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Tre secoli di guerre mondiali che riassumiamo qui brevemente, per poi scendere nel dettaglio dell’analisi.

Guerra alla biosfera, cioè la Terra intesa come una miniera da sfruttare “fino a che non sarà consumato l’ultimo quintale di carbone” – Max Weber e il capitalismo come gabbia d’acciaio; guerra militare tra gli uomini e le nazioni e tra complessi militari-industriali. Guerra agli uomini ridotti a forza-lavoro e con la valorizzazione capitalistica di tutto e di tutti – in più il Mediterraneo come cimitero di migranti e i Cpr/lager. Guerra alla libertà e all’autonomia individuale illuministica – e guerra a Kant che voleva un uomo capace di uscire dalla minorità in cui è catturato e chiuso dal potere, nonché guerra alla ricerca kantiana di una pace perpetua nel mondo; guerra alla libertà/possibilità/capacità degli uomini – intesi come collettività/società/classe (così per il marxismo) – di immaginare e poi costruire un mondo diverso, umano e umanistico, cioè ancora guerra agli uomini che non devono diventare soggetti costruttori di storia ma oggetti assoggettati alla storia decisa da altri. E guerra alla democrazia, perché tecnica e capitalismo sono strutturalmente anti-democratici, imponendosi come dati di fatto immodificabili e indiscutibili – e allora dovremmo urgentemente riprendere con convinzione e determinazione la distinzione, rivendicandone il superamento con la trasformazione della prima nella seconda – tra democrazia formale e democrazia sostanziale. E soprattutto dovremmo riconoscere che tutta la storia della modernità occidentale e poi globale è storia del capitale, dell’industria, della tecnica e del profitto privato, ma con le premesse nel primo colonialismo e in Cartesio e in Bacone e in quella che definiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale. Ma entriamo nel dettaglio.

Guerra alla biosfera

Torniamo al 19 marzo scorso e al nuovo, ennesimo allarme rosso per il clima lanciato dall’Organizzazione meteorologica internazionale (Omm). Il 2023 è stato infatti l’anno più caldo mai registrato da 174 anni a questa parte, cioè da quando ci sono rilevazioni scientifiche in materia. E la temperatura media è salita di 1,45 gradi centigradi sopra i livelli pre-industriali. E nuovo, ennesimo grido d’allarme del Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, per il quale “la Terra è sull’orlo del collasso e sta lanciando una chiamata di soccorso”, sottolineando poi che “l’inquinamento da combustibili fossili sta creando un caos climatico fuori scala” e avvertendo che “i cambiamenti stanno accelerando”.

Dunque, è evidente che vi sia una strettissima relazione di causa-effetto tra sviluppo crescente del capitalismo e del sistema industriale di produzione e di consumo e crisi climatica e ambientale. E bastano pochi dati storici – limitandoci al Novecento, il secolo industriale e industrializzato per eccellenza – per confermarlo: nel mondo vi erano, nel 1937, 2,3 miliardi di persone, con la CO2 nell’atmosfera a 280 parti per milione e gli spazi di natura incontaminata erano il 66% del totale; nel 1997 la popolazione mondiale era salita a 5,9 miliardi di persone (più che raddoppiata in sessant’anni!), con la CO2 salita a 360 parti per milione e la natura incontaminata scesa al 46%; mentre nel 2022 la popolazione mondiale è arrivata a 8 miliardi di persone, la CO2 nell’atmosfera a 417 parti per milione e la natura incontaminata si era ridotta ulteriormente al 35%. E – dicono le previsioni – saremo circa dieci miliardi alla fine del secolo: un dato e un processo di accrescimento della popolazione (che inizia, guarda caso, con la rivoluzione industriale) che coloro che parlano di inverno demografico e vorrebbero che si tornasse a produrre bambini – pensando nazionalisticamente in termini demografici e capitalisticamente quanto a produzione di forza-lavoro produttiva e consumativa, invece che globalmente ed ecologicamente come la Terra ci imporrebbe – dovrebbero meditare seriamente. Con l’ulteriore paradosso che a temere l’inverno demografico e a voler far fare più figli è anche quell’Occidente che è il massimo produttore di guerre militari (fare figli, quindi, per farne domani nuova carne da cannone), di crisi climatica e ambientale (che peggiorerà per le generazioni future) e di tecnologie che toglieranno lavoro a milioni di persone senza crearne di nuovo per altrettanti. Ma invece di intervenire e di agire contro il riscaldamento climatico e la crisi ambientale (e sociale, strettamente connessa) – modificando radicalmente il sistema imposto dal capitale e dalla tecnica – gli uomini hanno deciso di adattarsi ancora una volta alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione industriale e oggi industriale-digitale del lavoro. Dimenticando che questo adattamento è il fine dichiarato e perseguito dal liberalismo/neoliberalismo, dal positivismo ottocentesco e dal sistema tecnico e ora dagli anarco-capitalisti e dai libertariani tecnologici e dagli oligarchi tecnocratici della Silicon Valley e per i quali dobbiamo adattarci anche al riscaldamento climatico – e resilienza è parola magica tra le più usate oggi – affinché le esigenze del tecno-capitalismo (profitti e ancora profitti, potere e ancora potere) possano continuare ad essere soddisfatte; da qui anche il fallimento pianificato da parte del capitale delle varie Cop sul clima.

