Le caratteristiche della crisi globale e delle sue drammatiche conseguenze a livello economico, ambientale, sociale, sono tali da poter essere affrontate con qualche possibilità di successo solo dalle istituzioni pubbliche e dagli apparati da queste dipendenti. È sempre più evidente la necessità che il sistema istituzionale ai vari livelli, da quello europeo fino a quello locale, riesca a svolgere un ruolo più forte attraverso una regolazione migliore e più incisiva, oltre che all’impiego di disponibilità economiche molto maggiori.
La controriforma proposta dal Governo di destra-centro punta a un ulteriore rafforzamento del potere esecutivo rispetto al Parlamento e a un massiccio ampliamento della competenza legislativa e amministrativa delle Regioni, portando a compimento le tendenze autoritarie e disegualitarie operanti da decenni nel paese, conferendo una assoluta preminenza agli apparati pubblici di comando più forti già oggi, come quello della Presidenza del Consiglio, a capo dei Gabinetti ministeriali, e le strutture politico-amministrative delle singole Regioni.
Il fatto è che il funzionamento del sistema pubblico nelle sue diverse articolazioni ha continuato a peggiorare negli ultimi decenni, proprio per effetto dell’innesto delle tendenze di cui sopra sulle dinamiche interne del sistema, aggravate dalle “riforme” prodotte intorno alla fine del secolo.
Si tratta di una problematica complessa, che si cercherà di analizzare mettendone a fuoco alcuni tratti essenziali. Il nodo centrale è costituito dall’incrocio di due tipologie di rapporti. La prima è quella relativa al rapporto tra assemblee elettive (Parlamento, Consigli regionali e comunali), organi esecutivi e apparati da questi dipendenti, sulla definizione e realizzazione delle politiche pubbliche. La seconda riguarda il rapporto tra le politiche da definirsi a livello nazionale, nel quadro delle politiche europee, e le politiche spettanti al livello regionale e dei grandi comuni. Infine, per ciò che riguarda gli strumenti per la realizzazione delle politiche pubbliche, si pone la questione del rapporto tra leggi, regolamenti e piani.
Un intreccio che la controriforma del Governo si propone di tagliare con la doppia scure del premierato e dell’autonomia differenziata, senza considerarne le criticità reali, peraltro poco presenti all’insieme delle forze politiche. Di queste – ovvero delle criticità del sistema istituzionale – si tratterà nel seguito di questo scritto, senza considerare i problemi più generali del sistema politico se non quando impattano direttamente sul funzionamento delle istituzioni.
La distorsione della funzione legislativa
La prima evidenza critica è il sostanziale superamento della distinzione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario alla base dello Stato di diritto, come ancora insegnano nelle università. Oggi, in Italia, le leggi sono scritte dal Governo. Più del 95% delle norme di legge vanno in vigore nel testo redatto tra i Gabinetti ministeriali e il Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, con la copertura finanziaria della Ragioneria generale dello Stato. A volte passando direttamente dal tavolo del Governo alla Gazzetta Ufficiale (Decreti legge, Decreti legislativi delegati), a volte passando per le Commissioni e le aule parlamentari, attraverso mediazioni orchestrate dal Ministro per i rapporti col Parlamento tra i Gabinetti dei Ministri e i relatori di maggioranza sui vari provvedimenti. Fino ai voti di fiducia, divenuti prassi ordinaria per approvare l’emendamento governativo che chiude la discussione sulla legge di bilancio. In ogni caso, anche quando è il Parlamento a votare una norma proposta dal Governo, questo voto non è libero, ma è condizionato da una disfunzione del sistema politico. La legge elettorale consegna la selezione delle candidature alle segreterie dei partiti, che comporranno la maggioranza parlamentare ed esprimeranno il Governo e il Capo del medesimo. Perciò, quando il Governo propone di votare le sue norme ai parlamentari che ha selezionato, questo voto sarà condizionato, oltre che dall’orientamento politico e dalla fedeltà personale, dalla gratitudine per essere stato selezionato e dal timore di non essere più ripresentato. Timore tanto più forte per il voto di fiducia, che potrebbe portare, se negato, a nuove elezioni. Queste dinamiche sono in atto da molti anni, solo rafforzate dall’involuzione delle leggi elettorali verso la “nomina” dei parlamentari da parte dei capi partito, e sono state condivise sia dalla destra che dalla sinistra. Ma la destra le interpreta e le gestisce meglio, perché più in sintonia con l’indirizzo antidemocratico, e oggi le porta a compimento con la proposta dell’elezione diretta del premier, presumibilmente collegata a quella della “sua” maggioranza secondo il modello del “sindaco d’Italia”.
