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Domande impellenti

Dopo un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ancora non si scorge la fine della distruzione, delle morti e delle sofferenze, mentre, come non mai, incombe angosciante la minaccia del ricorso all’arma nucleare. La guerra non tocca più solo Paesi lontani di cui nessuno si è voluto occupare. Sorgono domande difficili, ma improcrastinabili. È giusto affidare la fine del conflitto alla vittoria militare sul campo da tentare a ogni costo, fino alle estreme conseguenze? Dopo un anno di insensata carneficina, non è arrivata l’ora di tentare altre strade per fermare l’aggressore? Si può davvero affidare la sicurezza, come si sta facendo, a un aumento senza fine della spesa in armamenti?

Ponti

Sono i terribili dilemmi, poco tollerati dalla tracotanza bellicista, che il gruppo “Donne insieme per la pace” si è posto sin dall’inizio del conflitto con una ferma convinzione: occorre premere per il cessate il fuoco e restituire alla diplomazia il compito di trovare una mediazione per la pace. Non a caso la forma di mobilitazione scelta è stata quella di occupare i ponti, a simboleggiare l’assoluta necessità di una politica che, dal basso e dall’alto, non rinunci al compito di congiungere sponde opposte, di avvicinare posizioni, anche quando appaiono inconciliabili come nel conflitto tra Russia e Ucraina. Una mobilitazione che vuole essere un tassello nel mosaico dell’impegno più vasto di cui sono protagonisti associazioni, parrocchie, personalità della cultura, cittadine e cittadini. Un impegno confluito nella grande manifestazione a Roma del novembre scorso promossa da “Europe for Peace”, e ora rivolto a realizzare il prossimo 25 febbraio una catena umana intorno alla Galleria degli Uffizi con l’obiettivo prioritario del cessate il fuoco.

Firenze, la Toscana

Firenze in tema di pace ha una storia importante e non dimenticata. Fin dagli anni ‘50 del secolo scorso è stata città operatrice di pace, di solidarietà tra i popoli, promotrice di dialogo tra culture e religioni diverse per merito prima di tutti della lungimiranza del sindaco La Pira. Si è avvalsa del contributo teorico e pratico di grandi personalità laiche e cattoliche (tra queste ultime come non pensare ancora a Padre Balducci, a Don Milani, alla Comunità dell’Isolotto?), che hanno lasciato un segno indelebile. Ha ospitato nel 2002 il Social Forum Europeo concluso con una grande manifestazione per la pace. È un lascito culturale e politico che ci ha messo in guardia dal pericolo insito nell’uso e nell’abuso della logica binaria del vincitore e del vinto, che porta inesorabilmente verso il mito della vittoria totale, del rischio senza limiti, persino quello di una terza guerra mondiale che nessuna potenza oggi è in grado di escludere e che condurrebbe a quella apocalisse che già nel 1955 il Manifesto Russell-Einstein paventava, ammonendoci: “Ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto”.

È dalla fine della guerra fredda che viene propinata l’illusione di armi sofisticate capaci di colpire chirurgicamente, in modo intelligente, soltanto obiettivi militari ben selezionati. Guerre scatenate per “prevenire” aggressioni, o per ragioni “umanitarie”, o per esportare la democrazia e i diritti umani. Ma così non è stato. Le guerre contemporanee si sono distinte per le stragi di civili e per i fallimenti sistematici degli scopi dichiarati: in Afghanistan i talebani sono tornati con i loro orrori; nel Medio Oriente non c’è pace dopo due guerre all’Iraq; in Libia non c’è stabilità dopo l’intervento occidentale di oltre dieci anni fa; in Yemen continua la catastrofe umanitaria perpetrata con le nostre armi; in Siria si combatte tutti contro tutti. Guerre di cui portano la responsabilità gli Stati Uniti, la NATO, l’Europa e i suoi governi. Riportare tutto a guerra di civiltà, di democrazie contro dittature, è una scorciatoia che elude le numerose contraddizioni che attraversano il mondo e che si agitano anche all’interno di ciascuno dei due campi in questo modo ideologicamente disegnati proprio per essere l’uno contro l’altro. È questa contrapposizione che impedisce di affrontare le ragioni del contendere, di prevenire i conflitti, di circoscrivere i motivi della discordia, di creare le condizioni per una migliore convivenza umana, per la cooperazione globale così dirimente in un’epoca in cui la stessa sopravvivenza del genere umano è resa precaria dalla pervicace distruzione dell’ambiente in cui viviamo.