Guerra militare

E cosa rilancia oggi il capitale per nascondere, rimuovere – nel caso la resilienza non bastasse (e infatti non basta) – la crisi climatica e la possibile messa in discussione di se stesso come tecno-capitalismo? La guerra, quella militare, quella degli amici contro i nemici, quella della volontà di potenza e di onnipotenza degli imperialismi del capitale e della tecno-scienza, perché tutte le guerre (anche) militari oggi in corso sono dentro e funzionali al sistema tecno-capitalista. E dopo quelle in Ucraina e Medio Oriente ecco l’Europa – incapace di essere soggetto politico – ritrovarsi guerrafondaia da Macron a Ursula von der Leyen (che tanto sognava di guidare la NATO) e complici gli agricoltori coi loro trattori e i tanti sovranismi che la corrodono mette di fatto in parentesi (o peggio, nel cestino) il Green New Deal – con la Bce che, senza pudore, sostiene che “riduce la competitività” dell’economia europea. Unione che riscopre ancora una volta che l’industria bellica è molto meglio in termini di business e di profitti soprattutto a breve termine (“e si creeranno inoltre tanti posti di lavoro e crescita in tutta l’UE”, secondo il Consiglio europeo), è molto meglio della transizione ecologica e delle energie rinnovabili.

E allora torniamo alle riflessioni di Carl von Clausewitz (1780-1831), generale prussiano, scrittore e teorico militare (il suo Della guerra è stato pubblicato, postumo e incompleto nel 1832), famoso e citatissimo soprattutto per la frase: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione appunto con altri mezzi”. E ancora: “La guerra non è mai un atto isolato” e “La guerra non scoppia mai in modo del tutto improvviso, la sua propagazione non è l’opera di un istante”. Principi perfettamente applicabili anche alla invasione russa dell’Ucraina, ad Hamas e a Israele, ma anche a tutte le guerre nascoste che sono in corso per accaparrarsi il litio e le altre materie prime necessarie al digitale e alla digitalizzazione della vita e del lavoro (geo-economia, geo-tecnologia e geo-politica integrate ancora una volta tra loro); ma nascosta (perché fatta in nome della libertà, dell’amicizia e del condividere) è stata anche la guerrache la Silicon Valley ha dichiarato contro la nostra privacy e quindi contro la nostra libertà e la nostra soggettività; nascosta è la guerra degli USA contro Assange, speculare a quella di Putin contro Navalny (stesso reato: la libertà di pensiero e di informazione). Ma partendo da Clausewitz potremmo/dovremmo aggiungere – rovesciandone il principio – che anche la politica e oggi sempre più l’economia e la tecnica sono la continuazione della guerra con altri mezzi; guerra di tutti contro tutti, come nello stato di natura secondo Hobbes prima del contratto sociale.

