Interventi

Per varie circostanze mi sono trovato a passare gli ultimi tre mesi a Canterbury, UK, nei tempi interessanti dei quarant’anni di London Calling e delle recenti, epocali elezioni politiche. Tornato a casa da un paio di giorni, disfatti i bagagli, ancora è difficile scrollarsi di dosso il senso, malinconico, di una fine. Dietro mi porto però anche qualcos’altro: una spilletta con la rosa bianca in campo rosso. Nelle settimane che hanno preceduto il fatidico 12 dicembre ho avuto la fortuna e l’onore di poter dare un (minuscolo) contributo alla campagna del Labour, e la fortuna e l’onore di conoscere decine di compagne e compagni, militanti e volontari, che hanno dedicato chi ore e chi giorni del proprio tempo, spesso in condizioni ambientali tutt’altro che favorevoli, alla buona causa del manifesto rosso: probabilmente il programma più a sinistra, e di più radicale rottura col continuum neoliberista, che si sia visto in Europa (?) negli ultimi trent’anni. Corbyn è il nome – e l’uomo – di questa rottura: un glitch nel sistema, come lo definisce un verso del rapper londinese Lowkey.

A un primo sguardo si fa qualche fatica a capire come questo personaggio mite, impacciato, talvolta francamente goffo, tremendamente lontano dal virilismo narcisistico di altri leader che affollano oggi la scena mondiale, possa aver suscitato negli ultimi anni gli entusiasmi collettivi di un popolo da troppo tempo orfano di rappresentanza politica. Eppure, l’ormai celebre “Oh Jeremy Corbyn” è tornato a risuonare anche stavolta, intonato ad esempio dai tifosi del Liverpool in casa del Salisburgo. Il fatto è che la sua figura – per il felice mix di una vicenda personale spesa sempre “dalla parte giusta della storia e di una presenza pubblica in grado di materializzare il senso di un impegno politico appassionato (la voce rotta dall’emozione, il corpo attraversato da un tremito di rabbia) – finisce per caricarsi di una sorta di anti-carisma, improbabile e tuttavia magnetico. Corbyn ama quello che fa, ama quelli e quelle per cui lo fa. E tu che lo guardi e/o ascolti non puoi esimerti dal ricambiare.

Come buona parte della teoria critica recente ha ormai imparato a riconoscere, e come il femminismo ha da tempo insegnato, l’amore è una passione politica potente. Ed è da innamorato – in questo senso speciale in cui personale e politico, individuale e collettivo si confondono – che provo a scrivere queste brevi note. Ciò che ami, lo difendi. E quel che segue non vuole essere altro che una difesa del corbynismo. Anzi no, non del corbynismo. Come Corbyn stesso ha tenuto a precisare all’indomani delle elezioni, il corbynismo non esiste: esiste il socialismo, esiste la lotta per la giustizia sociale. Ecco, le prossime righe saranno un atto d’amore per tutte le donne e gli uomini che hanno combattuto quella lotta, e che già si stanno organizzando per combatterla di nuovo.

Il castello dei vampiri

Al di là di questa motivazione dal sapore forse troppo personale, c’è anche un punto eminentemente politico che va sottolineato. Già a poche ore dai risultati ufficiali, pundits e commentatori di ogni risma si sono affrettati, con gioia maligna, a fare la morale della sconfitta. Così, Matteo Renzi su Twitter ci ha subito spiegato che «la sinistra radicale, quella estremista, quella dura e pura è la migliore alleata della destra» (e c’è da credergli, visto che di alleanze con la destra è uno che se ne intende). Federico Rampini su la Repubblica si è invece sentito in dovere di lanciare un avvertimento a tutti i democratici americani, invitandoli ad andare «a lezione da Boris Johnson»: candidate Sanders o Warren e vi terrete Trump. Anche Andrea Pipino di Internazionale si è unito al coro: tra i molti «errori di Corbyn» ci sarebbe quello di aver presentato un programma «troppo lungo, troppo ambizioso e troppo radicale per essere credibile e convincere la maggioranza dei cittadini». L’idea è più o meno la stessa: spostarsi troppo a sinistra porta guai.

