrire soluzioni, riguarda l’altro corno della povertà lavorativa italiana, ossia la breve durata dei rapporti di lavoro e/o il ridotto numero di ore previsto da rapporti che potranno pure essere continuativi (i cosiddetti part-time involontari), ma che non per questo assicurano – né lo potranno fare adottando le misure qui commentate – “un’esistenza libera e dignitosa” al lavoratore e alla sua famiglia. Queste note sono già troppo lunghe per dilungarci in proposito: basti solo notare che le misure da poco approvate dal Parlamento convertendo in legge il decreto-legge 48/23 vanno esattamente nella direzione di comprimere ancora di più il reddito delle persone, ad esempio permettendo il rinnovo illimitato dei contratti a termine nei primi 12 mesi e proroghe ugualmente illimitate. Nonostante questo limite – che richiama tutti alla consapevolezza di quanto ancora molto rimanga da fare – ci sentiamo di dire che è stato fatto un buon lavoro, e indicata una strada davvero utile per “mettere a terra” la costruzione di uno schieramento alternativo all’attuale maggioranza. Aver iniziato dal lavoro, e dalla sua retribuzione aggiunge un ulteriore motivo di soddisfazione.
Il Governo e le forze di maggioranza, con l’appendice di Italia Viva, hanno già aperto il fuoco di sbarramento, ma sarà importante fare della dignità del lavoro in tutti i suoi aspetti un’occasione di aperta discussione nel Paese, e un’occasione di mobilitazione per quanti hanno a cuore gli interessi del lavoro.
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