Ma usando Clausewitz potremmo/dovremmo soprattutto riconoscere che la guerra alla biosfera e quindi alla vita della Terra e quindi alla vita umana – con noi come forza-lavoro e come consumatori colpevoli tanto quanto il capitale che ci governa e che ingegnerizza eteronomamente i nostri comportamenti perché siano funzionali alle sue esigenze, noi incapaci di opporci a questa guerra mondiale che pratichiamo contro la biosfera, noi incapaci di diventare pacifisti esistenzialmente ed ecologicamente – questa guerra alla biosfera e questa guerra militare sono la normalità del capitalismo e del sistema tecnico (sistema che ci porta sempre più nell’artificialità, pur chiamando il digitale ecosistema) e della sua logica irrazionale ed ecocida.

Perché certo la guerra è nella natura umana, ma il tecno-capitale la valorizza in termini di profitto per sé e la moltiplica (è l’industrializzazione anche della guerra) per moltiplicare il suo plusvalore – e scriveva la filosofa Simone Weil (1909-1943) quasi cento anni fa: “Così come il potere militare moltiplica le guerre, così il potere commerciale moltiplica gli scambi” – attraverso quello che si chiamava e ancora dovrebbe essere chiamato appunto complesso militare-industriale e oggi digitale (che sempre industriale è), con la Silicon Valley sempre più integrata/ibridata (e non poteva essere diversamente, per l’imperialismo del tecno-capitale) con l’industria delle armi e con l’industrializzazione ulteriore (digitalizzata) della guerra. Cui si affianca l’ibridazione/integrazione, anche in Italia, tra università/azienda e complesso militare-industriale-digitale, contraddicendo ogni principio di libertà di ricerca.

Guerra alla libertà

E quindi – last but not least – accanto e funzionale alle guerre militari e alla guerra mondiale alla biosfera c’è la guerra che la razionalità strumentale/calcolante-industriale (infra) ha dichiarato, via tecnica e capitale alla libertà illuministica dell’individuo e a quella marxiana della classe operaia. È la guerra al libero arbitrio e al libero volere, alla consapevolezza e all’immaginazione degli uomini.Guerra che spoglia l’individuo e la classe della capacità di immaginare un mondo diverso e un individuo veramente libero. E a questo servono appunto management e marketing, ma soprattutto la tecnologia che in sé, per sua essenza e per il sistema capitalistico suddivide, separa, individualizza per poi meglio integrare ciascuna parte isolata e separata ma connessa, in sé come sistema totalitario. Perché se per Kant (1724-1804) autonomia e libertà – nella sua Risposta a che cos’è l’illuminismo – presupponevano l’uscita dal girello per bambini (dalla minorità, appunto) in cui il potere, qualsiasi potere, tiene gli uomini, addestrandoli e allevandoli a cercare sempre qualcuno che pensi per loro, liberandoli così dalla fatica di pensare (oggi i nuovi girelli sono i social, l’i.a. e gli algoritmi – sempre per liberare l’uomo dalla fatica di pensare); e se per Marx (1818-1883) era necessario uscire dallo sfruttamento del capitale passando a una società finalmente libera – in realtà queste due strade di emancipazione e di liberazione erano insostenibili per il potere dell’industria e del capitale. E quindi l’illuminismo è morto appena nato, scalzato dal positivismo. E il marxismo alla fine (oggi) ha perduto anch’esso ogni vocazione alla emancipazione e alla liberazione dell’uomo, sempre vivendo una fascinazione infantile per la tecnica e sempre sognando appunto, via tecnologia, un virtuoso general intellect – pensarlo è stato l’errore più clamoroso di Marx.

