Sabato 16 sono stato al Climate pride di Roma, in marcia da Piazza Vittorio al laghetto o ex Snia. Ero senz’ombra di dubbio il più vecchio, e uno dei pochissimi in “borghese”. Perché i più, giovani e belli, ragazzi e ragazze, bambine e bambini, avevano splendide maschere di animali, e foglie e fronde, sui vestiti e sulle teste, a significare il diritto comune a una buona vita di esseri umani, animali e piante. Era un corteo piacevolmente disorganizzato. Non c’era nessuna forza trainante, nessuna organizzazione che mettesse se stessa la centro del corteo. C’erano persone che volevano dare visibilità alla loro vita, al loro impegno di ogni giorno per curare i boschi, il paesaggio, per coltivare la terra senza ferirla e senza offenderla. E mostravano come tutto ciò potesse dare alla vita gioia e allegria. Ridevano persino, durante il corteo, i giovani di solito un po’ cupi di “ultima generazione”. Erano certo tutti molto preoccupati per quello che il futuro può riservare al genere umano, e al modo animale e vegetale. E incazzati per una politica europea e nazionale che sembra mettere tra parentesi la minaccia verso la vita di tutti, preoccupata dei costi della transizione ecologica, più che dei costi enormi derivanti dai ritardi nell’imboccare con decisione la strada della sostenibilità ambientale e della cura del territorio. Un politica che dilapida in armi e in guerre le risorse che sarebbero necessarie per salvaguardare e rendere migliore la vita sul pianeta. La sanità, l’istruzione, la cultura, la convivenza serena fra diversi. Sulle loro teste, come sulle teste di tutti, aleggia la paura della catastrofe ambientale e della catastrofe atomica. Ma hanno deciso di non farsi paralizzare dalla paura, da quel misto di impotenza e angoscia, che prende tanta parte del genere umano di fronte a disastri che vanno oltre la stessa nostra capacità di immaginazione.
Impotenza e angoscia sono le due principali “passioni tristi” che secondo Benasayag e Schmit, in un fortunato libro dei primi anni 2000, caratterizzano il tempo presente. Un tempo in cui il futuro da promessa, alimentato da una fiducia incondizionata verso la scienza e la tecnologia, si è trasformato in una minaccia. E a compensare la perdita di fiducia nel futuro, nella educazione dei bambini, dei giovani, del popolo, si fa strada la minaccia come la forma principale di disciplinamento sociale. Soprattutto verso gli adolescenti. Se non studi non troverai un buon lavoro, se ti droghi puoi morire, se guidi veloce vai a sbattere, se fai sesso puoi ammalarti. La minaccia sostituisce il desiderio di apprendere, di conoscere e di conoscersi, di costruire relazioni e legami con gli altri. E che spesso provoca la voglia di sfidare il divieto, alimenta invece che voglia di vivere senso di morte. Il desiderio, nell’epoca del consumismo, si trasforma in voglie di merci, di affermazioni di sé, fino al delirio di onnipotenza. Fino alla crisi di ogni legame e relazione con l’altro.
Sabato 16 a Roma, il modo ambientalista pare avere scoperto che la paura e la minaccia di distruzione del pianeta, che essi stessi hanno diffuso in questi anni, non bastano a mobilitare le persone contro il riscaldamento climatico. Che forse vale anche a livello collettivo quello che vale per il ragazzo che di fronte alla minaccia della morte per eccesso di velocità decide di correre più forte. Che non è più vero, come pensava l’illuminismo, che ci si danneggia per ignoranza e ci si salva rischiarando le menti con la giusta informazione. Che di fronte alle catastrofi minacciate, chi si sente impotente si rifugia nell’esasperare, invece che ridurre, i modi di vivere e di pensare che ci avvicinano alla catastrofe. E che la minaccia che la gente dell’Occidente benestante sente più pressante è quella di dover ridurre i propri livelli di consumo, di uscire dall’individualismo e da quell’autismo di massa in cui i più si adagiano. E che è questa la minaccia che i potenti della terra – i governanti negazionisti, i padroni delle industrie del fossile e delle armi – fanno pesare per eludere le scelte della transizione ecologica. Se è così la necessità primaria è quella di far rinascere il desiderio di una vita buona, e di mostrare, anche a partire da se stessi, che vivere rispettando la natura, rispettando gli altri, costruendo legami basati sulla fiducia e sulla responsabilità, ci fa vivere meglio. E rendere evidente ogni giorno, in ogni propria scelta, anche nelle lotte più dure, il confronto tra la serena felicità e il senso di fratellanza che si legge nei ragazzi seduti per terra a bloccare le automobili, e l’assoluto individualismo, la rabbia che rimuove, di chi si indigna e si affanna per toglierli di mezzo. L’esempio dei soggetti desideranti, come erano quelli che sfilavano quel sabato, usciti dai loro boschi, dai loro campi, o dalle azioni esemplari sulle strade e sui muri delle città, può essere la leva più potente per riconquistare il mondo alla speranza.
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