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Stato

Un saggio di Mario Tronti uscito sul numero 1-2/2011 di Democrazia e Diritto
Pubblicato il 23 Marzo 2012
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Il discorso sullo Stato, segue al discorso sul partito. La fase, cioè l’oggi, li stringe in un abbraccio: che si vorrebbe mortale e che bisognerebbe rendere vitale. Del resto, questo è un tempo in cui tra ciò che si vuole e ciò che si deve, vale la regola dell’incomunicabilità. Tra Stato politico e partito politico, in mezzo troviamo la crisi strutturale della politica moderna. Questo è il Grund, oscuro, del problema. Oscuro, perché non pensato, semplicemente dato, accettato, subìto. Crisi dei fondamenti, non della politica in generale, come se ne parla genericamente, appunto oggi, ma della politica secondo quanto il Moderno ne aveva offerto di teoria e di pratica, di pensiero e di esperienza. Politica che fa società, intervento soggettivo che tiene insieme un’oggettività, che da sola non sta insieme, quella complexio oppositorum degli individui liberi, che la modernità ha gettato sul campo di guerra della storia umana.

Nel Moderno, la politica viene prima dello Stato, Machiavelli prima di Hobbes. La politica fonda lo Stato, come strumento di ordinamento della libera associazione degli individui, a quel punto anche attraverso il diritto. Stato non è polis, non è Impero, nemmeno è potere secolare distinto da potere ecclesiale, non è più quello il problema. Stato è solo Stato moderno. Questo è un punto da tenere fermo. L’invenzione moderna dello Stato va vista, e va messa, dentro l’età modana delle scoperte, geografiche e scientifiche, spaziali e culturali. E dentro la storia moderna del soggetto, o dentro la storia del soggetto moderno. È il grande individuo, il macroantropos, una singolarità inedita, sovraindividuale, artificio giuridico mondano e al tempo stesso Deus mortalis, a cui il singolo vero può affidare la sicurezza, altrimenti sempre in pericolo, della propria vita e dei propri beni. Una nascita graduale, in crescita esponenziale, man mano che si amplia lo spazio della sovranità, locale e sociale, dal territorio alla nazione, dai ceti alle classi, dal Principe al Leviatano e, attraverso le rivoluzioni, dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale, dallo Stato liberale allo Stato democratico. C’è una storia moderna dello Stato, che va posseduta intellettualmente. E non per farne la voce di un Dizionario del pensiero politico, o di un Lessico della politica, ma per individuare e praticare il terreno determinante del conflitto tra idee diverse e opposte di società.

