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Con consenso pressoché unanime, Governo e Parlamento hanno deciso di reagire alla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, oltre che imponendo sanzioni economiche all’aggressore, disponendo altresì – in deroga alla normativa che vieta di fornire armi ai belligeranti – l’invio di dispositivi militari, anche letali, all’aggredito.

Non sappiamo esattamente di quali equipaggiamenti si tratti. Sappiamo che sono già decine i voli effettuati dall’aeronautica militare italiana in direzione della base polacca di Rzeszow, dove avviene lo smistamento verso il fronte, ma conoscerne l’esatto carico ci è impedito dalla decisione governativa di imporre il segreto sui decreti interministeriali che individuano tipologia e quantità di equipaggiamenti destinati agli ucraini. A quanto scrive Analisi Difesa, altri Paesi Ue e Nato non hanno avuto timori a rendere nota la lista delle armi fornite al governo di Kiev: essenzialmente missili antiaereo e anticarro. È probabile che anche le armi italiane rientrino in queste categorie. Quel che è certo è che deve trattarsi di quantitativi di una certa consistenza, se è vero, come denunciato dall’Usb, che lo scorso 15 marzo gli addetti agli aerei cargo nell’aeroporto civile di Pisa hanno scoperto un carico bellico destinato a un volo di aiuti umanitari (viveri e medicinali), rifiutando di imbarcarlo. Evidentemente, sui velivoli militari non c’è spazio a sufficienza per tutte le spedizioni.

Sul campo, l’Ucraina – già ben foraggiata nei mesi antecedenti allo scoppio delle ostilità e coadiuvata da addestratori e pianificatori occidentali – sta opponendo una strenua resistenza all’avanzata russa. La sproporzione tra le forze rimane, tuttavia, enorme a favore dell’esercito di Putin e gli analisti militari non hanno dubbi che, sia pure a caro prezzo, alla fine la Russia riuscirà ad avere la meglio. È solo una questione di tempo. Anche per questo il presidente ucraino insiste per ottenere dalla Nato, quantomeno l’imposizione di una no fly zone sui cieli del suo Paese, pur sapendo che ciò comporterebbe l’inevitabile trasformazione della guerra in un conflitto mondiale tra potenze dotate di migliaia di testate termonucleari.

Due sono, dunque, gli scenari che si aprono con il prolungamento delle ostilità favorito dall’invio delle armi: nella migliore delle ipotesi, la distruzione totale dell’Ucraina per mano della Russia; nella peggiore, la distruzione totale del pianeta per mano delle potenze nucleari. Ben essendo possibile, peraltro, lo “scivolamento” in qualsiasi istante dal primo al secondo scenario, dal momento che l’allargamento incontrollato del conflitto, anche per un incidente e persino per errore, è una concreta possibilità. Lo ha detto con chiarezza il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: «Il conflitto nucleare è oggi nel regno del possibile». Parole terribili, che sanciscono l’avvenuta rottura del tabù antinucleare scaturito dalle atomiche americane sganciate sul Giappone nel 1945. Un tabù che aveva sinora retto gli equilibri internazionali dell’era atomica, sia pure facendo leva sul terrore. Adesso, l’opzione nucleare è nel novero delle cose possibili e il rischio di dare conferma alla famosa battuta di Checov sulla pistola – che, se compare in una storia, prima o poi spara – diventa reale.

È per questo che l’invio delle armi è un tragico errore: perché espone l’umanità, ucraini inclusi, a pericoli potenzialmente senza ritorno. Pericoli che, per ciò stesso, rivoltano alla radice i termini della logica con cui, fino a questo momento, abbiamo ragionato sulla guerra e sulla pace. Come scrive Norberto Bobbio (Filosofia della guerra nell’era atomica), «la novità della situazione attuale in cui si viene a trovare l’umanità di fronte alla minaccia della guerra atomica è così radicale, così sconvolgente, da mettere in crisi tutte le risposte che furono date in passato alla domanda sul senso della guerra». Detto altrimenti, nel momento in cui il rischio atomico si fa reale, non esistono più guerre giuste o ingiuste, perché l’estinzione dell’umanità implica, inevitabilmente, l’estinzione dello stesso metro (umano) attraverso cui misurare giustizia e ingiustizia.

Solo un dovere permane di fronte al rischio dell’olocausto nucleare: il dovere morale, politico e anche giuridico (perché, come insegna Hobbes, gli Stati nascono al fine di proteggere la vita degli esseri umani e si giustificano nella misura in cui effettivamente lo fanno) di tentare tutto il possibile per scongiurare tale rischio. Occorre costringere le parti – a iniziare da Putin, ma senza sottovalutare i pericoli di eventuali esaltazioni avventuristiche della controparte ucraina – al negoziato; e occorre che sia fatto senza perdere un solo minuto. L’alternativa alla guerra non è la resa dell’Ucraina, come affermano i favorevoli all’invio delle armi, che, facendo il verso caricaturale ai contrari, li accusano di falsa equidistanza a reale beneficio dei russi (dimenticando, peraltro, che gli unici ad aver parlato di resa sono stati, a oggi, gli israeliani; di certo, non una componente del movimento pacifista internazionale). La vera alternativa alla guerra è la trattativa: la sola prospettiva da cui può scaturire la pace. È quel che ha dichiarato il cancelliere tedesco Olaf Scholz: in questa crisi «può esserci solo una soluzione diplomatica». Ed è quel che, da ultimo, ha riconosciuto lo stesso presidente Zelensky, affermando che «tutte le guerre terminano con un accordo».

