Interventi

La fine del governo Conte e la formazione del governo Draghi presentano caratteri che potrebbero avere conseguenze non effimere sulle future vicende della forma di governo italiana. Sui profili costituzionali della crisi sono già intervenuti molti (Ferrajoli, Migone, Villone, Volpi, Zagrebelsky…), ma vorrei ugualmente spendere qualche parola per sottolineare la – pur traballante – possibilità che si apre.

1. Oggi il diritto gode di cattiva stampa. Uno dei sintomi della mucillagine sociale in cui viviamo è rappresentato dal fatto che tutti sembrano credere ciecamente in quanto Diogene Laerzio constatava duemila anni fa (attribuendolo – in modo, ritengo, molto discutibile – a Solone): «Le leggi sono simili alle ragnatele: se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e se ne va»1. In particolare il diritto costituzionale sarebbe per natura, secondo la concezione odierna degli “analisti politici”, un evanescente velo destinato ad essere lacerato dal Machiavelli di turno. Se non si fosse diffusa, fino ai più alti colli, questa convinzione, l’incursione di Renzi – che ha messo in scacco tutti i partiti – non si sarebbe potuta verificare, almeno nei termini con cui è stata effettuata. Se tutto è forza, tutto è opportunità, tutto è spregiudicatezza, non si può evitare che chi è messo in grado di usarle, le usi: questo è il senso comune oggi corrente.

Precisiamo subito che della fine del governo Conte si possono dare molte interpretazioni: da quella che parla di una crisi di Palazzo determinata dall’ego smisurato di un oppositore, a quella che vede in tale crisi di Palazzo solo la punta di un iceberg: l’epilogo di una grandiosa operazione politica che sposta (quel che restava del) l’asse della politica italiana verso un più stabile (euro)atlantismo.

2. Ma anche i “fatterelli” istituzionali contano. Facciamo un esperimento per assurdo. Proviamo ad immaginare che il Governo Conte avesse voluto difendersi – anziché suicidarsi – avvalendosi dei normali strumenti che la Costituzione offre per evitare la crisi. Renzi si sfila dal Governo. Che cosa avrebbe potuto fare Conte? Avrebbe potuto fare come se non fosse successo nulla, se non una montagna di chiacchiere sui giornali, che fin dall’inizio del suo mandato lo avevano bombardato ad alzo zero, largamente ricorrendo alla menzogna. In base alla fiducia ricevuta al momento della costituzione del suo Governo, e non essendoci nessuna norma costituzionale che imponga che questa fiducia debba essere conferita a maggioranza assoluta e che tale maggioranza assoluta debba continuare a sostenere il Governo in tutti i suoi giorni, e in tutti i suoi atti, Conte era perfettamente legittimato a governare.

Ma, si dice, un partito ha abbandonato la maggioranza. E allora questo partito provochi una crisi di governo. Un partito che abbandona un governo di cui fa parte, è ovvio che dovrebbe volerlo rovesciare. Ma, come tutti gli studenti del primo anno di giurisprudenza sanno, la nostra dovrebbe essere una forma di governo parlamentare “razionalizzata”. Questa parola indica che i rapporti tra Parlamento e Governo non sono quelli fluidi che si determinano di fatto nel retrobottega della democrazia2, ma sono regolati dalla Costituzione. Tutti gli attori della vicenda in corso (compreso il Presidente della Repubblica) hanno dimenticato questo dato, e hanno mostrato di credere che la Costituzione italiana non sia quella approvata dalla Assemblea Costituente nel 1947, ma quella risultante dalle convenzioni stabilitesi nei primi decenni della Repubblica, quando i governi erano essenzialmente fondati sulla fiducia delle correnti della Democrazia cristiana (che singolarmente giocavano di sponda con i partiti della coalizione). In quel contesto l’uscita dalla maggioranza di una corrente provocava – per convenzione – la crisi, perché così volevano le regole interne alla Democrazia cristiana, e ai partiti satelliti. Ma le convenzioni valgono solo rebus sic stantibus, e adesso le cose sono cambiate di molto. Si deve ancora ammettere che un partitino possa a suo piacere – e tanto più nel mezzo di una crisi del Paese devastante – provocare una crisi di governo?