Difendere l’esperienza corbyniana non è allora solo un modo per elaborare un lutto: significa anche fare argine contro il dilagare di una linea interpretativa che condanna ogni scarto dall’esistente come già sempre votato alla disfatta. È il realismo capitalista, l’ideologia che, come dice Žižek, oggi funziona non idealizzando e giustificando lo stato di cose presenti ma squalificando la possibilità di un’alternativa, e «uccidendo la speranza». Sì, lo sappiamo, questo mondo è sull’orlo della catastrofe. Ma non vi illudete: ogni cambiamento non può che risultare in uno scenario peggiore. Il «manifesto of hope» del Labour era anche, tra le altre cose, un tentativo di rovesciare la logica di questo cinismo imperante, e non sorprende che a cose fatte i cinici si siano precipitati da ogni dove a sfogare la loro Schadenfreude e a ricordarci che no, un altro mondo non è possibile. Evidentemente non siamo ancora usciti dal castello dei vampiri di cui parlava Mark Fisher, e a ogni sconfitta la sua presenza si avverte sempre più opprimente.

La carta della radicalità

Già, la sconfitta. Partiamo da qui. Era da più di ottant’anni che il Labour non otteneva così pochi deputati alla Camera dei Comuni: 203 contro i 365 dei Conservatori di Boris Johnson. C’è da dire che il dato, esito di un sistema uninominale secco (il cosiddetto first past the post), non rispecchia fedelmente l’andamento del consenso in termini assoluti, che vede invece un 43,6% di voti per i Tories a fronte del 32,2% dei Laburisti (qualcuno ricorda le percentuali di Italia Viva?). Ma non è questo il punto. Numeri dei seggi alla mano, le elezioni sono state un disastro, e non c’è motivo di negarlo. Fortunatamente però gli effetti di un movimento politico non si misurano solo col bilancino della contabilità parlamentare. La decisa sterzata a sinistra impressa da Corbyn al Labour – col supporto decisivo di Momentum e della base militante del partito – ha spostato gli assetti del discorso pubblico, modificandone sensibilmente gli equilibri.

Lo si è visto ad esempio in occasione dell’incendio della Grenfell Tower nel giugno 2017, in cui persero la vita settantadue persone. In un’altra situazione, il fatto sarebbe stato probabilmente inquadrato nei termini fatalistici della “disgrazia” o, al limite, in quelli moralistici della condanna dei comportamenti devianti di “certi” imprenditori immobiliari, poche mele marce tra tanti onesti operatori di un mercato sostanzialmente sano. In un caso come nell’altro, l’elemento politico sarebbe rimasto escluso. Corbyn ha però cambiato le carte in tavole, politicizzando l’evento e impostando di conseguenza tutto il tono del dibattito: non una tragedia dai contorni ineffabili, ma il risultato di precise politiche di austerity combinate con un sistema strutturalmente diseguale che, per definizione, mette i profitti dei pochi prima delle vite dei molti. Theresa May, l’allora PM, è stata a quel punto costretta a difendersi sullo stesso piano, accettando il frame del suo avversario.

Questa forza di attrazione a sinistra, generata dalla massa critica del corbynismo, è tornata potente anche in occasione dell’ultima campagna elettorale. Prendiamo il caso del servizio sanitario nazionale (NHS), da anni al centro di politiche neoliberali di privatizzazione e definanziamento. Il manifesto Labour proponeva di aumentare la spesa nella sanità pubblica del 4,3% l’anno nei prossimi quattro anni, rimediando alle carenze croniche di personale, investendo in macchinari e infrastrutture ecc. Come potevano allora i Tories restare fedeli al loro tradizionale programma di austerity e presentarsi alle elezioni promettendo lo smantellamento definitivo dell’NHS? Il Conservative Manifesto prevede l’assunzione di cinquantamila infermieri e la costruzione di quaranta nuovi ospedali in dieci anni, impegnandosi in generale a investire «milioni ogni settimana» in «scienza, scuole e infrastrutture». Se non una vera e propria sconfessione del dogma dell’austerità e del controllo del debito pubblico, storico cavallo di battaglia dei Conservatori, qualcosa che le si avvicina molto – tanto che l’Institute for Fiscal Studies, think tank indipendente ma nettamente schierato su posizioni neoliberali, ha subito lanciato l’allarme sulle promesse di spesa di entrambi i partiti. Promesse che molto probabilmente resteranno tali, ma che già solo sul piano simbolico segnano uno scarto importante. Senza il pungolo del «duro e puro» Corbyn, Johnson sarebbe mai stato visitato da questa folgorazione sulla via di Damasco? Improbabile.

Ecco forse, meno visibile ma più interessante, la lezione del caso inglese. Quando la sinistra osa la carta della radicalità, il tavolo da gioco si inclina, l’inerzia della partita viene invertita, e il neoliberismo all’improvviso non appare più come the only game in town. Checché ne dica la schiera dei realisti, c’è potenzialmente molto da guadagnare, in campo socialdemocratico, da una radicalizzazione del linguaggio e dei contenuti della proposta politica. Persino quando poi si perde nelle urne.

