Interventi

Foto di Deniz Turgut da Pixabay

Il protrarsi nel tempo della pandemia ha avuto come conseguenza una ulteriore accelerazione nella diffusione e nell’uso di tecnologie digitali. Si è prodotto uno straordinario “switch off” digitale, ovvero l’impossibilità di proseguire in molti aspetti della nostra vita con modalità che non prevedano il ricorso esclusivo ai dispositivi digitali.

Straordinario non solo per la sua rapidità, che ha costretto ognuna/o di noi a un salto repentino nella propria capacità di uso degli strumenti digitali, pena l’essere esclusi, ad esempio, dal mantenere le proprie relazioni sociali e affettive. Ma anche per la sua pervasività, perché lo switch off ha riguardato anche l’acquisto e il consumo di beni e servizi, l’attività educativa della scuola, le attività culturali e politiche, le pratiche religiose.

Tanti, non solo i produttori di servizi digitali, hanno esplicitamente salutato questo eccezionale salto di quantità e di intensità nell’uso del digitale come un effetto collaterale positivo che ci avrebbe permesso, pur dopo le privazioni e le sofferenze della pandemia, di godere di una condizione di vita migliore. E il “niente sarà come prima” si è trasformato nell’immaginazione di una vita in cui lavoro, relazioni, studio, consumo, fossero tutti fortemente pervasi dall’uso degli strumenti digitali, e tutti in ragione di questo diventassero migliori di quelli di prima e colorati “di verde e di blu”.

In realtà anche per la trasformazione digitale è avvenuto ciò che è avvenuto in altri aspetti della vita: la pandemia ha messo in evidenza e accentuato tutte le emergenze e le criticità che già erano presenti nel mondo di prima.

La straordinaria utilità di molte applicazioni delle tecnologie digitali per mitigare le condizioni obbligate di isolamento ha infatti nello stesso tempo svelato, con la forza dell’esperienza diretta di miliardi di persone in tutto il mondo, quale è il modello di organizzazione della società che consente di trarre il massimo vantaggio da quei dispositivi digitali che già da prima della pandemia stavano colonizzando il mondo.

Un società di individui, isolati, che producono da lontano, che acquistano e vendono da lontano, che insegnano e imparano da lontano, che da lontano fanno politica e intessono relazioni sociali, individui che in quasi ogni dimensione della loro vita sono intermediati da dispositivi e piattaforme digitali.

È questo il modello di società del capitalismo digitale.

È a questo che la pandemia ci sta addestrando consentendo il più gigantesco “switch off” che mai avrebbe potuto immaginare anche il più entusiasta apologeta della rivoluzione digitale.

Questa è la nervatura su cui poggia l’ennesima trasformazione del capitalismo, pronta a sfruttare la grande occasione, che oggi dispiega tutta la sua potenza, ma che era stata sperimentata e avviata già nel primo decennio del nuovo secolo. I grandi monopoli del digitale occupavano già nel 2019 i primi posti nella classifica della ricchezza, ed hanno ora aumentato ancora, e di molto, il loro primato.

Un salto di quantità talmente intenso ed esteso che diventa proprio per questo un salto di qualità, modificando stili di vita, scansione del tempo, uso del corpo e del pensiero, in una trasformazione in cui ognuna e ognuno è chiamato ad un proprio individuale bilancio tra opportunità guadagnate e perdite irrecuperabili, e in cui lo stesso riconoscere e dare valore alle poste di bilancio appare non solo difficile ma anche mutevole.

Ecco allora, solo per fare un esempio, che l’apparente maggiore autonomia del lavoro a distanza si trasforma ben presto in una evidente intensificazione dello sforzo lavorativo, nella saturazione di ogni tempo di vita, in una più occhiuta pervasività del controllo sulle prestazioni e sui comportamenti.

Una esperienza diretta così diffusa ha fatto uscire la riflessione critica dalla cerchia ristretta degli addetti ai lavori, degli studiosi e dei militanti politici (pochi) che già da tempo stavano sviluppando una cultura e una pratica critica del capitalismo digitale. Persino le organizzazioni politiche della sinistra, dalle più grandi alle più piccole, sembrano aver scoperto che la dimensione politica della trasformazione digitale non consiste nel chiedere più internet e tablet per tutti.

Che ogni sistema digitale, dall’algoritmo più complesso all’app più semplice, implica e produce una organizzazione sociale e una distribuzione dei poteri. E che quindi la trasformazione digitale è una questione politica in ognuno degli ambiti in cui si realizza, dall’informazione alla sanità, dalla politica alla cultura, dalla scuola all’organizzazione dello Stato.

Che l’esercizio dell’azione politica per intervenire sulla trasformazione digitale richiede l’organizzazione di nuove forme del conflitto.

Che l’accesso, la conoscibilità, la proprietà dei dati digitali è una questione politica che può cambiare i rapporti di forza.

E, soprattutto, che nel momento in cui ci si confronta con la trasformazione digitale come questione politica, non ci si può non rendere conto della enorme sproporzione delle forze in campo.

