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Articolo pubblicato su “Transform!Italia” l’08.11.2023.

L’assenza dell’Europa

“L’Europa è un destino comune. Non possiamo dissipare 75 anni di pace”. Così il titolo dell’Avvenire del 29 ottobre 2023 riferendo di un intervento del giorno precedente del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in cui auspicava “un’Europa diversa e migliore” e aggiungeva “non dobbiamo mai confondere indipendenza e sovranità, e cedere quote della prima aiuta a difendere la seconda”, riferendosi evidentemente alla sovranità popolare e non a quella nazionale. E ancora, un’Europa che non perde la sua anima “sa rispondere alle tante sfide che ha davanti”, “la guerra che si combatte in Ucraina e il conflitto in Terra Santa diventano una grande sfida per scegliere le risposte adeguate”. Nelle stesse ore in cui il principale esponente della Chiesa cattolica italiana manifestava il suo europeismo animato da forti idealità e speranze ma al tempo stesso caratterizzato da indubbia concretezza politica, l’Unione Europea, in due importanti occasioni, dava di sé uno spettacolo disperante.

Nel Consiglio Europeo del 26-27 ottobre 2023 c’era in gioco la richiesta del cessate il fuoco a Gaza. Una posizione che avrebbe dato il segnale, da un lato, della volontà di mettere il peso dell’UE nella ricerca di una soluzione pacifica, dall’altra di affrancarsi dall’appiattimento sulle posizioni degli Stati Uniti. Invece i 27 Capi di Stato e di Governo raggiungono l’accordo sul più basso livello possibile: non cessate il fuoco, non tregua ma “pause” e corridoi umanitari. D’altra parte, non ci si poteva aspettare niente di più dalla massima istituzione dell’intergovernativismo europeo; dove la preoccupazione non è il ruolo dell’Europa ma il cosiddetto interesse nazionale, che altro non è che l’interesse di chi governa a conservare il consenso dei propri elettori. Così la posizione della Francia, apparentemente la più avanzata sulla salvaguardia del diritto alla vita della popolazione di Gaza, si spiega con la preoccupazione di Emmanuel Macron di non alienarsi irrimediabilmente il favore della popolazione francese di origine araba. Per converso, Governi come quello ungherese debbono rendere conto a elettorati tra i più islamofobi d’Europa; così come il Governo tedesco non può dimenticare che il suo popolo non si è ancora liberato del complesso di colpa nei confronti degli ebrei. Mentre per Giorgia Meloni accomodarsi su una posizione che è all’incirca quella degli USA permette di navigare nell’ambiguità dei rapporti della destra italiana con il sionismo.

La stampa europea ha dato ancora più risalto all’irrilevanza europea a proposito dell’approvazione della Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU sulla guerra a Gaza, svoltasi quasi contemporaneamente al Consiglio Europeo, in cui i Paesi membri dell’UE si sono espressi in tre modi diversi. Nonostante la relativa moderatezza del testo posto in votazione, che aveva subito importanti ammorbidimenti rispetto a quello iniziale proposto dalla Giordania1, tra i 14 Paesi che hanno votato contro, insieme a USA e Israele, figurano Austria, Croazia, Repubblica Ceca e Ungheria.  Solo otto Paesi UE fanno parte dei 120 membri delle Nazioni Unite che hanno votato a favore della risoluzione: Belgio, Francia, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Slovenia e Spagna; mentre tutti gli altri, comprese Italia e Germania si sono astenuti2.

Nonostante questa difformità nella votazione sia stata deplorata e indicata come simbolo della disgregazione dell’UE, a pensarci bene ciò che è accaduto all’ONU è meno grave delle conclusioni del Consiglio Europeo. Infatti, il vincolo che lega i membri delle Nazioni Unite è politicamente meno stringente di quello esistente tra gli Stati dell’UE. A New York ognuno arriva con la sua posizione e si cerca di trovare il compromesso possibile, anche se finisca per risultare al livello più basso, a meno che non ci sia la manifesta volontà di esprimere un veto come spesso avviene al Consiglio di Sicurezza. Questa è la modalità propria di una organizzazione internazionale. Ma l’Unione Europea non è un’organizzazione internazionale, bensì un’unione sovranazionale con finalità politiche ed economiche. La cosa scandalosa è che il Consiglio Europeo continui a far scadere l’Unione al livello di una organizzazione internazionale.

