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Non sono stata a Chicago durante la convention democratica, che ho seguito in notturna dall’Italia. C’ero stata però a maggio, sedici anni dopo la mia prima volta lì che risale ai primi di ottobre del 2008, quando si cominciava a realizzare che Barack Obama avrebbe davvero vinto la corsa per la Casa bianca. Chicago era una città in festa, avvolta da una nuvola di jazz, popolata da neri, uomini e donne, che trasmettevano felicità nel portamento e nel sorriso; un mese dopo, la sera del 6 novembre, si sarebbe riversata nel Grant Park per festeggiare il primo Presidente afroamericano degli Stati Uniti e l’ingresso della prima famiglia nera alla Casa bianca. Chicago aveva fatto la storia. Sedici anni dopo, pur nel suo immutato splendore architettonico, mi è sembrata trasformata: svuotata, immalinconita, senza musica e con i neri arretrati dal centro al ghetto e ai quartieri periferici. Le mie amiche che vivono lì mi hanno dato alcune risposte a questa impressione superficiale: la pandemia e lo smart working per lo svuotamento del centro, la loneliness tecnologica per la malinconia solipsistica che è un problema di tutta l’America, e quanto ai neri il riflusso del movimento Black Lives Matter e, in aggiunta, l’appannarsi del feeling con Barack e Michelle Obama, rei fra l’altro di avere scelto come sede della loro fondazione il lungofiume borghese invece del ghetto che avevano abitato da giovani attivisti. Per me, obamiana della prima ora, una doccia fredda, ulteriormente raggelata dalle cassandre che intanto in Italia decretavano che “il brand Obama” era definitivamente caduto in disgrazia.

Si sbagliavano: alla convention democratica i titoli del “brand” sono risaliti e il feeling con la città è rinato. Gli “Obamas” sono tornati a casa, la casa li ha accolti a braccia aperte sommergendoli di ovazioni e, raccontano le cronache, Chicago è di nuovo una città in festa. Com’è possibile una tale resurrezione? O viceversa, com’era stato possibile consegnarli agli archivi con tanta disinvoltura? Si può rispondere che i due hanno rispolverato per l’occasione il loro carisma, che la loro abilità comunicativa ha sfondato in un evento mediatico costruito alla perfezione, che il discorso di Michelle è stato fra i più memorabili della storia politica moderna e che il suo look da black warrior veicolava al meglio il suo messaggio. Oppure si può prendere la questione più seriamente, chiedersi che cosa significhi questa impronta degli Obama sulla convention, se e come la nomination di Kamala Harris abbia a che fare con la loro eredità obamiana e che fine avesse fatto questa eredità durante le presidenze di Trump e di Biden – magari assumendo che le correnti politiche hanno un andamento diverso e più complicato dei brand di alta moda o dei titoli di borsa.

Si pone alcune di queste domande Ezra Klein, fondatore di Vox e oggi titolare di un autorevole podcast sul NYT, nonché fra i primi ad avere osato scrivere che Biden avrebbe dovuto ritirarsi e pertanto indiziato di avere influenzato tutto l’andamento delle ultime vicende in casa dem. La sua tesi è che il vero passaggio del testimone che si è consumato a Chicago non è quello fra Biden e Harris, bensì quello fra Obama, anzi gli Obama, e Harris. A un primo livello, c’è una chiara investitura diretta in quello “Yes, she can” che l’ex presidente regala alla candidata, e una evidente analogia nel fatto che entrambi fanno di sé stessi i testimonial viventi dell’America plurale, multiculturale e inclusiva che evocano. A un secondo livello c’è l’indicazione politica precisa che Obama ha indirizzato al team Harris-Walz in un passaggio cruciale del suo intervento, quando si è smarcato dalla polarizzazione esasperata fra “i blu” e “i rossi” per rilanciare un modo di fare politica basato su ciò che unisce più che su ciò che divide, e sull’ascolto più che sulla condanna di chi la pensa diversamente (il cosiddetto “centrismo” di Obama, che non nasce però dai pallottolieri parlamentari ma dalla sua conoscenza delle comunità di base e della loro distanza dal linguaggio della politica istituzionale).

