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“Da molti decenni i Paesi Europei possono godere del dividendo di pace, concretizzato nell’integrazione europea e accresciuto dal venir meno della guerra fredda. Non possiamo accettare che ora, senza neppure il pretesto della competizione tra sistemi politici ed economici, si alzi nuovamente il vento dello scontro in un continente che ha conosciuto le tragedie della prima e della Seconda guerra mondiale”.

Queste le parole chiare ed inequivocabili pronunciate dal Presidente della Repubblica al momento del suo insediamento.

Parole ponderate che trasmettono un messaggio chiaro: disinnescare la crisi con tutti i mezzi possibili tranne il ricorso alle armi.

Per contro, c’è chi la guerra sembra evocarla annunciando attacchi mai avvenuti e prospettando il ricorso alle armi come unica prospettiva possibile.

Lo stesso Presidente ucraino Zelensky è dovuto intervenire più volte in questi giorni per smentire attacchi in corso o imminenti, consapevole del fatto che, in caso di guerra, sarà il suo Paese a dovervi far fronte sul campo e non saranno gli aiuti NATO e quelli che vari Paesi stanno inviando negli Stati confinanti, a sostituire le persone in carne ed ossa che, ormai senza troppe distinzioni tra militari e civili, soccomberanno in un eventuale conflitto.

Accanto a questa escalation militare, si moltiplicano i tentativi di dialogo testimoniati dalla spola tra Mosca e Washington, soprattutto da parte di Francia e Germania e dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Europea Josep Borrell. Si sono anche riavviati i colloqui formato Normandia tra Francia, Germania, Russia, Ucraina1, a testimonianza del malessere europeo verso quella che sembra essere l’unica soluzione e cioè: la guerra.

Vi sono poi gli atlantisti di casa nostra, ”senza se e senza ma”, che ripetono la formula come un atto di fede e, non solo per assenza di spirito critico, ma anche, forse, per un uso politico interno quanto provinciale: poiché Salvini continua a ripetere che bisogna avere buoni rapporti con la Russia vale la pena di sostenere il contrario.

È, peraltro, interessante vedere come nell’arco di poco più di sei mesi siano cambiati gli umori all’interno del Parlamento europeo. A fine primavera 2021, in un’audizione della Commissione esteri, presenti anche oppositori russi, insieme alle critiche e alle condanne, si sosteneva di voler mantenere il confronto almeno su temi quali: il controllo degli armamenti, gli impegni legati alla transizione ecologica, l’energia. A settembre il Parlamento europeo invia al Consiglio una raccomandazione molto più dura dove il tema dell’energia scompare e si chiede che, al più presto, l’Ue si affranchi dalla dipendenza dal gas russo, non si parla però di Nord Stream 2; a dicembre è stata adottata una risoluzione dai toni decisamente muscolari, come se l’invasione dell’Ucraina fosse già avvenuta; si chiede il blocco del gasdotto Nord Stream 2 e la Russia è indicata come “nemica” dell’Ue e dell’Occidente2.

Come valutare questa progressione senza collegarle alle pressioni e alla propaganda USA?

Proprio l’energia sembra essere il vero motivo dell’attuale contesa tra USA e Russia come analizza bene Alberto Negri nell’articolo sul “il manifesto dell’8 febbraio 2022. Impedire la realizzazione e l’entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2 uno degli obiettivi, da qui le pressioni di Washington soprattutto sul neoeletto cancelliere Olaf Scholz.

Certo, l’era Putin non è delle migliori: molto del suo comportamento può essere dettato da problemi di consenso interno, ma le stesse considerazioni possono valere per gli USA, sia riferite alla presidenza Trump che alla debolezza dell’attuale presidenza Biden.