Le liste degli errori

Torniamo, appunto, alla sconfitta. Quasi tutti i commenti post-elettorali, in UK e fuori, si sono concentrati sulla ricerca degli «errori». La teologia politica implicita è sempre, mi sembra, quella di marca cristiana, e cattolica in particolare: dove c’è stata una caduta deve esserci stata una colpa; una volta individuata la colpa, si può procedere alla correzione, chiedendo per prima cosa al peccatore di pentirsi e fare espiazione. Non si considera mai la possibilità di una situazione “greca”, in cui la tragedia può consumarsi anche in assenza di una responsabilità (morale) diretta dei protagonisti. Si procede allora alla compilazione di liste più o meno nutrite di errori, e si crede di aver risolto così il problema della spiegazione: pazienza se poi questa spiegazione spesso non regge alla prova dei fatti. Un sondaggio di Opinium sulle «ragioni principali per cui gli elettori non hanno votato per il Labour» raggruppa le risposte in tre categorie: la leadership di Jeremy Corbyn, la posizione sulla Brexit, e le politiche economiche del manifesto. Questo schema triplice riassume piuttosto bene il campionario delle critiche mosse al partito all’indomani della sconfitta. Stiamo dunque al gioco del sondaggio, e vediamole punto per punto in ordine crescente di rilevanza.

All’ultimo posto troviamo il programma: solo il 12% di chi non ha votato laburista è stato spaventato dalla radicalità della sua proposta economica. Il che dovrebbe far riflettere chi si è affrettato a ricondurre la sconfitta all’«estremismo» del Labour corbyniano. Stando al sondaggio in questione, la sinistra quindi non ha perso perché ha fatto “troppo” la sinistra. Aggiungo solo un altro elemento. Una diversa declinazione della critica alla proposta politica laburista è l’accusa di essere un residuo passatista, bloccato all’età dell’oro dei Trenta gloriosi, e di continuare a proporre soluzioni nate in un orizzonte fordista ma inapplicabili al mondo post-fordista della produzione immateriale e della società della conoscenza. Anche in questo caso mi permetto di dissentire. Non solo la riflessione pubblica del partito è attestata su punte molto avanzate e per niente appiattite sul lavorismo della tradizione socialdemocratica – penso alla proposta del cancelliere ombra McDonnell di una settimana lavorativa di quattro giorni, al progetto di sperimentazione di un reddito di base universale, o all’idea di un’istruzione gratuita permanente lungo tutto l’arco di vita – ma anche molte delle policies esplicitamente contenute nel manifesto elettorale sono decisamente coniugate al futuro: internet a banda larga gratuito in tutto il paese, abolizione delle tasse universitarie (che in Gran Bretagna hanno raggiunto sotto i governi conservatori cifre astronomiche, spingendo gran parte degli studenti inglesi nella trappola dell’indebitamento), Green New Deal. Le statistiche sul voto analizzate per fascia d’età sono a questo proposito eloquenti: tra gli elettori e le elettrici sotto i quarant’anni il Labour vince con percentuali schiaccianti, toccando punte del 56% tra i e le giovani sotto i ventiquattro. Percentuali che letteralmente si capovolgono una volta superata la soglia dei quaranta. È perciò curioso leggere su la Repubblica che «le vecchie ricette di Corbyn non fanno breccia tra le nuove generazioni». Se c’è una classe che ha davvero votato tenendo conto (anche) dei propri interessi materiali, quella non è la classe sociologica di lavoratori e operai ma la classe anagrafica dei e delle giovani. Qui si aprirebbe il capitolo della questione generazionale, che per ragioni di spazio devo lasciare da parte – senza però rinunciare a segnalarne l’urgenza ormai non più rinviabile. A ogni modo, la caricatura di un Labour che, come ha scritto Cazzullo sul Corriere, «sogna il passato», non è nient’altro appunto che una caricatura.

