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La dichiarazione Schuman e i Trattati di Roma assumevano la pace come elemento “costitutivo” della “Comunità” che si andava creando dopo la più tremenda delle guerre e lo scontro secolare che aveva opposto Francia e Germania. Il progetto europeo nasceva per pacificare i paesi dell’ovest e con l’obiettivo di creare un contrappeso al sistema sovietico uscito da Yalta.

La pace è stata fino a oggi una promessa mantenuta all’interno dell’Unione europea, insieme a una integrazione che, in particolare per Spagna, Portogallo e Grecia, ha voluto dire anche stabilizzazione democratica.

Anche in quel secondo dopoguerra, però, la pace non è stata un approdo naturale, è stata “costruita”. Non è sempre vero, infatti, che dopo una guerra viene la pace – ne è dimostrazione la prima guerra mondiale, la cui fine ha preparato la seconda.

Il libro dello storico Guido Crainz “Ombre d’Europa” appena uscito per Donzelli, cui più volte mi riferirò e di cui consiglio la lettura, ricorda che questa costruzione è stata possibile grazie al ripensamento tedesco del proprio passato. Uno dei simboli più forti della storia dell’Unione è l’immagine del Cancelliere Willy Brandt inginocchiato nel ghetto di Varsavia nel 1970, immagine riprodotta successivamente sulla moneta tedesca da due euro. Nel 1962, nella cattedrale di Reims, il cancelliere Adenauer e il Presidente De Gaulle avevano partecipato a una messa solenne per la pace, evento che l’anno successivo avrebbe dato luogo al Trattato dell’Eliseo. Nel 1984, a Verdun, Mitterrand e Kohl si tenevano per mano nel cimitero per commemorare tutti i caduti della guerra. Dieci anni dopo, a Parigi, Mitterrand compie una atto estremamente coraggioso nel far sfilare agli Champs Elysee carri armati e soldati tedeschi nelle celebrazioni del 14 luglio, un atto di riparazione al fatto che l’anno precedente la Germania era stata esclusa dalle celebrazioni dello sbarco in Normandia. Crainz ricorda che in quell’occasione intellettuali tedeschi e francesi dichiararono che non era la Germania ma l’Europa a essere stata esclusa. Tappe di un lavoro per un “confronto di memorie” indispensabile per trovare le ragioni di un destino comune.

C’è anche da dire che il processo di integrazione europea avvenne in un momento di espansione economica e di piena occupazione e si accompagnò con la costruzione di un sistema di welfare che, ad esempio, Paesi come l’Italia fino ad allora non avevano conosciuto. Condizioni del tutto diverse rispetto al 1989, cui dobbiamo tornare per capire la crisi attuale, i rischi di disfacimento dell’Unione e le possibili vie di uscita.

L’euforia che accompagnò il crollo del Muro di Berlino e che fece parlare alcuni di “fine della Storia” si fondava sull’illusione che, una volta liberatisi i Paesi dell’Est dall’appartenenza forzata al “campo socialista”, la libertà riconquistata e il libero mercato avrebbero fatto il resto. Eppure del fatto che le cose non fossero così pacifiche avremmo avuto presto ampi segnali. L’affossamento del trattato di Nizza con i referendum in Francia e Olanda all’insegna della minaccia costituita dall’“idraulico polacco”, segnale dell’inquietudine che serpeggiava nelle società di molti Paesi (risale ad allora, infatti, l’affermazione del Partito di Le Pen in Francia e di Haider in Austria). La crisi del 2008, condotta all’insegna del rigore e della minacciosa “Troika”, che segnò una frattura tra Paesi frugali e cicale (nord-sud) e lo stigma dei PIGS. La Brexit nel 2020. Il sorgere soprattutto a est di partiti nazionalisti e ultraconservatori che successivamente hanno prevalso nelle elezioni in Polonia e Ungheria e che sono tuttora forti nella ex Germania dell’Est, prodotti della grande frustrazione e dell’“uso politico della storia” che hanno saputo maneggiare senza trovare antidoti politici e culturali, se non l’apologia del mercato e il monetarismo di Maastricht.