Volendo concentrarsi sul ruolo dell’Ue, non si può non partire da una constatazione generale riguardo gli eventi più recenti. Afghanistan, Iraq, Siria, Libia. Conflitti voluti dagli USA che hanno coinvolto Paesi europei, spesso divisi tra loro come nel caso libico, in guerre infinite e sanguinarie. In nessun caso l’intervento militare è stato risolutivo. Siamo circondati da macerie e da Stati falliti e, i popoli, che si dichiarava di voler aiutare o addirittura liberare, sono stati abbandonati a se stessi,in condizioni disumane. In più, quando si presentano come rifugiati ai nostri confini li respingiamo o li segreghiamo in campi come quello di Lesbo. Vogliamo replicare questo schema in Europa?

Ultimamente il tema della Difesa Europea è tornato di attualità e a marzo prossimo si svolgerà un Consiglio europeo che dovrà discutere l’evoluzione di questa politica e assumere orientamenti conseguenti. L’Unione europea torna su un tema che aveva già affrontato agli albori dell’integrazione quando, prima ancora della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), la prima politica comune era stata individuata proprio nella sicurezza con l’istituzione della Ced (Comunità europea di difesa). Allora come oggi, i promotori furono i francesi ma anche l’Italia con De Gasperi formulò una proposta molto influenzata dal federalismo di Altiero Spinelli, il quale introdusse la proposta di un’assemblea democratica come parte del processo. Il tutto venne accantonato per problemi che riguardarono principalmente il riarmo della Germania e l’opposizione della Francia a questa ipotesi. La guerra di Indocina e la morte di Stalin, fecero il resto. La questione si risolse con l’allargamento della Ueo (Unione europea occidentale) a Germania e Italia.

In ogni caso, già da allora l’identificazione tra Cee e NATO era scontata. La politica di difesa europea, fino alla caduta del muro di Berlino, infatti, si è praticamente identificata con la NATO, attraverso la Ueo che ne ha costituito il braccio Europeo. Anche dopo, e tuttora, questi legami rimangono prevalenti e istituzionalizzati salvo le complessità che nel frattempo si sono evidenziate.

La Guerra dei Balcani ha mostrato tutta l’inconsistenza europea nel prevenire e gestire quel conflitto; in quel caso la NATO è stata protagonista assoluta e quando si è posto il problema di tentare una responsabilità europea in ambito NATO. Prima nel 1996 con la creazione di ESDI (Identità di Sicurezza e Difesa Europea) all’interno della NATO. In seguito, con gli accordi di Berlin Plus del marzo 2003 è emersa nella pratica tutta la difficoltà di conciliare la formula “separati ma non separabili”, che ha dimostrato, da una parte, l’impossibilità di un’autonomia europea nell’utilizzo degli strumenti NATO e, dall’altra, la difficoltà di tenere insieme Paesi facenti capo ad alleanze asimmetriche e talvolta conflittuali.

Tanto che, solo due operazioni hanno visto in campo questo tipo di missioni denominate “Petesberg” in Europa: quella con il nome “Concordia” in Macedonia del nord del 2003, la ALTHEA in Bosnia Erzegovina nel 2004. Da allora, questa esperienza non è stata replicata né appare replicabile.

Ritornando alla complessità della situazione attuale a causa dell’asimmetria delle diverse collocazioni rispetto alla NATO, basta fare qualche esempio. Svezia, Austria e Irlanda non sono membri e aderiscono soltanto alla “Partnership for Peace”; la Finlandia, non aderisce neanche a quest’ultima formula; la Norvegia è membro NATO ma non Ue. Vi sono Paesi, poi, come la Turchia che è Paese NATO e, in quanto tale, non va discriminato secondo i criteri dell’accordo Berlin plus, ma la sua presenza è inconciliabile con quella di Cipro e ciò ha già fatto fallire alcune iniziative comuni, oltre al fatto che la politica estera di Erdogan è difficilmente digeribile almeno da una parte dei Paesi europei.

Va poi ricordato che i Paesi dell’ex Patto di Varsavia attualmente membri dell’Ue, furono ammessi a far parte della NATO molto prima dell’ingresso nell’Ue stessa, e questo, insieme alla loro storia e geografia, ha un peso nelle politiche dell’attuale Unione. Un bel rompicapo, complicato anche dagli accordi di Abramo, promossi da Trump, che intervengono in aree molto sensibili per l’Europa e per la sua sicurezza.