Significa che qualcosa Putin dovrà ottenere. È ingiusto: l’aggressore, pur non ottenendo tutto quel che avrebbe voluto, finirà comunque premiato, anziché punito. Sarebbe preferibile poter fare diversamente. Purtroppo, non si può: qualsiasi alternativa – la distruzione dell’Ucraina o del pianeta intero – è indiscutibilmente peggiore. A meno di fare irresponsabilmente propria la massima «fiat iustitia, pereat mundus», vessillo dei fanatici d’ogni tempo. A quanto si capisce, un possibile punto d’incontro verterebbe intorno all’accettazione della neutralità dell’Ucraina, unita al riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea e sul Donbass. Si potrebbe forse immaginare, almeno per quest’ultimo, uno statuto di autonomia garantito da un trattato internazionale sul modello dell’Alto Adige/Sud Tirolo? Chissà, forse, se avesse una diplomazia, l’Italia potrebbe provare a proporlo. Qualsiasi soluzione dia alla Russia il meno possibile è la benvenuta. Ma è chiaro che, quando si negozia, le parti qualcosa cedono, qualcosa ottengono.

Il punto è creare le condizioni perché i negoziati possano avviarsi il prima possibile. Le armi occidentali all’Ucraina avvicinano il raggiungimento di tale obiettivo? O, al contrario, lo allontanano? Dicono i fautori del sostegno militare, senza imbarazzo per la banalizzazione della situazione in atto (oltre che celando dolosamente il pericolo nucleare): «Se vedete un bambino grosso che aggredisce un bambino piccolo, che fate? Vi voltate dall’altra parte o accorrete in soccorso della vittima?». Viene da chiedersi quale scuola pedagogica abbiano frequentato, se pensano di poter ricavare da questa storiella un argomento a favore delle forniture belliche. Esiste davvero qualcuno che reagirebbe mettendo una pietra, un bastone o un coltello in mano al piccolo, così che possa farsi valere sul grande? È evidente che qualsiasi persona dotata di un minimo di senno si precipiterebbe a dividere immediatamente i due contendenti, per impedire che continuino a farsi del male. L’estrema prudenza con cui i militari – inclusi quelli favorevoli all’invio delle armi – commentano i possibili scenari sul campo dovrebbe valere come monito per tutti i fautori del sostegno armato.

La verità è che stiamo armando una guerra che altri combatteranno, non noi; e senza alcuna possibilità di successo. Sarebbe bene, quantomeno, che un po’ di quel coraggio, di quello spirito di sacrificio, di quell’abnegazione che – a parole – esaltiamo negli ucraini li facessimo nostri. C’è un modo assai incisivo di indebolire la posizione della Russia: assai più incisivo che rallentarne per qualche tempo l’avanzata armando gli ucraini. Nonostante la guerra, continuiamo a importare gas russo per molte centinaia di milioni di euro, forse oltre un miliardo, al giorno. È una massa enorme di denaro (siamo al ventesimo giorno di guerra: fanno già 20 miliardi), con cui la Russia finanzia la guerra all’Ucraina: quella stessa Ucraina alla quale, poi, corriamo a fornire armi da impiegare contro i russi. Ebbene, non sarebbe il caso che mentre applaudiamo gli ucraini che s’immolano sul fronte almeno interrompessimo le importazioni di gas russo? Che la finissimo con l’ipocrisia di denunciare l’orrore della guerra e, nello stesso tempo, di alimentarla su entrambi i fronti? Certo, sarebbe un sacrificio molto pesante: per l’economia e per ciascuno di noi. Ma non è forse vero che, ogni giorno, i governi occidentali rivendicano di agire mossi da alti – e, ovviamente, non negoziabili – valori liberaldemocratici? E non è forse vero che, ogni giorno, sui soliti giornali leggiamo che la libertà è il valore assoluto a cui persino la pace deve inchinarsi? E allora! Smettiamola subito di attingere ai gasdotti di Mosca e dimostriamo, anzitutto a noi stessi, che la nostra non è la solita trita propaganda di guerra. O forse i nostri valori – così nobili, così elevati, così assoluti – soffrono il freddo?

Dopodiché, è chiaro, la guerra in Ucraina è parte di una più ampia contesa, che investe la posizione della Russia nel mondo e, in ultima istanza, la definizione di un equilibrio tra le potenze mondiali capace di ridare un qualche ordine alle loro relazioni. Gli strappi di questi ultimi decenni sono stati moltissimi, e per mano di tutti. La lista dell’orrore di Putin – Daghestan, Cecenia, Abkhazia, Ossezia, Siria, Crimea, Donbass, Ucraina – rivaleggia con la lista dell’orrore dell’Occidente e dei suoi alleati: Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Gaza, Siria, Kurdistan, Yemen, Libia. Sarebbe ora che le linee di tensione che hanno portato a tante immani tragedie venissero depotenziate nell’ambito di una visione complessiva, che sia capace di tenere realisticamente conto che nessuno Stato può essere totalmente sovrano, ma tutti subiscono condizionamenti, interni o esterni, che ne limitano, in maniera più o meno incisiva, l’autonomia. Nessuno dubita che se, nella sua libertà, il Messico decidesse di ospitare sul proprio territorio una batteria di missili balistici russi gli Stati Uniti ne ostacolerebbero, con le buone o con le cattive, i piani. Perché dovremmo aspettarci che altrettanto non valga per la Cina o per la Russia? È giusto? No, non lo è. In un mondo ideale nessuno dovrebbe poter imporre ad altri la propria volontà. Ma il mondo in cui viviamo è tutt’altro che ideale, e non tenerne conto rischia di renderlo ancora peggiore di quanto già non sia.

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Un commento a “Se si rompe il tabù nucleare”

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