Pacifismo politico

In questa tragica situazione è indispensabile una scelta politica concreta, sapendo che una vittoria della Russia significherebbe un’inaccettabile violazione della legalità internazionale, e che una sua sconfitta provocherebbe una situazione dalle conseguenze difficilmente immaginabili e di sicuro non controllabili, come spiega bene Mario Primicerio. Sulla necessità della soluzione politica attraverso il negoziato ha detto parole chiare anche Jürgen Habermas in un saggio pubblicato da Repubblica (19 febbraio), indicando un desiderabile compromesso: far sì che l’Ucraina non perda e la Russia non vinca. Una sottile e lungimirante linea di non equidistanza tra aggredito e aggressore senza allinearsi acriticamente all’illusione di una vittoria totale di una parte: o asservire l’Ucraina o far deflagrare la Russia. È l’ora di un immediato cessate-il-fuoco, garantito da un adeguato monitoraggio internazionale, che ponga fine alle atrocità dei combattimenti e apra un tavolo di trattativa per una conferenza internazionale di pace in cui convergano i belligeranti e tutte le grandi potenze mondiali, e dove l’Europa riconquisti una propria positiva autonomia. Naturalmente c’è da auspicare che il piano di pace, promesso dalla Cina per l’anniversario dell’invasione russa, contribuisca ad aprire spazi di negoziato. Intanto, all’antivigilia hanno parlato Putin e Biden con una sfida diretta tra Russia e NATO. Il primo ha annunciato la sospensione del trattato bilaterale sul disarmo “New Start”, che regola l’uso e la proliferazione delle armi nucleari. Il secondo ha rilanciato nuove sanzioni economiche e nuovo sostegno militare. Una rinnovata messa in scena della contrapposizione tra “due uomini, due discorsi, due sistemi tra loro inconciliabili”. Uno scenario di scontro Est-Ovest dove l’Europa dei popoli e delle culture non c’è più. Della debolezza dell’Europa ha parlato il cardinale Matteo Zuppi nella “Lectio Magistralis” all’Università di Roma. È incomprensibile come l’Europa possa consentire tutto questo. Quale miopia politica abbia indotto il Parlamento europeo a bocciare a larga maggioranza una risoluzione che sollecitava l’apertura di un negoziato. “Non è questa l’Europa che ha vinto il Nobel per il suo ‘mai più’”.

La perversa logica della guerra

Ogni tentativo di spezzare l’“eccitazione bellicista” che contamina le menti di molte e molti è prezioso. Temi e sentimenti impensabili solo pochi mesi fa oggi tengono banco nella discussione mediatica e politica: la mistica dei confini, dei pezzi di terra da difendere come valore non negoziabile e superiore alla protezione della vita e alla convivenza; il cinico sfoglio del catalogo di armi letali; il dibattito che, in Europa e in Italia (con Ignazio La Russa), rivaluta la leva obbligatoria per eserciti sguarniti a fronte delle nuove necessità di arruolamento; l’escalation nella fornitura delle armi: dopo i carri, i cannoni, poi i jet e poi anche i soldati? Dove è il punto invalicabile? C’è il rischio di una drammatica regressione culturale, di un salto di memoria se lasciamo che si enfatizzino la guerra come via maestra per la risoluzione delle controversie internazionali, la pulsione a umiliare il nemico, la rivalsa patriottica, la resa senza condizioni. Come se avessimo reso pacifica la guerra. Si dimentica la lezione delle guerre mondiali del secolo scorso in Europa (30 milioni di morti la prima e quasi 70 milioni la seconda) che ci ha mostrato in quale abisso conducano i nazionalismi e la loro ossessione ad istigare i popoli l’uno contro l’altro. Al precipizio a cui siamo giunti per le aberrazioni imperiali di Putin non è estraneo il modo in cui l’Occidente ha affrontato la fine della guerra fredda e il crollo dell’Urss. La voglia degli USA di estendere il loro controllo è stata incontenibile, molto più forte della volontà di preservare la pace: la NATO si è ampliata includendo altri 14 paesi di cui 10 dell’ex Patto di Varsavia, malgrado l’accordo del 1991 di Bush con Gorbačëv escludesse ogni sua espansione. Una promessa di pace tragicamente disattesa.