La seconda criticità rispetto a un principio dell’ordinamento, ancora insegnato nelle università, è quella che investe il carattere “generale e astratto” delle norme di legge, contenenti schemi di rapporti giuridici applicabili almeno in potenza alla generalità dei cittadini perché regolati in modo organico, con una serie di norme che ne investono i diversi aspetti e conseguenze in termini coordinati. Sempre più spesso, invece, le leggi sono un assemblaggio di norme-provvedimento, che assegnano singoli diritti o facoltà, o singoli doveri, a singoli gruppi sociali o territoriali, o a singole aziende. E singoli poteri a singole autorità pubbliche. Il caso tipico è la legge di bilancio, composta da centinaia di norme quasi sempre di tipo provvedimentale, che producono – o proibiscono – effetti finanziari. È esploso, di conseguenza, il quadro della legislazione vigente nel paese. Trent’anni fa tra gli addetti ai lavori si discuteva intorno alla cifra delle centomila leggi in vigore, comunque troppe. Ne sono nate iniziative di riforma dell’attività di produzione legislativa, sul piano quantitativo, come le leggi annuali di delegificazione, e sul piano qualitativo, come le leggi sulla analisi e valutazione dell’impatto della regolazione. La scarsità di risultati ha prodotto intorno al 2005 l’interruzione di questo sforzo, e ha accelerato la metastasi normativa. Anche perché la riforma del Titolo V della Costituzione ha potenziato l’attività legislativa delle Regioni in tutte le materie a “competenza concorrente” con la legislazione statale. Un intrico che l’autonomia differenziata finirebbe col moltiplicare, e che comunque ha prodotto contenziosi costituzionali, ha ostacolato l’esercizio dei poteri pubblici sui territori e ha portato all’impiego sistematico dei Commissari “straordinari”, operanti al di fuori delle leggi vigenti, per le emergenze ma anche per eventi come il Giubileo. Naturalmente, dietro questa frammentazione della funzione legislativa vi è la frammentazione dei rapporti tra la società, nelle sue diverse componenti, e la politica, rendendo sempre più vana la ricerca dell’“interesse generale” e sempre più presenti gli interessi particolari, categoriali, territoriali. E sempre più forti gli interessi economici, privati e pubblico-privati, che così hanno aumentato le possibilità di condizionare la politica e l’amministrazione in senso favorevole ai propri affari attraverso l’appoggio dei “media” controllati, le reti – più o meno riservate di relazioni tra imprenditori, politici, funzionari, esperti – o direttamente attraverso finanziamenti legali o illegali.
L’ulteriore conseguenza di questa distorsione della funzione legislativa è l’impazzimento del diritto amministrativo, con la moltiplicazione del contenzioso giurisdizionale e il rallentamento fino alla paralisi di molte attività amministrative. Il diritto amministrativo – si spiegava nelle università – regola i rapporti disuguali tra l’esercizio di un potere pubblico, teso a realizzare un interesse pubblico, e la salvaguardia dell’interesse legittimo di un soggetto privato, che può essere limitato da quel potere esclusivamente per le finalità e con le modalità previste dalla legge. Altrimenti la limitazione è illegittima e può essere impugnata dal privato davanti al giudice amministrativo. Nella situazione attuale l’interesse pubblico spesso non è più configurabile come interesse generale, ma come un interesse particolare, anche collettivo, fatto proprio dalla legge e affidato all’esercizio di un potere pubblico anche comprimendo altri interessi privati. Ma nella stessa materia le leggi vigenti sono numerose e il potere pubblico esercitato da enti diversi, e in questo intrico l’interesse privato compresso trova il modo, se legalmente ben assistito, di qualificarsi come interesse legittimo e di contestare l’esercizio del potere pubblico attraverso il ricorso alla giurisdizione amministrativa. Il potere pubblico, a quel punto, spesso si difende producendo una ulteriore norma di legge che in quella fattispecie taglia l’intrico a suo favore. Emerge, in tal modo, la centralità del ruolo dei magistrati amministrativi posti a capo dei Gabinetti e degli Uffici legislativi, che comunque producono norme di legge tenendo conto del possibile contenzioso giurisdizionale, e magari lo influenzano attraverso le relazioni con i colleghi che esercitano le funzioni di istituto. Distorcendo, così, anche su questo versante, il rapporto corretto tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
Queste dinamiche sottostanti al sistema pubblico agiscono ormai da decenni, con Governi d’ogni colore, peggiorando gradualmente per la disarticolazione della società e della politica, fino al salto di qualità prospettato dalla controriforma Meloni-Salvini. Le riforme realizzate negli anni ’90 e dopo il passaggio di secolo non le hanno risolte, e talvolta le hanno potenziate. S’è detto del fallimento dei tentativi di delegificazione e del dilatarsi della produzione legislativa dopo la riforma del Titolo V. Si potrebbe continuare con la parziale vanificazione del principio di distinzione tra politica e amministrazione, o l’applicazione solo formale della legge di riforma del Bilancio del 2009, o l’andamento a fisarmonica della legislazione sugli appalti, con l’alternarsi della contrazione e dell’espansione dei controlli. Ma sarebbe dispersivo rispetto alla questione principale indicata all’inizio.