Da una parte i grandi monopoli digitali multinazionali, dall’altra Stati nazionali che producono norme anche apprezzabili nelle intenzioni (come avviene in Europa), ma con enormi difficoltà a renderle effettivamente applicabili.

Da una parte la potente retorica del conflitto tra vecchio e nuovo, tra conservazione e innovazione, tra antico e moderno, che viene usata come strumento contundente contro ogni tentativo di contrastare gli effetti negativi del proliferare dei dispositivi digitali, dall’altra i primi tentativi di organizzazione del conflitto da parte dei soggetti sottomessi all’intermediazione delle grandi piattaforme (lavoratori a domanda, lavoratori da remoto, micro-lavoratori, piccoli produttori, piccoli commercianti, artisti), che però non riescono a trovare connessioni e a farsi senso comune.

Ne deriva per la politica una postura spaventata e irresoluta, che si affida, ad esempio, a nobili quanto inutili liste di prescrizioni etiche per i sistemi di intelligenza artificiale, senza accorgersi delle discriminazioni prodotte da decisioni basate su sistemi digitali molto più rozzi, ma già oggi utilizzati nei servizi pubblici. O che si limita a reclamare la tassazione degli enormi profitti dei monopolisti digitali, senza nemmeno sfiorare i meccanismi di estrazione di valore che quei profitti hanno generato.

Come fare allora a dare forza e prospettiva alla critica della trasformazione digitale, di cui proprio il grande switch off ha reso così evidenti, nello stesso tempo, benefici e danni? Come consentire all’azione politica più consapevole di uscire dalla debolezza che la imbriglia?

Non pensiamo certo di saper rispondere compiutamente. Ma pensiamo che questo interrogativo politico meriti molto più impegno, di pensiero, di ricerca, di azione, di quanto finora abbia avuto. Ci limitiamo soltanto a indicare un ostacolo che dovrebbe essere rimosso perché questo impegno possa iniziare a produrre risultati utili.

C’è come un errore che condiziona già all’inizio la riflessione critica e che è l’altra faccia del determinismo tecnologico (o, come si chiama oggi, del “soluzionismo digitale”) proprio della retorica positiva della trasformazione digitale. L’errore sta nel confondere la tecnologia digitale con la sua configurazione attuale, con le caratteristiche dei sistemi digitali oggi prevalenti, con la forma che il capitalismo ha saputo dare alla potenza del digitale.

Non sto parlando dell’utilizzo della tecnologia. Usi alternativi dei dispositivi digitali esistenti sono infatti possibili solo raramente e per un tempo limitato. Ne sono un esempio le piattaforme di comunicazione sociale che possono in alcuni casi dare voce a chi si oppone a poteri oppressivi, ma che sono invece, per la loro stessa architettura centralizzata, i più potenti meccanismi di controllo e di manipolazione dei comportamenti mai sperimentati.

Sto parlando della necessità di intervenire politicamente nel momento stesso della concezione, della progettazione, della realizzazione, dell’evoluzione, della gestione dei sistemi digitali. Solo così sarà possibile mettere la potenza del digitale al servizio di altri modelli di società, non concederla definitivamente ai meccanismi di funzionamento del capitalismo immateriale.

Per fare questo serve un sovrappiù di competenza e una libertà di ricerca e di invenzione, che è oggi molto difficile trovare nelle università e nei centri di ricerca istituzionali, e che invece percorre sotterranea i canali della cultura tecnologica non istituzionale.

Ma non basta. La disponibilità di questa competenza libera, la sua valorizzazione anche all’interno dei circuiti istituzionali della ricerca è solo una condizione necessaria ma non sufficiente per riorientare la trasformazione digitale.

Se è vero che il digitale che oggi pervasivamente sperimentiamo incorpora la forma sociale attuale del capitalismo immateriale, è anche vero che solo una diversa forma sociale può generare la possibilità di una diversa finalizzazione delle tecnologie digitali.

E quindi non è sufficiente, anche se è necessaria, una competenza digitale socialmente orientata, l’impegno di informatici “socialmente responsabili”. Occorre che questo impegno sia messo politicamente in relazione con le sperimentazioni già in corso di sistemi digitali in grado di sostenere e consentire nuove forme di organizzazione sociale, sia nelle metropoli più avanzate, sia nelle regioni più povere del mondo.

Occorre, soprattutto, che questo impegno abbia un rapporto politico diretto e organizzato con chi cerca di opporsi alle conseguenze negative della trasformazione digitale in corso, dal fattorino che consegna merci per conto terzi, a chi pretende che il servizio pubblico non sia sostituito da una app, dal piccolo produttore costretto a vendere con Amazon, al lavoratore intellettuale che lavora per una piattaforma, dall’impiegato obbligato a lavorare da casa, al dipendente di Google che si rifiuta di lavorare per l’industria militare e protesta per il licenziamento di Timnit Gebru.

È la costruzione politica di questa relazione tra soggetti diversi che potrà dare la forza necessaria all’impegno per riorientare la trasformazione digitale, che farà sì che, ancora una volta, la lotta del più sfruttato dei rider possa contenere in sé la forza di chi sta lottando per un interesse generale.

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3 commenti a “Switch off”

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