Basta guardare la tempistica dell’integrazione degli otto Paesi dell’Est, più Malta e Cipro, per comprendere molte delle ragioni di logoramento del progetto europeo.

1989 – caduta del Muro.

1993 – possibilità per i Paesi dell’Est di iniziare a fare domanda di adesione all’Unione.

1989-1993 – 5 anni di limbo affinché l’Unione potesse compiere il suo processo di “approfondimento” che è stato incarnato nella moneta con le sue istituzioni e dal Trattato che ne detta le condizioni.

1994 – finalmente i Paesi possono presentare le domande.

1997 – decisione di iniziare i negoziati con i primi sei Paesi.

1998 – inizio dei negoziati con gli stessi.

2004 – infine, l’adesione.

Dalla caduta del Muro sono passati quindici anni.

Nel frattempo questi Paesi non erano rimasti con le mani in mano. Fin dal 1990, infatti, Václav Havel e Lech Wałęsa avevano dato vita al gruppo di Visegrád che comprendeva anche l’Ungheria, non contro l’Unione, ma al contrario per favorire un ingresso ordinato e motivato in essa, a partire da un’associazione tra loro secondo un programma tendente a costruire e consolidare processi democratici.

Purtroppo, le difficoltà di questo processo sono testimoniate dal fatto che la stessa Cecoslovacchia si scompose, ma almeno ciò avvenne senza spargimento di sangue proprio perché la prospettiva di ingresso nell’Unione valeva per tutti.

Havel stesso, di fronte a un’Unione che si apprestava a un allargamento di grandi proporzioni, indicava la necessità di un processo “rifondativo” per evitare che i nuovi arrivati avessero la sensazione di entrare in “casa d’altri” e di venir percepiti, come poi a voler essere onesti è stato, come Paesi di serie B. E Geremek, autorevole esponente di Solidarność, segnalava che non sarebbe bastata la libertà conquistata per sopperire a un radicamento troppo debole di istituzioni democratiche deboli anch’esse, anche prima dei regimi comunisti.

Parole inascoltate in un’Europa di Maastricht che ha fatto coincidere liberismo economico con democrazia liberale.

Ricordo spesso Havel perché con Renzo Imbeni abbiamo ho avuto la fortuna di ascoltarlo più volte intervenire nel Parlamento europeo, l’ultima volta nel 2000, denunciando la mancanza di “anima” dell’Europa che aveva fin lì conosciuto.

Ancora Geremek segnalava in Polonia, e non solo, i rischi di un populismo fondato su un’illusione egualitaria, di governi autoritari basati sul mito dell’uomo forte e del nazionalismo nato come opposizione al sistema comunista.

Tutti i nazionalismi si sono giovati dell’uso politico della storia che Agnes Heller, riferita alla guerra nella ex Jugoslavia, definiva le “guerre del ricordo”.

Accanto a questo è importante porre l’attenzione sui processi economico-sociali coincidenti con l’allargamento a Est della Ue, condizioni che furono molto diverse da quelle del dopoguerra dell’Ovest. Ristrutturazioni economiche e privatizzazioni, hanno voluto dire perdita del lavoro e di quel welfare che il vecchio regime pure assicurava negli alloggi, nell’istruzione, nella sanità, nel reddito. Le privatizzazioni sono state sinonimo di povertà, insicurezza e di una perdita di dignità che ha portato tante persone a emigrare all’ovest e che qualche commentatore ha così riassunto: “dalla quiete comunista all’inferno liberale”.

Che l’Euro non potesse sopperire alla mancanza di un più generale progresso politico, istituzionale e culturale è testimoniato anche dal fatto, ricorda ancora Crainz, che in assenza di simboli unificanti, le monete sono illustrate da ponti, archi e finestre inesistenti, metafore di un vuoto profondo.

Contemporaneamente si modificava il sistema di governo previsto dai Trattati di Roma del ’57 e l’accento si spostava dalla Commissione europea al Consiglio; cioè da un organismo “sovranazionale”, la Commissione, per sua natura portato a ricercare l’interesse comune europeo, al Consiglio, luogo di mediazione tra governi molto più congeniale alle tendenze nazionalistiche, pulsioni presenti nei vecchi inquilini e nei nuovi arrivati.