La Costituzione scritta, razionalizzata, non lo vuole. E infatti stabilisce:

Art. 94:

«Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.

Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. (Non si prescrive affatto la maggioranza assoluta. La mozione deve essere, in quanto motivata, politicamente omogenea).

Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.

Il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. (È previsto che il governo “vada sotto” in singole votazioni, e si stabilisce che questo non comporti crisi).

La mozione di sfiducia (l’unico fatto/atto che obbliga il governo a dimettersi) deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. (I tre giorni servono ad evitare le imboscate parlamentari mediante mozione di sfiducia presentata all’improvviso)».

Dunque: se se Conte non si fosse dimesso sarebbe toccato a Renzi trovare il “decimo del senato” – politicamente omogeneo data la necessità della motivazione – disposto a firmare la mozione di sfiducia e a trovare una maggioranza – anch’essa politicamente omogenea data la necessità della motivazione – disposta a votarla.

3. Ma ormai è fatta. Il governo Draghi è stato formato. C’è da chiedersi perché il Presidente della Repubblica non abbia rimandato il Governo alle Camere, dopo le dimissioni. Solo così si sarebbe “parlamentarizzata” la crisi (i partiti, duramente sollecitati, avrebbero dovuto venire allo scoperto sul merito). Invece, malgrado il frastuono, la crisi è stata perfettamente extra-parlamentare e oscura.

Non si tratta di rivendicazioni formalistiche: valgono solo a chiarire che il Governo non si è voluto difendere. E se il Governo non si vuole difendere, non c’è razionalizzazione che tenga (compreso il “voto di sfiducia costruttivo”). Il vero nodo da affrontare è la fragilità del parlamentarismo, indotta dal sempre barcollante rapporto di fiducia. «Tutti gli atti decisivi, in tempo di pace come di guerra, che siano crisi economiche o pandemie, possono essere intraprese soltanto da forti maggioranze politiche che si sentano partecipi di una comune visione e di un comune destino […] . Abbiamo disfatto in questo trentennio l’idea stessa di questa forma di azione politica, l’idea stessa di una forza così strutturata. Ma […] se la competizione politica non avviene tra partiti che compongono in sé stessi tecnica-e-politica, politica-e-competenza, non solo mai si avvierà un processo reale di riforme, ma dileguerà agli occhi del “popolo sovrano” l’interesse stesso per la democrazia»3. E figuriamoci, dobbiamo saperlo in questo preciso momento, per il parlamentarismo.

Solo due sono le vie d’uscita: o ricomporre partiti forti e “sapienti”, capaci di dar vita a maggioranze altrettanto forti, che sanno dove e come andare; o rinunciare al sistema parlamentare, (che per noi è pressoché impossibile perché significherebbe abbandonare l’idea di democrazia in cui siamo stati allevati). È chiaro dunque che se il governo Draghi riuscirà a garantire l’equilibrio di bilancio, a controllare la qualità della spesa, a ridurre i tassi sul debito, ad avviare (al di là dei bizantinismi con cui è stato condito, dagli economisti-banchieri, il Recovery Plan, o Fund, o Next generation EU) alcuni arcinoti e arci-progettati investimenti (che sono come una molla compressa dal peso di decenni di cattiva finanza che li ha bloccati), e se, con questo, riuscirà a ridurre il frastuono dei carrieristi politici arrapati, allora, forse, in questo intermezzo, alcuni partiti riusciranno a ricomporre in modo decente la loro cultura e la loro organizzazione politica. In caso contrario le spinte anti-pluraliste, ultra-atlantistiche e presidenzialistiche diverranno invincibili.

4. Questo governo avrebbe dovuto essere una “dittatura commissaria”, come la definivano i Romani. Che per loro era perfettamente costituzionale. Ma che anche da noi – nei limiti dell’assunzione del ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri, e dunque senza alterazione delle garanzie costituzionali – potrebbe essere accolta (sotto l’espressione collaudata di “governo del Presidente”).