La vergogna del riarmo

La guerra che si sta consumando in Ucraina ha aumentato esponenzialmente la spesa per armamenti in tutto il mondo. Cieca follia. Nel 2021 la spesa militare mondiale aveva già raggiunto il record storico di 2.113 miliardi. Numeri spaventosi. In Italia nel 2022 si è superato il muro dei 25 miliardi (Osservatorio Mil€x, stima dei costi), con un aumento del 3,4% rispetto al 2021 e un balzo di quasi il 20% in 3 anni.

È una corsa globale irrefrenabile, ascoltando il segretario di Stato USA accusare Pechino di rifornire direttamente Mosca di nuovi armamenti e Josep Borrell chiedere all’Europa un cambio di tono e di passo per rilanciare l’industria militare e produrre munizioni. Al mondo non ci sono poche armi: ce ne sono troppe e servono solo ad aumentare i profitti di pochi, a dilapidare risorse pubbliche e a devastare l’umanità ed il nostro pianeta. Le armi non preparano la pace. Possono avere avuto, come le bombe nucleari, un ruolo di deterrenza, ma nel momento in cui vengono usate servono solo a produrre distruzione e massacri. Pensare di aiutare l’Ucraina consegnando sempre più armi con la possibilità tutt’altro che remota di coinvolgere quanto meno l’Europa in una guerra nucleare è davvero sconvolgente. Quale amnesia collettiva porta ad abbracciare nel terzo millennio il mito della guerra giusta e a dismettere la diplomazia, la ricerca della mediazione politica? Senza neppure interrogarsi su quanto potrebbe cambiare il mondo se le risorse che le guerre impegnano e distruggono fossero investite in politiche di pace e di sicurezza comune e condivisa.

La forza della nonviolenza

Colpisce come nella narrazione dominante siano state rimosse le esperienze storiche di successo alternative alla guerra. Il lavoro di movimenti politici, diplomazie e Stati che hanno saputo costruire strategie di pace. Grandi figure della nonviolenza politica hanno guidato i loro popoli verso la liberazione, primi fra tutti Mandela e Tutu in Sudafrica e Gandhi in India. Ma accanto ai movimenti che hanno pienamente conseguito il successo, ve ne sono stati un’infinità di altri che in ogni caso hanno modificato il corso della storia nei loro Paesi e nel mondo come il forte movimento per i diritti dei neri di Martin Luther King, la lotta non violenta nel Tibet con il Dalai Lama. Molti leader in prima fila per la pace hanno influenzato la formazione di generazioni. Per la mia personale esperienza ricordo, primo fra tanti, Pietro Ingrao. Processi storici, battaglie ideali che hanno “risparmiato il sangue”, come ha scritto efficacemente Anna Bravo. Hanno tenuto insieme l’anelito alla giustizia, alla pace e alla protezione della vita, in un connubio felice che ha al centro, sempre e comunque, l’umanità. È questa politica che tragicamente oggi manca, che si è piegata, ha reclinato il capo sottomettendosi al primato delle armi. È un fatto che la maggioranza del popolo italiano sia per la fine delle ostilità, ed è altrettanto un fatto che essa non abbia oggi una adeguata rappresentanza in Parlamento, e molto meno lo è nei media uniformati al verbo dell’atlantismo senza autonomia. Nel Parlamento tutti i partiti sono schierati, con l’eccezione di 5 Stelle, Verdi-Sinistra e un esiguo drappello di parlamentari del PD, un partito che, anche in questa fase costituente, non si interroga attorno agli effetti dirompenti che questa guerra avrà sul futuro del mondo. E che rinuncia a sollecitare una autonoma proposta politica dell’Europa, volta a favorire almeno il raggiungimento di una tregua ed evitare che i due eserciti, nel prossimo futuro, restino prigionieri nel “lento macello delle trincee”. Un orrore infinito, come ci ricorda proprio in questi giorni il film tedesco “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