L’Unione bloccata

Non è da oggi che il Consiglio Europeo è il luogo dell’immobilismo, dei veti incrociati che portano quasi sempre a Conclusioni di una genericità avvilente – come quelle sull’economia della stessa riunione del 26-27 ottobre – e, soprattutto, costituisce un tappo al processo democratico nell’UE, che coarta l’espressione più importante e più diretta della volontà dei cittadini europei, rappresentata dal Parlamento Europeo; un vero e proprio furto della sovranità popolare. Le cause di questa situazione sono diverse. Innanzitutto, l’asfissiante assetto intergovernativo che si è venuto ad affermare dal Trattato di Maastricht in poi: i poteri pressoché sovrani del Consiglio Europeo, che conculca anche le sovranità nazionali perché a decidere non sono i Parlamenti nazionali ma i Capi di Stato e di Governo; lo strapotere del Coreper, il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Ambasciatori) dei Governi nazionali presso l’UE; il dilagare della “comitologia”; l’avvento della governance economica che ha, di fatto, cambiato la costituzione materiale dell’Unione. Non è azzardato sostenere che l’Unione Europea, con la prevalenza del metodo intergovernativo su quello comunitario, stia progressivamente assomigliando sempre di più a una confederazione, che è il modello istituzionale preferito dai sovranisti3.

In secondo luogo, a soffocare la democrazia nell’Unione, è il campo delle competenze esclusive del Consiglio e le limitazioni di quelle del Parlamento Europeo, che escludono dalla procedura legislativa ordinaria (adozione congiunta Parlamento-Consiglio), materie divenute importantissime, come la politica estera, quella di difesa e sicurezza, e, soprattutto, quelle che riguardano la Zona Euro, quali l’assistenza ai Paesi in difficoltà, le decisioni sui deficit eccessivi, gli orientamenti di politica economica. Su queste materie il Parlamento ha un ruolo unicamente consultivo o di cosiddetto orientamento, che si risolve spesso in perorazioni alla Commissione e al Consiglio. Inoltre, il Parlamento Europeo non ha un effettivo diritto d’iniziativa legislativa, riservato solo alla Commissione, ma soltanto quello di chiedere a essa di presentare una proposta legislativa.

In più, i guasti di un sistema istituzionale incoerente (per esempio Consiglio Europeo, Consiglio UE, Alto Rappresentante), con una leadership tricefala (Presidente del Consiglio Europeo, Presidenti di turno del Consiglio UE, Presidente della Commissione) hanno contribuito a creare un diffuso sentimento di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea. Questa situazione di “disagio” è stata in questi ultimi anni avvertita anche a livello istituzionale. Non solo dal Parlamento Europeo – non si possono dimenticare gli appassionati interventi del compianto Presidente David Sassoli – ma anche da parte dei Governi che contano, quello tedesco e quello francese. Da qui la Conferenza per il Futuro dell’Europa, lanciata nel 2019, da Emmanuel Macron, avviata nel marzo del 2021 dai Presidenti di Parlamento, Consiglio e Commissione, e conclusasi nel maggio 2022. Una serie di dibattiti che hanno coinvolto singoli cittadini e società civile organizzata, con più di settecentomila interventi e oltre cinque milioni di visitatori individuali alla piattaforma. Un forum pubblico importante per la partecipazione popolare, ma proprio perché affidato a modalità di democrazia diretta – presunta forma di democrazia partecipativa che non basandosi sui corpi intermedi slitta inevitabilmente nel populismo – alquanto deludente nei risultati. La Conferenza ha prodotto 49 proposte su numerose tematiche: cambiamento climatico e ambiente, salute, economia, giustizia sociale, occupazione, UE nel mondo, valori e diritti, Stato di diritto, sicurezza, trasformazione digitale, democrazia europea, migrazioni, istruzione, cultura, gioventù, sport. Tra le 49 proposte soltanto una decina richiederebbero modifiche ai Trattati. Questo dà la misura di risultati miglioristi che non colgono i bisogni di profonda riforma, di vera e propria rifondazione dell’Unione Europea.

È così che dopo la conclusione della Conferenza sul Futuro dell’Europa, la discussione sulla riforma dell’UE si è orientata in tre direzioni diverse: riforme senza modificare i Trattati, revisione dei Trattati, potere costituente del prossimo Parlamento Europeo. In questa sede, ci si limiterà a una disamina delle proposte che si propongono di riformare l’Unione Europea utilizzando tutte le possibilità offerte dai Trattati vigenti.