Se a quel tempo avevamo undici Paesi governati da una Banca (attualmente 19), non vorrei che oggi l’Europa intergovernativa che vorrebbe costruire” la difesa comune” affiancasse alla banca uno “Stato Maggiore.”

Sull’uso politico della storia, il libro di Crainz diventa davvero interessante. La guerra di Putin è pienamente una “guerra della memoria” ma anche, aggiungo io, una “guerra alla memoria”, e purtroppo in questo esercizio Putin non è solo, si va dai Balcani alla Polonia all’Ungheria ai Paesi Baltici. È interessante rintracciare elementi comuni: vittimismo accompagnato da autoassoluzione; balzi indietro nella storia per cercare le proprie ragioni e/o le proprie “grandezze perdute”; gesti simbolici e celebrazioni a corredo del proprio racconto, con relativo disseppellimento e riseppellimento di spoglie di mitici principi, condottieri e santi; rimozione della storia più recente e, soprattutto per i Paesi dell’est, un totale oblio delle corresponsabilità con il nazismo e nello sterminio degli ebrei. A questo proposito Crainz ricorda che le prime leggi razziali furono introdotte in Ungheria, con l’esclusione degli ebrei dalle Università, già nel 1920, ben prima del fatidico 1933.

Di queste tendenze nemmeno l’Ucraina può dirsi esente. Quando all’inizio della guerra fu colpito, seppure non intenzionalmente, dai bombardamenti russi il Memoriale di Babij Jiar, luogo in cui nel settembre 1941 furono uccisi in 3 soli giorni 34.000 persone tra ebrei e soldati russi, questi ultimi vittime impreparate del primo impatto dell’invasione nazista, nessuno ha ricordato che tra i più zelanti massacratori vi furono i collaborazionisti ucraini, eventi testimoniati dal bellissimo libro di Anatolj Kuznecov.

Voglio segnalare che in questo affresco compaiono alcune personalità controcorrente capaci di atti comparabili a quelli del Presidente Mitterrand: il Presidente della Repubblica Slovena Borut Pahor che insieme al Presidente Mattarella nel 2020 visitò i luoghi del dolore indicando Nova Gorica e Gorizia come città della cultura per il 2025; Toomas Ilves, Presidente della Repubblica dell’Estonia, il quale, nel 2006, appena eletto, a conclusione del suo discorso di insediamento, ricordò che non pochi estoni collaborarono anche con il regime sovietico, non solo con il nazismo, queste le sue parole: “Bisogna studiare anche i temi che non ci piacciono, quando la colpa non è solo dei soldati degli occupanti esterni. Il collaborazionismo in Estonia è poco studiato da noi così come l’occupazione del nostro Paese è poco studiata in Russia…”.

Insieme a Geremek, già citato, si tratta di tre carissimi colleghi del Parlamento europeo nel periodo in cui Renzo Imbeni era parlamentare, gli ultimi due, dello stesso nostro gruppo, quello socialista. E Imbeni andrebbe accostato a loro anche per aver conferito tra i primi ad Alexander Dubček nel 1991, in qualità di sindaco, la cittadinanza onoraria del comune di Bologna.

Tornando a Putin, la sua ossessione della storia arriva a negare l’esistenza dell’Ucraina definita un’invenzione di Lenin (non si tratta di un’invenzione ma del fatto che nel 1916 e nel 1917 più volte Lenin intervenne a favore dell’indipendenza, sia della Repubblica Ucraina, che di una eventuale Repubblica Polacca, proprio per marcare la rottura con l’imperialismo zarista). Putin compie un salto storico millenario per tornare al principe Vladimiro I, fondatore del RUS, per poi fare proprie le teorie di pensatori come Il’in, espulso nel 1922 e morto in Svizzera nel 1954 (le sue spoglie e il suo archivio sono stati riportati in patria con solenni cerimonie), filosofo della” Nazione spirituale”, o Leont’ev , filosofo e teorico della “Grande Russia”, fino al più conosciuto ultraconservatore Dugin.