Il fattore Brexit

Al secondo posto del sondaggio, col 17%, la posizione sulla Brexit. Di nuovo, il dato risulta in parte sorprendente, perché molta stampa ha creduto di rintracciare proprio nella linea ambigua sul tema Europa la ragione principale della sconfitta. In realtà, anche se a un certo punto mi ero illuso del contrario, queste elezioni sono state davvero, come Sky News ha titolato per tutta la campagna, «the Brexit election». Lo spettro del referendum di tre anni fa ha infestato l’inconscio del dibattito politico anche quando, a un certo punto, sembrava essere scivolato in secondo piano. Credere il contrario sarebbe stato, come poi si è rivelato, un’ingenuità. Lo sapeva Johnson, che infatti non ha mai smesso di ripetere come un mantra, e il più delle volte apparentemente fuori contesto, il suo (o del suo political strategist Dominic Cummings, figura altamente controversa e forse anche sopravvalutata) «Get Brexit Done!». Ma lo sapeva bene anche il Labour. Che sulla questione aveva a disposizione, mi sembra, solo tre opzioni.

La prima era schierarsi apertamente col Remain, alienandosi però il consenso dei non pochi Brexiters presenti nella base del partito. La seconda era invece rimanere fedeli al risultato del referendum del 2016, perdendo però i voti dei Remainers e rischiando comunque di risultare solo la pallida copia di chi, come i Tories, della Brexit aveva fatto la propria ragione sociale. La terza e ultima era, in sostanza, decidere di non decidere, senza schierarsi né con gli uni né con gli altri, proponendo un secondo referendum e cercando di spostare la discussione politica sui temi della giustizia sociale, dove il Labour era sicuro di giocare in casa.

Come ha spiegato McDonnell in un’intervista del 15 dicembre alla BBC, le ragioni che hanno portato a questa (non) scelta sono state dunque puramente tattiche. E benché non abbia evidentemente raggiunto il risultato sperato, non trovo argomenti solidi per convincermi che non fosse comunque la scelta migliore. In ogni caso, quel che è certo è che la prima alternativa non sarebbe stata meno fallimentare. Quando, soprattutto negli ambienti del progressismo liberale, si legge che Corbyn ha pagato l’ambiguità sulla Brexit, di solito il sottinteso è che avrebbe dovuto optare più decisamente per il Remain (anche se poi non sempre si spiega come avrebbe potuto giustificare la scelta di rovesciare quello che, ci piaccia o meno, è l’esito di una procedura democratica legittima). In realtà, è probabilmente vero l’esatto contrario: il Labour avrebbe forse avuto qualche possibilità in più di vittoria – o almeno di una sconfitta meno disastrosa – accettando senza tentennamenti il verdetto del referendum, come del resto aveva fatto in occasione delle elezioni del 2017, e con risultati notevolmente migliori. L’analisi dei flussi mostra abbastanza chiaramente che i laburisti hanno perso nelle loro constituencies tradizionali che nel 2016 si erano però espresse per il Leave. Il che pare confermato dal sondaggio di Opinium, che rileva come tra gli elettori laburisti passati ai conservatori la posizione sulla Brexit abbia inciso al 31% (contro una media, si diceva, del 17%).

Ciò però non significa – come sostengono, anche a sinistra, gli antieuropeisti – che una scelta di campo netta in favore del Leave avrebbe necessariamente portato più lontano. Il Labour ha perso un numero rilevante di Remainers scontenti della linea a loro avviso troppo timida del partito, e si può affermare con ragionevole certezza che questo numero sarebbe aumentato ulteriormente in caso di un’opzione decisa per l’uscita dalla UE. Da un lato o dall’altro, la coperta era corta. Inoltre, benché la Brexit abbia in effetti pesantemente condizionato il clima elettorale, determinandone il tono di fondo, non sembra però essere stato l’unico fattore a giocare un ruolo decisivo: le cose sono, al solito, più complicate.

La repubblica dei proprietari

Arriviamo così al terzo e ultimo punto: la persona di Jeremy Corbyn. Secondo Opinium, il 43% degli elettori non-laburisti non avrebbe votato Labour per colpa della sua leadership. Il dato può suonare implausibile, ed è stato subito usato dalla stampa di destra per additare in Corbyn il vero e unico responsabile della sconfitta. Tuttavia, è innegabile che per l’intera durata della campagna si è avvertito forte il senso di un’ostilità montante e sempre meno latente contro il segretario laburista. In quel dato c’è dunque qualcosa di vero – o meglio, di sintomatico. Tutto sta però nel modo in cui si sceglie di interpretare questo qualcosa.