Ha scritto il filosofo Umberto Galimberti (in Psiche e Techne) che con l’età moderna, con il giusnaturalismo e con l’illuminismo l’individuo ha acquisito un potere che non ha mai avuto, la società si fa individualistica e ad essa si accede attraverso la figura giuridica del contratto, “mettendo capo a quella società artificiale che ha come unico scopo la difesa e la maggiore espansione delle libertà individuali. […] Ma […] proprio a partire da questa legittimazione, libertà e uguaglianza prendono a divaricare, perché, come libertà d’azione, la libertà fuoriesce dalla semplice tutela giuridica in cui si trattiene l’uguaglianza, per inseguire quella sfera, l’economia, che, autonomizzandosi sempre di più dall’orizzonte sociale, detterà legge alla legge. Nasce così un individuo che, in virtù del suo potere economico, sarà più libero di un altro ma che per la sua sottomissione alle leggi trans-individuali dell’economia (le leggi del mercato) sarà sempre meno individuo e sempre più funzionario dell’apparato economico. In questo modo si passa da un’epoca critica che, contro l’olismo gerarchico della società feudale rivendica la libertà degli individui, la loro uguaglianza e l’autonomia della loro ragione, affrancata dalla subordinazione a valenze simbolico-fideistiche, a un’epoca organica, dove però le leggi del tutto non sono ricavate dall’ordine sociale ma dall’ordine economico che, emancipatosi dalla società, detta legge a quest’ultima. […] Ciò che si realizza è quella ‘solidarietà organica’, secondo l’espressione di Durkheim, determinata non dagli individui o dai loro bisogni, ma dalle loro funzioni in quella divisione del lavoro sociale che rende tutti interdipendenti sul piano materiale, più di quanto in precedenza l’umanità non avesse mai sperimentato”. Dove all’economia – ancora Galimberti – si affianca e integra la tecnica.

E se il neoliberalismo ha come obiettivo la trasformazione della società in mercato e in concorrenza, sovrapponendo mercato e concorrenza a società (che non deve più esistere) e Stato, per la tecnica vale un principio analogo, ben sintetizzato nel 1939 da F. G. Jünger (1898-1977 e fratello del più famoso Ernst): “Non è più l’uomo a creare il mondo che lo circonda, ma l’apparato industriale e così [l’uomo] impara ad agire contro la sua stessa volontà, deformata dalla macchina, […] e i suoi sforzi sono sempre provocati dalla macchina e sempre finisce per seguire la legge [la norma] che è insita nello sviluppo della nuova tecnica” (La perfezione della tecnica). E ancora: l’aspirazione al potere della tecnica come del capitalismo “si prefigge anche lo scopo di subordinare lo Stato e di sostituire l’organizzazione statale con una organizzazione tecnica. Di ciò non si può avere alcun dubbio [era evidente nel 1939, dovrebbe esserlo ancora di più oggi in tempi di digitalizzazione di massa], come è anche chiaro che i sostenitori e gli antesignani della tecnocrazia non aspirano ad altro”. Perché “il tecnico oppone sempre i regolamenti tecnici allo Stato e all’intera organizzazione sociale, in una instancabile produzione di leggi e di regolamenti contrassegnati da un carattere tecnicamente normativo”, cioè “la decisione tecnica è allo stesso tempo dispositiva e causale” e quindi il tecnico ma anche il capitalista si oppongono e aggirano sempre e comunque tutto ciò che la legge potrebbe impedire loro di consumare e distruggere, si tratti di uomini o di oggetti inanimati – come la biosfera.

Detto altrimenti, la crisi della democrazia e della libertà, la fine delle classi e della lotta di classe, la morte dell’illuminismo sono effetto diretto e determinato (sono nel piano) della razionalità strumentale/calcolante-industriale – cioè del tecno-capitalismo.

Realizzandosi così la più perfetta forma di totalitarismo, quello della fabbrica. Dove – scriveva Marcuse ne L’uomo a una dimensione – “l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina [è ciò che appunto chiamiamo human engineering, via management, marketing e oggi rete] non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. […] La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale [il capitalismo digitale e della sorveglianza, i social], più efficaci e più piacevoli. Essa plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative”.

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Un commento a “Tre secoli di guerra mondiale”

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