Lavoro, Politica, Temi, Interventi

Leggevo un paio di settimane fa su In These Times un articolo intitolato The Wave of Organizers running for Office, dove si notava la sempre maggiore presenza tra i candidati a elezioni politiche o amministrative di militanti provenienti dal sindacato e come ormai capiti spesso di vederli prevalere sugli avversari. Il caso attuale più clamoroso è quello del sindaco di Chicago, Brandon Johnson, ex sindacalista degli insegnanti. Pensando poi a tutto quello che è successo durante la Hot Labour Summer e poi allo sciopero della UAW contro i 3 Big dell’auto, sembra di poter dire che gli organizer statunitensi sono gente che va sui marciapiedi delle fabbriche, sugli autobus che trasportano i lavoratori sul luogo di lavoro, che va ai picchetti, che usa il megafono. La loro popolarità se la sono costruita sul campo, più che nei negoziati. Cortei a livello cittadino o di stato non se ne vedono. Se la lotta c’è, è quasi sempre aziendale, il contatto tra l’organizer e il lavoratore è sempre diretto, un contatto fisico malgrado l’uso smodato dell’online. Certo, continua a esserci una burocrazia sindacale distante dai lavoratori che fa solo danni – mi viene in mente Amazon in Alabama dove il sindacato si presentava a raccogliere deleghe e poi spariva. Però l’atmosfera generale sembra quella della mobilitazione autentica, con figure di leader spontanei che escono dalla forza lavoro, non da scuole sindacali.

Ben venga la grande solidarietà con cui è stata accolta la manifestazione del 7 ottobre, però se non riprende un lavoro capillare di militanti sindacali che vanno davanti ai luoghi di lavoro, là dove c’è ancora concentrazione di forza lavoro, non cambia niente rispetto alla morta gora di questi anni e tre giorni dopo la manifestazione è già dimenticata.

Varrebbe la pena leggere le analisi di Paolo Feltrin sull’ottima salute del sindacato oggi, perché ha un numero di funzionari superiore a quelli che aveva negli anni caldi, mentre tutti lo davano per spacciato nell’era del postfordismo. Ma la grande maggioranza dei dipendenti si occupa di erogare servizi (dichiarazioni dei redditi, contratti d’affitto, pratiche per la pensione, permessi di soggiorno), è gente da sportello non organizer. Servizi utilissimi, beninteso, ma il sindacato conflittuale dove sta? Quello che prende l’iniziativa, che non aspetta che la fabbrica sia chiusa per protestare, quello che forma i delegati all’indagine delle condizioni di fabbrica, a conoscere il contratto, a metter giù una lista di rivendicazioni, a prepararsi a negoziarle. Si dice che la massa operaia è talmente passiva che a parlarle è come parlare al muro. Eh, grazie, dopo decenni di compatibilità e di organizer che se ne stanno in ufficio, credo bene. Ma se siamo un paese dove i salari sono calati negli ultimi dieci anni, se siamo un paese di working poor, di precariato dilagante e di lavoro nero, lo dobbiamo anche a questo, a un sindacato che è un sindacato di servizi di patronato più che un sindacato negoziale/conflittuale. E, se le cose stanno così, si capisce anche perché tra gli operai CGIL della Camera del Lavoro di Milano – sottolineo “operai” non iscritti, come possono essere i pensionati o altre categorie – il partito più votato sia Fratelli d’Italia. Ma poi non è vero che i lavoratori italiani sono così passivi, non si spiegherebbero certi successi dei Cobas.

Dopo il 7 ottobre bisogna riprendere il lavoro, oscuro, ingrato, dell’organizer e non misurare la forza del sindacato sulla rassegna stampa o sulle comparsate televisive.

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Un commento a “Sulla Via Maestra. Dopo il 7 ottobre”

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