Da Michelle a Kamala

C’è però anche un terzo, più nascosto e più interessante livello del passaggio del testimone. Klein osserva che il riferimento e il ringraziamento a Biden, ben presente in apertura dell’intervento di Barack Obama (“Joe e io veniamo da due diversi background, ma siamo diventati fratelli…”), era invece assente dall’intervento di Michelle, tutto incentrato sull’urgenza di uscire dalla cupezza e dalla luttuosità dell’era trumpiana per ritrovare “il potere magico e contagioso della speranza”: come se la ex first lady pensasse che dal 2016 a oggi l’egemonia del discorso trumpiano non fosse mai stata scalfita, nemmeno dalla presidenza di Biden. Il quale in effetti, osserva Klein pur senza volerlo diminuire, non è stato un prosecutore del messaggio di cambiamento di Obama, bensì una figura della stabilizzazione e della normalizzazione: la figura giusta nel 2020 per frenare la slavina eversiva di Trump e per rassicurare un paese devastato dalla pandemia e dalla crisi economica, ma non oggi che i tempi sono maturi per riprendere il sentiero interrotto del progetto obamiano.

Quel progetto, va ricordato, sfonda nel 2008 ma risale a quattro anni prima, quando Obama, allora giovanissimo senatore dell’Illinois, aprì la convention democratica per le prime presidenziali successive all’11 settembre, dalle quali per una manciata di voti uscì rieletto George W. Bush e sconfitto John Kerry. Anche allora, nel pieno dello “scontro di civiltà” con l’Islam, c’era una destra che puntava a monopolizzare e blindare le concezioni della nazione, della patria e della libertà – non per caso le stesse parole che oggi tornano al centro dello scontro – ancorandole a valori tradizionalisti, etnocentrici e neoliberali. Obama fece irruzione sulla scena con la sua contro-narrazione della storia americana, basata su un pluralismo meticcio e inclusivo e ancorata ai valori dell’uguaglianza, della libertà e del diritto alla realizzazione di sé scritti nella Dichiarazione d’indipendenza. Contro il neoconservatorismo di Bush jr allora e contro il sovranismo di Trump oggi il messaggio è lo stesso: l’America vera – “the best of America” – è quella costruita di generazione in generazione da coloro che quei valori li rinnovano, non da coloro che li tradiscono.

Rimettere a fuoco l’obamismo, si badi, non significa solo estrarne un catalogo di contenuti e tonalità emotive contrapposti a quelli del trumpismo: speranza e gioia contro rancore e cupezza, cambiamento contro arroccamento, apertura contro chiusura, cura degli altri contro egoismo sociale, libertà relazionale contro libertà di farsi gli affari propri, benessere della middle class contro interessi dei miliardari eccetera. Significa anche riaprire l’interpretazione della vicenda politica americana dell’ultimo quarto di secolo, smentendo le tesi dei “realisti” di destra e di sinistra che nell’obamismo hanno sempre voluto vedere un’esperienza labile e parentetica, e restituendogli invece lo spessore e il radicamento di un’esperienza di cambiamento che è realmente avvenuta – tanto realmente da avere suscitato una reazione feroce come quella trumpiana – , che può ancora tornare e che non è necessariamente destinata a essere neutralizzata da una “normalizzazione”, repubblicana o democratica che sia.

Il colore nero

Niente però torna mai identico a sé stesso. E oggi la differenza dal passato, oltre alla neocandidata ed ex procuratrice che ovviamente ci metterà del suo, la fa l’asse femminile del passaggio del testimone: come scrive Ezra Klein, più da Michelle che da Barack a Kamala, perché Michelle e Kamala condividono e rivendicano la stessa provenienza da una genealogia femminile nera che conosce bene il lato oscuro, razzista e misogino, del sogno americano, e sa quanto sia duro combatterlo. Resocontata dai nostri media – sempre generici quando si parla di genere – come l’ennesima tappa della lunga marcia femminile verso i vertici del potere politico, la convention di Chicago ha messo in scena in realtà, assieme al potere magico e contagioso della speranza, quello altrettanto magico e contagioso del tramonto del patriarcato, dal quale spunta come una scia luminosa un corteo di donne nere a sostegno l’una dell’altra, che convocano a loro volta a sostegno di tutte un corteo di madri, nonne e suocere, testimoni inconfutabili che la vera tessitura della nazione, nella buona e nella cattiva sorte, in pace e in lotta con il sistema, l’hanno fatta loro, con il loro lavoro produttivo e riproduttivo spesso invisibile e misconosciuto, con le loro lotte e con la loro fede incrollabile che la storia, prima o poi, si sarebbe messa a girare dalla loro parte. Restano sullo sfondo i padri, i buoni padri della Dichiarazione d’indipendenza evocati da Barack Obama e i cattivi padri che continuano ad abbandonare le mogli, a molestare le donne, ad abusare i bambini, a essere ossessionati come The Donald dalle dimensioni della folla e di qualcos’altro.