La gran parte degli opinionisti, anche di quelli teoricamente più simpatetici, si è concentrata sui limiti personali di Corbyn: mancanza di carisma, indecisione, inettitudine al comando, donchisciottismo, ambiguità. A nessuno o quasi è venuto il dubbio che fosse in atto qualcosa di simile a un’operazione organizzata di svilimento e degradazione – la famosa «macchina del fango», che pure qui da noi conosciamo bene. Nessuno o quasi sembra aver pensato che, criticando Corbyn, non si stesse facendo altro che del victim blaming. Eppure, sappiamo che i Tories hanno speso più di un milione di sterline in pubblicità negative unicamente mirate a screditare l’immagine del leader laburista. Un audit della Loughborough University ha rilevato come l’ostilità mediatica nei confronti del Labour sia più che raddoppiata in queste elezioni rispetto a quelle precedenti. Si spiega così in parte come si sia arrivati ad accusare di antisemitismo e (persino) di simpatie terroristiche uno tra i politici più francamente antirazzisti e pacifisti oggi in circolazione. Entrambe le accuse, particolarmente infamanti, sono state già smontate pezzo a pezzo – nel primo caso, peraltro, anche dal liberalissimo The Economist – e non c’è dunque bisogno di soffermarvisi oltre.

Resta però che, mettendo insieme i punti, è difficile sfuggire alla sensazione di una strategia pianificata. Il che non vuol dire gridare al complotto. Penso più all’idea foucaultiana di una «strategia senza stratega»: una coordinazione di forze che avviene in virtù non di una regia intenzionale ma di dispositivi strutturali, impersonali, trans-individuali. Che cosa ha organizzato questa vera e propria reazione d’ordine contro il corbynismo? C’è innanzitutto, probabilmente, un elemento che attiene all’economia simbolica e immaginaria di una globalizzazione in crisi. Come ha scritto Duncan Thomas su Jacobin, «c’è qualcosa di assai profondamente radicato nella cultura inglese [e, pensando ai Trump o ai Modi del mondo, si potrebbe aggiungere: non solo] che respinge il pensiero di qualcuno così non-violento, così non-mascolino, così lontano dall’etica della violenza». Ma c’è poi anche un altro fattore che attiene all’economia più comunemente intesa, e che troppo spesso, come ha ricordato Francesca Coin, tendiamo a sottovalutare: l’odio (e gli interessi) di classe – della classe dei “ricchi”, però, e non di quella dei “poveri”. Insomma, il famoso 1%. Perché se è vero che i processi economico-politici degli ultimi trent’anni hanno pesantemente destrutturato il “basso” del campo sociale, ciò non è altrettanto vero per l’“alto” (mi si passi la semplificazione). Lì l’organizzazione e la coscienza di classe sembrano ancora funzionare bene sia in sé che per sé. Ci si poteva allora aspettare che i tabloid e le televisioni al soldo, letteralmente, di questo 1% stendessero tappeti rossi – o anche semplicemente si limitassero a fare da spettatori – a chi proponeva un programma di redistribuzione della ricchezza basato su patrimoniali e nazionalizzazioni? La «repubblica dei proprietari» ha reagito con la violenza e la determinazione che ha ritenuto adeguate al livello del pericolo. E benché il modello stimolo (mediatico)/risposta (pubblica) sia forse troppo meccanico per comprendere le dinamiche di costruzione del consenso, non c’è dubbio a mio avviso che il dato riportato da Opinium dia molto più la misura di questa reazione di sistema che dei difetti personali dell’uomo Corbyn.

L’ho premesso, ho scritto questa breve apologia come atto d’amore. È possibile perciò che abbia trascurato qualcosa, anche se non credo che l’esercito dei critici goda necessariamente di una lucidità maggiore. In ogni caso, ritengo sia molto più utile sottrarsi al gioco della colpevolizzazione e dell’errore. Come suggerivo, c’è da considerare almeno la possibilità di una situazione “greca”, in cui l’esito della battaglia era in realtà tragicamente segnato prima ancora del suo inizio, e in cui solo un’illusione prospettica ha portato a credere che le cose sarebbero potute andare diversamente. Tanto più allora bisogna essere grate e grati a chi, nonostante tutto, quella battaglia l’ha combattuta dalla parte giusta. Corbyn ha annunciato che non sarà più lui a guidare il partito nel prossimo futuro. Ecco, a me piacerebbe che la sua generosità (e quella dei tanti e tante militanti laburisti) fosse ricambiata a sinistra dalla promessa con cui Ken Loach e altri hanno salutato la sua uscita di scena: «you will never be forgotten». E dall’impegno che, da domani, si ricominci a organizzare il nostro campo. Per vincere, stavolta.

2 commenti a “Sorry we missed you. L’anti-carisma di Jeremy Corbyn”

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