L’incapacità progettuale
Il procedere della crisi globale, articolato tra il peggioramento, graduale ma continuo, di alcuni fenomeni e il susseguirsi di eventi estremi improvvisi ma prevedibili, è tale, per dimensioni, qualità e intrecci, da rendere assolutamente cruciale la capacità del sistema pubblico di disegnare e realizzare progetti tesi a controllare o fermare i fenomeni in peggioramento e fronteggiare adeguatamente gli eventi critici. Non solo politiche, ma veri e propri piani. L’evidenza di questa necessità si è tradotta, negli ultimi anni, nel Piano pandemico nazionale, nel Pnrr, nel Piano per la mitigazione del rischio idrogeologico. Il primo inattuato, il secondo in serie difficoltà, il terzo, applicato nella regione Emilia Romagna ma crivellato dalle deroghe. E le conseguenze sono note.
Il fatto è che la prassi consolidata di legiferare per amministrare, fattispecie per fattispecie, interesse particolare per interesse particolare, badando solo all’equilibrio complessivo di bilancio, ha prodotto e continua a produrre una incapacità strutturale del sistema pubblico a progettare e realizzare piani. Nel quadro generale di una prevalenza degli interessi particolari sull’interesse generale, questa prassi ha conferito un dominio assoluto della dimensione giuridica su quella tecnica, settore per settore, e ha irrigidito, depauperato e infine paralizzato l’attività degli apparati amministrativi. Perciò, nella situazione attuale, si impone la necessità di cambiare questa prassi, sia per ciò che riguarda il rapporto tra Parlamento e Governo (e Amministrazione), sia per il rapporto tra pianificazione e legislazione (e attività amministrativa). Entrambi i rapporti vanno riequilibrati in modo incrociato a favore del Parlamento e a favore della pianificazione, così da instaurare una dialettica effettiva che superi l’egemonia di un Esecutivo che governa facendo norme di legge, spesso sotto la pressione più o meno palese di interessi forti. Non si entra qui nel merito delle modifiche strutturali da introdurre nel sistema, se non per segnalare la possibilità di fare riferimento ad alcuni istituti presenti in esperienze straniere.
Sul rapporto tra legislazione e pianificazione, va detto che la legge di approvazione di un piano nazionale dovrebbe contenere anche le modifiche alla legislazione vigente necessarie per l’attuazione del piano. Poteri pubblici, diritti e doveri, facoltà e obblighi dei soggetti privati. Naturalmente, o sperabilmente, gran parte delle leggi investiranno diritti e doveri a sé stanti, al di fuori dei piani. Tuttavia, sulla regolazione dei rapporti economici all’interno dei piani va evidenziato un punto. La premessa è che le gravi conseguenze delle varie manifestazioni della crisi investono comunque la generalità dei cittadini, sia pure con modalità differenti tra le diverse classi e gruppi sociali. Una epidemia, una inondazione, l’aumento delle migrazioni o del prezzo dei combustibili o del livello dei mari riguardano l’intera società. Questa generalità rimette al primo posto l’interesse generale rispetto agli interessi particolari, ovvero l’interesse pubblico rispetto all’interesse privato, come previsto – del resto – dalla Costituzione. Il punto da mettere in evidenza, perciò, riguarda la necessità di introdurre limiti alla proprietà privata per rendere possibile l’attuazione dei Piani. Ciò vale per le imprese che producono beni e servizi, investite dai Piani di riconversione ecologica dei diversi settori. Vale per la proprietà privata immobiliare, investita dai Piani relativi al rischio idrogeologico, o semplicemente per i Piani urbanistici e di pianificazione dell’uso del territorio, magari col ripristino dell’espropriazione per pubblica utilità. Vale, infine per il reperimento, attraverso una fiscalità progressiva, delle grandi risorse necessarie a compensare gli interessi privati sacrificati dai Piani.
Si torna, così, alla questione-madre che va oltre i limiti di questo scritto, ovvero la politica generale da adottare per fronteggiare la crisi.
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