Dopo l’11 settembre, per la prima volta gli USA hanno invocato l’art. 5 del Trattato NATO, secondo il quale “l’attacco ad un Paese membro deve essere considerato un attacco a tutti i membri dell’alleanza” al di là dei confini territoriali. Inizia così l’era della “lotta al terrorismo”.

In questo quadro, lo sviluppo di una politica di sicurezza europea sarebbe più che benvenuto, tuttavia, qui iniziano i problemi che, non a caso, fino ad ora hanno frenato lo sviluppo di questa politica. Innanzitutto, le divisioni interne all’UE, una costante visibile anche nella crisi attuale, al netto della scelta del Regno Unito di lasciare l’Unione.

Come può immaginarsi una politica di difesa senza una politica estera comune?

Altro capitolo complesso è quello del rapporto tra Difesa europea e NATO perché, come abbiamo visto, immaginare una autonomia europea nell’ambito NATO si è già rivelato impraticabile; per una ragione di fondo: perché la NATO, a tutti gli effetti, è strumento degli USA e del suo “complesso militare-industriale”, dominante nella politica americana.

La struttura attuale del Trattato dell’Unione Europea, poi, affida questa politica alle sue istituzioni intergovernative (Consiglio europeo e Consiglio dell’Ue), il che vuol dire che i parlamenti nazionali ne sono totalmente esclusi e al Parlamento europeo è assegnato soltanto un ruolo consultivo. In un periodo storico segnato dalla crisi delle democrazie, questo sarebbe un colpo micidiale al parlamentarismo con ciò che ne conseguirebbe.

Ancora: quale dottrina dovrebbe sovrintendere a questa politica?

In Italia, come in molti altri Paesi, abbiamo una Costituzione che indica e regola l’uso della forza anche come portato delle vicende storico politiche del Paese; allo stesso modo, a livello europeo dovrebbe esserci una vera Costituzione che si ispiri alle più alte tradizioni costituzionali comuni per poter operare in un quadro di “diritto condiviso” che non vada a confliggere con il dettato costituzionale di ogni singolo Paese.

Vi è poi il problema delle risorse che, a rigore, dovrebbero essere in gran parte “sostitutive” di quelle che attualmente i singoli Stati impegnano e il “valore aggiunto” dovrebbe essere dato proprio dall’integrazione delle stesse evitando l’aumento esponenziale delle spese militari, con il conseguente passaggio di potere dalla politica alle lobby, come avvenuto negli USA.

Poiché è aperta una discussione sul futuro dell’Unione europea, questi temi dovrebbero essere dominanti e oggetto di un dibattito esteso e partecipato che valuti tutte le implicazioni dei cambiamenti necessari e, soprattutto, della qualità ed efficacia della loro realizzazione.

Infine, dalle condizioni elencate, risulta evidente che solo con un assetto “federale” esse potrebbero trovare una base per poter produrre risultati che tengano insieme la necessità di politiche comuni con la democrazia, lo Stato di diritto e la partecipazione dei cittadini. Insomma, il binomio Costituzione europea-Europa federale è inscindibile.

Si può obiettare che nell’attuale Unione non vi sarebbe il consenso necessario per andare in questa direzione. La risposta è che l’Unione, anche quella attuale, potrebbe conciliarsi con un nucleo di Paesi che facessero la scelta federale; il problema, come spesso accade, non è istituzionale ma di volontà politica, perché le istituzioni seguono gli sviluppi politici.

Note

1 Come è noto, i leader dei quattro Paesi si incontrarono per la prima volta per affrontare la crisi del Donbass, il 6 giugno 2014 in Normandia, in margine alle celebrazioni del 70° anniversario dello sbarco alleato.

2 Per vedere la sequenza delle discussioni in Commissione Esteri e dei documenti adottati dal Parlamento Europeo, cfr:

Qui il PDF

Un commento a “Separati ma non separabili. Europa e NATO alla prova dell’Ucraina”

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