Il futuro dunque è donna ed è nero, di un nero non luttuoso ma solare che brilla sulla pelle di Kamala, Michelle, Oprah Winfrey, Alexandria Ocasio-Cortez. Ed è questa linea del colore la novità rispetto alle tappe precedenti dell’avvicinamento femminile alla Casa bianca, come la candidatura sfortunata di Hillary Clinton nel 2016 o il precedente confronto fra lei e Sarah Palin nelle primarie del 2008, entrambi dominati dalla retorica neoliberale della “prima donna a rompere il tetto di cristallo”. Stavolta il nero gioca e vince, non solo sul suprematismo maschile ma anche, e benché in alleanza e sorellanza, sul privilegio della donna bianca. In una convention che rimette al centro della narrativa dem la ricchezza plurale del “we, the people” contro l’appello identitario del leader al popolo, questo black power femminile non è un elemento accessorio del quadro: ne è piuttosto la sintesi, intersezionale ed egemonica, ed è perché rappresenta questa sintesi, non perché “è una donna” al pari di quelle che occupano solitariamente i bianchissimi vertici politici europei, che Kamala Harris ce la può fare.

Due macigni

Basterà? Nel paese che la politica-spettacolo l’ha inventata e la sa fare davvero, una convention che solo otto settimane prima, all’indomani del flop televisivo di Biden, si annunciava come una cerimonia malinconica, solo cinque settimane prima, all’indomani dell’attentato a Trump, si temeva come un rito perdente, solo quattro settimane prima, all’indomani della rinuncia di Biden, si paventava come un’incognita fuori controllo, è diventata invece un capolavoro politico e mediatico dal quale la nuova candidata esce come una star, il partito democratico esce compattato e ringiovanito, i sondaggi elettorali escono sovvertiti, i social network inondati, le parole d’ordine cambiate, la narrativa della “più straordinaria democrazia del mondo” rilanciata. Una buona performance, lo sappiamo, ha sempre un effetto performativo: non è mai pura finzione e agisce sempre sulla realtà. Non c’è dubbio dunque che l’ottima performance di Chicago avrà i suoi effetti, sulla mobilitazione del partito e probabilmente anche sul voto, anche se la strada resta in salita e l’esito finale imprevedibile.

Ma per quanto perfetta, una performance non annulla la realtà, né la esaurisce né la sostituisce. E sotto l’entusiastica apertura del “nuovo capitolo del futuro” restano come macigni due giganteschi dati di continuità col passato. Il primo è il presupposto neoliberale della politica economica che il pur enfatizzato spostamento a favore della middle class e di una “economia delle opportunità” non arriva comunque a mettere in discussione, un presupposto dal quale né il clintonismo (in versione Bill e Hillary) né l’obamismo, sia pure con diverse gradazioni, si sono mai discostati, e al quale si deve per gran parte l’adesione di popolo alle false promesse sovraniste e protezioniste di Trump.

Il secondo, più stupefacente e allarmante, è la visione del ruolo egemonico degli Stati Uniti nel mondo, come se dal ritiro dall’Afghanistan o dall’impotenza in Medio Oriente o dallo stallo in Ucraina non fossero arrivate sufficienti smentite; e di conseguenza la visione delle due guerre in corso in Europa e a Gaza. Sulle quali a Chicago è valsa perlopiù la stessa regola del silenzio e dell’omissione già sperimentata su questa sponda dell’Atlantico durante le elezioni del parlamento di Strasburgo: tutti, salvo AOC e Bernie Sanders, hanno accuratamente evitato anche solo di sfiorare il tema, ignorando le proteste della piazza – peraltro meno numerose del previsto. È vero che sul Medio Oriente Harris promette un significativo passo avanti rispetto a Biden, affermando contemporaneamente il diritto alla sicurezza di Israele (cui giura comunque eterno sostegno, e dunque armi) e il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Ma è anche vero che sull’Ucraina si attesta sulla linea di una “enduring struggle” – la chiama così, e chi ha qualche memoria del dopo 11 settembre sa che quell’aggettivo, enduring, non porta bene – fra la democrazia e tutte le autocrazie del mondo che spalleggiano l’autocrate interno, cioè Trump. Persistendo così nella doppia contraddizione che da un quarto di secolo erode l’egemonia americana nel mondo: l’idea che la democrazia si espanda e si difenda con le armi, e l’idea che l’appello alla pluralità valga all’interno ma non serva per ricostruire una qualche forma di coesistenza pacifica fra culture e regimi politici diversi su scala globale. L’Obama del discorso del Cairo del 2009, purtroppo, non è tornato.

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2 commenti a “Se torna l’obamismo”

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