Fenomeno storico, lo Stato, limitato nel tempo, che ha avuto una nascita e può avere una morte. Se è solo Stato moderno, la fine dell’epoca moderna segna la fine dell’epoca statuale della politica. C’è una sola via per combattere efficacemente, con l’intento di sconfiggerla, quell’apologia del presente che sono le ideologia del postmoderno. Ed è l’assunzione in proprio dell’orizzonte di crisi della modernità, come un processo lungo, lento, in atto e in transito, come deriva, come decadenza, come dissoluzione. La fine dell’epoca moderna bisogna prenderla da come ne ragionava Romano Guardini, come la fine della storia da come la pensava Alexandre Kojéve: saltando, con un balzo di tigre, la chiacchiera attuale. Il Novecento è la grande scena della tragedia, dove si consuma una vicenda che dalla pace di Westfalia arriva al muro di Berlino, non però al suo crollo ma alla sua fortificazione. Il 1989, e ben più significativamente, il 1991, segna l’inizio dello smottamento, non il terremoto, piuttosto l’impercettibile frana che sta dissolvendo dall’interno il progetto del Moderno, portandolo, davanti ai nostri occhi smarriti, al fallimento. Lo Stato, il discorso sullo Stato, o lo mettiamo dentro questo passaggio, o lo perdiamo alla vista del pensiero critico. Del partito possiamo discorrere nella contingenza, per lo Stato dobbiamo chiamare in causa la storia. Il movimento operaio ha pagato un prezzo altissimo, che ha deciso infine sul destino della sua sopravvivenza, per il fatto di non aver risolto la confusione, formale e materiale, e dunque teorico-pratica, tra partito e Stato. Il socialismo, non è vero che ha peccato per troppo Stato, direi invece per troppo poco. La classe operaia al potere, conquistato giustamente il potere attraverso il partito, avrebbe dovuto gradualmente abbandonare la forma partito per farsi forma Stato. In questo, ripercorrendo tutta intera la vicenda dello Stato moderno, dalla monarchi assoluta allo Stato sociale di diritto. La costruzione del socialismo, tanto più in un Paese solo, soltanto lo Stato poteva salvarla: l’autonomia politica dello Stato, politica e giuridica. Lo Stato ha salvato il capitalismo dalla grande crisi, degli anni Venti-Trenta. Lo Stato poteva salvare il socialismo dalla grande crisi, degli anni Settanta-Ottanta. È il motivo per cui nel primo caso non si è dato crollo e nel secondo il crollo si è dato. Mancava l’autonomia. Autonomia dagli stessi bisogni di violento rovesciamento del segno del potere e nella tecnica di gestione di questo. Autonomia quindi dagli stessi meccanismi di violento sovvertimento di un modo di produzione e di scambio, per rapporti sociali alternativi. Da Stato e rivoluzione di Lenin bisogna prendere la teoria della rivoluzione e buttare la teoria dello Stato. Da “tutto il potere ai soviet” si arriva fatalmente alla dittatura commissaria del partito. Dalla cuoca di Marx al terrore della nomenclatura. Perché quanto non è realizzabile si rovescia nella necessità del possibile. Era il partito che doveva alla lunga estinguersi, non lo Stato. È vero che a quella esperienza non è stata concessa la lunga durata. Mai dimenticare poi quanto pesa l’epoca in un tentativo che vuole essere epocale. E quella era l’età delle guerre civili europee e mondiali. Resta la lezione: ancora da imparare.

Non è dalla Comune che si deve guardare allo Stato: ma dall’interno della sua storia secolare, dalla sapienza politica delle sue successive trasformazioni. Il Novecento ne ha prodotte di straordinarie, teoriche e pratiche. E sempre nella vicenda occidentale della statualità moderna Resta da capire se la statualità novecentesca sia stata una vicenda della fine, se nel caso si tratti di una fine provvisoria, dell’oscurarsi di una stella, per eclissi provocata dal passaggio di un altro pianeta. A un certo punto al capitale è sembrato che non avesse più bisogno dello Stato. Direi di più: che questa forma tutta politica del dominio fosse di intralcio ai propri liberi movimenti. E che il dominio potesse ormai direttamente venire incorporato nei meccanismi economici, o economico-finanziari, della produzione e della circolazione. Progetto in parte riuscito, dopo la svolta di sistema, che ha archiviato i trent’anni gloriosi, e ha inaugurato il trentennio del cosiddetto neoliberismo. Questo ritorno restaurativo di Ottocento, reagiva con quel piglio dell’innovazione, che ha incantato i modernizzatori della sinistra, alla pretesa novecentesca dello Stato di farsi sociale, e alla politica di occuparsi della società, e ai partito popolari di portare le masse nello Stato. Tutto si tiene. E il punto che decide è da dove partono i bisogni d’epoca.

Partono da chi comanda. Poi si può reagire, anche con successo, si può controbattere e tenere provvisoriamente o a lungo in scacco l’iniziativa vincente. Lo hanno fatto gli operai con le lotte nei punti alti dello sviluppo, i contadini in altre parti di mondo in condizioni di arretratezza, lo hanno fatto gli Stati socialisti dividendo giustamente il campo mondiale in sfere di influenza. Mai illudersi che improvvise spontanee insorgenze dal basso possano minimamente, e stabilmente, impensierire i proprietari effettivi del potere. Anzi, in queste insorgenze va volta a volta riconosciuto quel bisogno specifico di sistema, entro cui stanno, nascono e crescono. Solo conosciuto questo, si possono politicamente utilizzare, in una qualche funzione alternativa. Il passo indietro verso il liberismo si è coniugato con i due passi avanti della globalizzazione. Qui si è verificato un accumulo di quantità che ha prodotto un salto di qualità, per usare polemicamente e consapevolmente categorie obsolete. Il capitalismo mondo era iscritto fin dal principio nel rapporto di produzione, scambio e consumo, che ha occupato militarmente tutta intera la modernità. Il Novecento, con tre grandi guerre civili mondiali, ha imposto, o ha permesso, questo salto. Il grado attuale di sovranazionalità del rapporto di capitale non ha precedenti nella storia. L’età del colonialismo, e la connessa fase imperialistica e di capitale finanziario dei tempi di Hilferding e di Lenin, impallidisce di fronte alle dimensioni contemporanee del fenomeno. L’esercito di riserva, ormai anch’esso mondiale, del lavoro sta lì, a volte in prima fila a volte nelle retrovie, a seconda di come fa comodo, a combattere una guerra non sua.