Una cosa è certa: Renzi e le sue colonne all’interno del PD e soprattutto all’interno dell’editoria, hanno compiuto la missione ricevuta dai loro mandanti. Come ai tempi della guerra fredda non si potevano fare alleanze di governo con le sinistre, pena un colpo di Stato americano (e ricordiamoci gli sgarbi inflitti a Moro in sede internazionale, il veto alla partecipazione di politici e militari agli organi della Nato se si fosse “aperto” ai comunisti, e il suo assassinio) i mandanti della crisi di governo hanno dimostrato che, anche oggi, un governo, seppur non di sinistra, ma comunque non perfettamente allineato con l’euro-atlantismo, non si può fare. Pena una bufera mediatica capace di rovesciarlo. Tutto il resto, compreso il Recovery Fund e i presunti ritardi nella stessa lotta alla pandemia, o il MES sono solo sciocchezze per mascherare quel che non si può dire (soprattutto da parte di coloro che da anni si sono assunti il compito di predicare alla sinistra).

5. E allora? Non si sarebbe dovuto far finta di niente. Sul piano delle regole del parlamentarismo, se i partiti avessero voluto recuperare un frammento della dignità perduta avrebbero dovuto inventarsi qualcosa che evitasse loro di triturarsi nel mercato degli incarichi: ad esempio garantire il numero legale (minimo) alla seduta in cui si sarebbe votata la fiducia, fare votare la fiducia al minor numero possibile di parlamentari e lasciare la distribuzione degli incarichi al Dictator che essi stessi hanno evocato. Invece no. Il dopo-fiducia è stata l’apoteosi del retrobottega. Il pan-politicismo che non ha altra regola che quella di arraffare il più possibile è immediatamente tornato vincitore. La prospettiva di riorganizzare e di ri-acculturare il sistema – o almeno alcuni – dei partiti, sembra già defunta.

In tutto ciò – mi dispiace contraddire l’articolo di Gustavo Zagrebelsky pubblicato su la Repubblica del 25 febbraio u.s. – le convenzioni sulla Costituzione e l’elasticità che queste assicurano alla forma di governo parlamentare (e che normalizzerebbero la crisi appena conclusa) non entrano nel discorso. Nessuno le nega (su di esse ho scritto la mia tesi di laurea, più di cinquant’anni fa), ma qui non si tratta di convenzioni che accompagnano lo sviluppo della forma di governo. Si tratta di un Governo che non vuole difendersi, di un assieparsi di sedicenti forze politiche che non conoscono altra regola che quella del “tu mi fai un favore a me, e io ti faccio un favore a te”, con il conseguente gorgo di contrattazioni. Questo è diventato l’unico orizzonte della politica, in cui tutti i partiti, e il presidente incaricato si sono immediatamente rituffati: un orizzonte che non apre affatto al riconoscimento delle convenzioni adattative ma semplicemente nega uno dei punti fondamentalissimi dell’edificio che la Costituzione voleva costruire: un edificio che non traballasse come quello italiano del primo dopoguerra o quello di Weimar. La razionalizzazione del parlamentarismo era una cosciente – e drammatica – presa d’atto della sua fragilità, e della consapevolezza che i fascismi vengono dall’alto, ma sono evocati dal basso. Speriamo che questa esperienza ci insegni a prendere la razionalizzazione sul serio.

Note

1 Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, I, Miroslav Marcovich ed., Teubner, Stuttgart-Leipzig 1999, p. 40 (Solon, I, 58), cit. da Bice Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Einaudi, Torino 2001, p. XI, che, ivi, riporta anche proverbi regionali italiani del medesimo contenuto.

2 L’espressione è di A.Baldassarre, Il retrobottega della democrazia, in Laboratorio politico, 1982, 78.

3 Massimo Cacciari, “Democrazia ultimo atto”, La Stampa, 15.02.2021.

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