Un impasto storico-filosofico per ridare un ruolo alla “sua Russia” ma, soprattutto, come balsamo alla frustrazione dovuta a un passato perduto; al declino di un grande Paese, quale il suo è, rispetto al peso acquistato dalla Cina nel mondo, quella Cina da lui stesso definita non molto tempo fa “un popolo di straccioni”.

Tutto questo non è rassicurante. L’Europa è pienamente nell’occhio di quel ciclone che ridefinirà gli equilibri nel mondo e non basteranno i PNRR a ridare slancio alle nostre economie e alle società europee, soprattutto se l’insegnamento della pandemia e la scelta di garantire una sia pur piccola parte del debito con il bilancio dell’Unione e dell’allentamento dei vincoli del patto di stabilità dovessero dimostrarsi solo una parentesi e non il preludio a nuove politiche comuni la cui urgenza è ormai evidente, a cominciare dall’energia e non solo.

A oltre nove mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, con 200.000 morti tra i soldati e oltre 6.000 tra i civili, cui vanno aggiunti i 15.000 morti della prima guerra del Donbass, dove vogliamo arrivare? Cosa possono dire di più le armi? Come molti di noi non ho certezze, piuttosto domande e non voglio qui ripetere argomenti triti e ritriti nel dibattito di questi mesi.

Credo che difficilmente l’Ucraina possa essere messa in discussione come Nazione indipendente, status che ha rischiato di perdere nella prima fase attraverso un “colpo di Stato”, e difficilmente è immaginabile senza le repubbliche contese, che costituiscono la parte economicamente vitale del Paese. Tuttavia se si spostasse l’attenzione dal territorio alle persone in carne e ossa, e alle garanzie di cui necessitano per una vita sicura e dignitosa, forse si potrebbero trovare soluzioni che se si continua con la guerra potrebbero essere definitivamente compromesse.

È bene anche ricordare che nelle “Repubbliche baltiche” vivono consistenti minoranze russe di cui il Presidente Ilves aveva parlato con attenzione e preoccupazione. Anche per questi motivi, una soluzione giusta del conflitto che includa il rispetto e i diritti delle minoranze diventa ancor più necessaria affinché questa guerra non ne prepari altre.

In tutto questo non vi è stata alcuna iniziativa dell’Unione europea per la pace. Sia la Commissione che il Parlamento sono più impegnati a “posizionarsi” che non ad assumere un qualche ruolo in questa tragedia. Posizionamenti che non hanno alcuna utilità al fine di raggiungere soluzioni ma che rischiano di inasprire ancor più una situazione già gravissima. Cosa aggiunge il fatto di dichiarare la Russia sponsor del terrorismo? O invocare una ulteriore Corte internazionale di impossibile realizzazione con il rischio di indebolire quella già esistente e di un uso “politico” di istituzioni che devono restare indipendenti a garanzia della loro autorevolezza? Eppure, giusto dieci anni fa, l’Unione europea ricevette a Oslo il Nobel per la Pace per aver assicurato la pace al suo interno e per rifiutare la guerra come mezzo di soluzione dei conflitti. Fino a ora, questa Europa, non si è vista.

Porrei anche attenzione alla società russa dove si sta affermando il movimento delle mamme dei soldati contro la guerra. Il fatto che Putin si sia affrettato ad incontrare un piccolo gruppo di madri, a dimostrazione di un suo interesse per il problema, testimonia che egli teme questo movimento che difficilmente potrebbe essere trattato come il suo regime tratta gli oppositori e i dissidenti. In Italia solo il quotidiano l’Avvenire segue con una certa attenzione ciò che accade in Russia, per il resto conta solo la guerra, le armi, i potenti; eppure, a volte, conta anche la società conta. Ricordo a questo proposito, un importante precedente: quello del ritiro di Israele dal sud del Libano che fu ottenuto proprio dal movimento delle madri dei soldati contro il Governo.

L’Europa non si colloca tra est e ovest, l’Europa è est e ovest e anche nord e sud, e se dovesse perdere una di queste dimensioni rischierebbe di perdere sé stessa.

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Un commento a “Tra Oriente e Occidente. Costruire la pace, sconfiggere la guerra”

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