La forma Stato viene aggredita qui dall’esterno, da macroprocessi, che ne riducono il peso, la funzione, la consistenza, e ne destrutturato la forza. Vale ancora la classica definizione weberiana dello Stato come “mo

nopolio dell’uso legittimo della forza fisica nell’ambito di un determinato territorio”? Dov’è più la sovranità, da Bodin in poi intesa come facoltà esclusiva di “fare leggi”? Quali e quante le leggi di movimento della società rimaste in mani esclusivamente statuali? E l’hobbesiano Stato-macchina, persona giuridica regolato dalle leggi, è questo oggi il Leviatano, o non piuttosto questa oggettività sistemica di leggi economiche extragiuridiche, che esercitano potere senza legittimità, sovranità senza popolo? Chi e quando squarcerà il velo della finzione democratica, di cittadini che eleggono forme di governo senza forma Stato? L’incipit della Costituzione della Germania, con il grido di Hegel: “La Germania non è più uno Stato”, a descrivere “una condizione di dissoluzione statale”, andrebbe esteso oggi a tutti i Paesi membri delle comunità economiche sovranazionali, incardinati nelle istituzioni finanziarie mondiali. La cessione di potere dall’autonomia del politico alla sovranità dell’economico si esprime in questo paradosso, che butto lì come la scintilla che una volta doveva incendiare la prateria: c’è solo più Stato dove c’è ancora partito e dove la classica obbligazione politica garantisce, essa, il libero movimento delle leggi economiche. È stato un capolavoro della soggettività politica moderna l’atto della congiunzione tra lo Stato e la Nazione. Di lì, grande storia. Ambigua, doppia, tragica e gloriosa. Movimenti di popoli, in lotta di liberazione da antichi servaggi, ma anche di eserciti l’un contro l’altro armati, in guerre micidiali. In nome della nazione, per il proprio Stato, si sono commessi crimini, contro i propri stessi popoli, ma anche provocando così risorgimenti e resistenze. Lo Stato-nazione è realtà politica, che dall’alba dell’età moderna arriva ai nostri giorni. È in corso una transizione, confusa, dove si parla di superamento e si opera per il mantenimento. È storia di Occidente, e di Europa, una storia essa stessa in estinzione. Dentro questo passaggio, stiamo, con un carico di pensiero coltivato e un minimo, ma proprio un minimo, di azione permessa. Il nesso tra Stato e nazione si va divaricando.

La nazione sembra in migliore condizione di salute politica rispetto allo Stato. Anche se il concetto si restringe e, come tutto oggi, si involgarisce, da spazio si fa territorio, da storia si fa tradizione, da popolo si fa etnia, e perfino a volte religione. Chi favorisce questa divaricazione sono, di nuovo, produzione e mercato, che non temono e superano d’un balzo i confini geografici, temono e rimangono impigliati nelle sovranità politiche. Insomma, l’esperienza – se vogliamo chiamare così, con una parola banale, le repliche della storia – ci ha insegnato che lo Stato si cambia, non si abbatte. A volerlo abbattere sono oggi gli interessi diretti di capitale, che portano avanti questo proposito in due modi: o utilizzandolo o subordinandolo, come cassa di depositi e prestiti e in più concessore di ammortizzatori sociali, oppure come guardiano notturno e apparato di repressione. I lavoratori hanno ben conosciuto la faccia brutale dello Stato al servizio dei loro padroni. Ma quando sono stati liberi e forti hanno provato essi stessi a introdursi nello Stato, per garantire la propria libertà e ingigantire la propria forza. Anche questa è storia del maledetto Novecento. È vero, c’è il mito dello Stato. Ma esso, prima di diventare un mito reazionario, è stato un mito rivoluzionario. Su quel terreno infatti si giocava la questione del potere. Questa questione sembra non essere più in gioco. Anche potere viene ormai declinato al plurale: poteri forti, poteri occulti e soprattutto poteri micro, una sorta di politeismo dei poteri, come un dio che sta dappertutto e quindi da nessuna parte. Una condizione felice per l’orizzonte di capitale, che non ha più da misurarsi con un potere politico, forte e autorevole, concentrato e autonomo. È quanto consegue all’emarginazione avvenuta della forma Stato. Decisivi sono stati sicuramente i processi di spoliticizzazione degli individui e di neutralizzazione dei conflitti. Ma non sono mancati trasversali contributi soggettivi.