La differenza politica

Il mondo è in bilico fra volontà di pace e guerra oltranza. Si tratta di un vertiginoso tuffo nel passato più tetro a cui, come gruppo di donne, abbiamo voluto reagire attingendo all’elaborazione del femminismo della differenza. È impensabile voler essere “alla pari degli uomini e come gli uomini” in un contesto segnato da così tanta violenza bellicista. Far leva sulla differenza radicata nella vita delle donne e farla agire politicamente aiuta a prospettare una soluzione oggi e a tenere aperta la necessità di un cambiamento di civiltà: rendere la guerra un tabù, cacciarla dalla storia. Conosciamo dal passato e vediamo anche in ciò che accade oggi le responsabilità e le ambivalenze di alcune donne nei conflitti: da quelle che, armi in braccio, partecipano ad azioni di resistenza o di liberazione; alle professioniste che maneggiano micidiali armi tecnologiche, le stesse che hanno molto facilitato la presenza femminile nei moderni eserciti. Queste parzialità non cambiano il dato incontrovertibile portato alla luce dal femminismo e dal movimento della non violenza: l’origine patriarcale dello schema bellicista, il legame tra la guerra e il retaggio di una concezione virile della forza. Nella storia dell’umanità, gli artefici delle guerre, degli stermini, degli stupri, sono sempre stati i maschi.

Una realtà perpetuata dal riconoscimento sociale dell’attività militare e della sua onorabilità con il corollario della condanna senza appello della diserzione come viltà. Insomma, il mestiere della pace è stato svalutato e quello della guerra invece riconosciuto e accettato. Già nel 1940 Virginia Wolf si è cimentata su questa problematica in “Pensieri di pace durante un’ incursione aerea”, ove anticipava il tema, ancora tutto aperto, di come costruire una forma mentis dei giovani alternativa a quella dominante: “Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi […] aprire l’accesso ai sentimenti creativi”. Malgrado qualcosa si sia mosso nel pensiero e nel dibattito degli uomini, ancora non si sono trovate nuove compensazioni all’insana passione per la guerra. Essa continua a far parte in modo fondamentale della questione maschile, ovvero “dell’insieme di problemi che il sesso maschile causa alle donne, alle creature, alla natura, alla convivenza civile, agli uomini stessi”.

Il movimento delle donne è stato storicamente protagonista nelle mobilitazioni contro la guerra, come hanno ampiamente documentato le studiose femministe, fra le quali voglio ricordare in particolare Franca Pieroni Bortolotti.

Il loro impegno ha sempre testimoniato una profonda aspirazione alla pace che attiene al loro potere di decisione sulla riproduzione della vita: un esercizio di libertà e responsabilità verso l’altro di suprema grandezza. Un modo di sentire e di essere che, più della mistica della “natura materna”, chiama in causa l’esperienza intima e sociale incentrata sul significato politico della “cura del vivere”, intesa come un altro modo di stare nel mondo e di vivere i rapporti: accudimento dei corpi e delle menti, interdipendenza delle relazioni, coscienza dei limiti nell’uso delle risorse, libertà di essere se stesse. Un rovesciamento del mondo competitivo, mercificato, ingiusto e alla fine bellicoso. Un’altra prospettiva da quella che connette “l’esser madre” all’“esser italiana, cristiana e patriota” da cui non possono che discendere frantumazione identitaria, inimicizia, risentimento sociale.

Le immagini di un anno fa degli addii alle frontiere dell’Ucraina hanno fatto vedere in tutta la loro crudezza due piani rovinosamente divaricanti: quello di chi si cura del vivere e deve fuggire dalla devastazione, e quello di chi, per scelta o per costrizione, è inchiodato all’ordine bellico e ai suoi imperativi distruttivi. È la guerra! Sì, ma non è inevitabile, dipende sempre e comunque da un atto di volontà. Di questo erano ben consapevoli i nostri padri e madri costituenti quando ne imposero il ripudio, parola che non ha bisogno di essere interpretata. E proprio e non a caso tutte le ventuno madri costituenti, al momento della votazione per l’art. 11 scesero nell’emiciclo stringendosi la mano, tra gli applausi degli uomini. Noi non dimentichiamo.

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3 commenti a “Stanche di guerra”

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