Nel 1970, usciva da Feltrinelli, del tutto riscritto, il testo dell’Enciclopedia Fischer, del 1957, Staat und Politik. Il testo italiano diceva Scienze politiche 1, con sottotitolo: (Stato e politica). Tra i lemmi previsti non compare la voce Stato. La giustificazione viene data dal curatore dell’opera, Antonio Negri. L’assenza c’era già nell’edizione tedesca, ma per la ragione, accademica, di un’indefinibilità e ambiguità del concetto, che si può per varie vie approssimare e mai raggiungere, rimanendo alla fine “sempre oscuro data la sua natura ontologica inafferrabile”. La ragione per cui la voce manca in questa edizione è invece che “Stato viene qui considerato una realtà che l’uomo nuovo, prodotto dallo sviluppo capitalistico […] sente come un’impostura da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa realtà di dominio”. Nello stesso decennio dei Settanta usciranno presso Il Mulino, a cura di Rotelli e Schiera volumi antologici dal titolo Lo Stato moderno, a dimostrare che ci si può fare un’idea del fenomeno Stato solo sul piano storico. La sola considerazione giuridica, come la sola politologica, non sono in grado di centrare il concetto, rischiano anzi di portarlo fuori strada.

La determinatezza moderna della forma Stato, per essere pienamente compresa, va misurata sul terreno costituzionale e sul terreno sociale. È quella prospettiva, appunto, di storia costituzionale e sociale, che ha visto in campo nomi di studiosi come Otto Brunner, Otto Hintze, von Gierke e altri. Una bella disputa, che andrebbe oggi ripresa e aggiornata. Qui da noi, lo Stato nato e cresciuto nel contesto storico del “sistema europeo degli Stati”, si è perduto nel sentiero interrotto di una sovranazionalità, che non riesce a farsi sovrastatualità. Al posto di “la Germania non è più uno Stato”, bisognerebbe dire oggi “l’Europa non è ancora uno Stato”. Di più: nemmeno, questa idea di Europa, ma, direi piuttosto, questa pratica di Europa, che si estende nello stesso modo in cui si deprime, essa stessa spoliticizzata e neutralizzata, rischia di essere una forma di anti-Stato e comunque una causa di crisi del sistema europeo degli Stati. Se esistesse una sinistra europea farebbe di questo problema il suo stesso problema, trovando forse una ragione per esistere, nel solco storico della sua tradizione politica internazionalista. Nel frattempo, Paese per Paese, andrebbe consigliata una decisa presa di distanza dalle tentazioni, vogliamo dire dalle pulsioni, di una “politica oltre lo Stato”. Una politica oltre lo Stato vuol dire oggi nient’altro che un’antipolitica. Come lo è di fatto la politica oltre il partito. Ce n’è fin troppo in giro, per suscitarla anche da questo lato. Se è vero che, nel Moderno, la politica ha fondato lo Stato, in questo crepuscolo del Moderno, è a partire dal nuovo Stato che diventa possibile rifondare la politica. Der neue Staat – diceva Rathenau –, come fondamento di una neue Wirtschaft. Magari è ancora questo il passaggio da fare. Invece che chiedere beni comuni per un capitalismo democratico.

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