Le iniziative franco-tedesche

La soluzione delle riforme senza modificare i Trattati si è irrobustita, almeno come rimedio a breve termine, grazie, soprattutto alla volontà dei Governi francese e tedesco di conseguire al più presto risultati tangibili. Due sono le iniziative in questa direzione: il “Gruppo di amici del voto a maggioranza qualificata”, promosso dal Governo tedesco, e il “Gruppo franco-tedesco sulle riforme istituzionali dell’UE”.

Del “Gruppo degli amici del voto a maggioranza”, costituitosi all’inizio di maggio 2023, fanno parte nove Governi (i sei fondatori: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi; più Finlandia, Slovenia e Spagna). Come recita lo stesso nome del Gruppo, l’intento è di concentrarsi sul superamento dell’unanimità nelle decisioni del Consiglio UE. Una questione che sembra essere diventata la bestia nera del processo d’integrazione europea, alla quale viene addebitata l’intera responsabilità dell’inefficacia politica dell’UE. Certamente, l’unanimità ha avuto un indubbio peso nelle impasses che hanno riguardato materie divenute decisive. Il dibattito sul superamento dell’unanimità si è manifestato fin dall’inizio della Conferenza sul Futuro dell’Europa e si è intensificato dopo la guerra in Ucraina, quando le decisioni sulle sanzioni alla Russia e l’invio di armi all’Ucraina sono stati ostacolate da alcuni Stati membri, in primo luogo dall’Ungheria.

Per questo, l’attenzione viene posta soprattutto sulla politica estera; e, infatti, così recita, tra l’altro, il comunicato congiunto dei nove Ministri degli Esteri: “L’obiettivo del Gruppo di amici è migliorare l’efficacia e la rapidità del nostro processo decisionale in politica estera. Sullo sfondo della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e delle crescenti sfide internazionali che l’UE si trova ad affrontare, i membri del Gruppo sono convinti che la politica estera dell’UE necessiti di processi e procedure adattati per rafforzare l’UE come attore di politica estera. Anche un migliore processo decisionale è fondamentale per rendere l’UE pronta per il futuro. Il Gruppo mira a realizzare progressi nel miglioramento del processo decisionale nella PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) in modo pragmatico, concentrandosi su passi pratici concreti e basandosi sulle disposizioni già previste nel trattato sull’Unione Europea”.

Per il momento l’iniziativa ha soprattutto un valore simbolico, anche perché nove Stati membri non sono sufficienti per una maggioranza qualificata – ne servono almeno 15 con almeno il 65% della popolazione dell’UE – ma, potrebbe essere un buon viatico, tenendo conto che Germania e Francia sono determinate a procedere in questa direzione e se non si è ancora arrivati a un esito concreto è perché non si sono ancora messe d’accordo sul campo di applicazione. La Francia vorrebbe che si applicasse all’insieme della PESC, mentre per la Germania pensa che bisognerebbe limitarsi ad aspetti specifici.

La promozione del “Gruppo di amici” va letta in parallelo con l’altra iniziativa franco-tedesca, il “Gruppo franco-tedesco sulle riforme istituzionali dell’UE” o “Gruppo dei 12” perché composto da 12 esperti nominati dai due Governi. Il Gruppo, costituito nel gennaio 2023 ha presentato il suo Rapporto il 18 settembre dello stesso anno. La questione della riforma dell’UE viene affrontata con uno sguardo più ampio di quello del semplice superamento dell’unanimità, ponendo tre obiettivi: rafforzare lo Stato di diritto e la legittimità democratica, accrescere la capacità d’azione, preparare le istituzioni all’allargamento. Le proposte su questi tre versanti sono numerose; il Rapporto ha il pregio di distinguere le misure che si possono prendere a Trattati invariati da quelle che necessitano la loro revisione. Nella prima categoria trovano posto quelle volte alla sterilizzazione del diritto di veto e al superamento dell’unanimità nelle decisioni del Consiglio. Il Rapporto raccomanda che prima del prossimo allargamento, sia garantito che tutti gli ambiti di decisione che dipendono ancora dall’unanimità passino alla maggioranza qualificata. Inoltre, la procedura legislativa ordinaria (quella di codecisione con il Parlamento Europeo) dovrebbe essere generalizzata, tranne che per le materie rientranti nella politica estera, di sicurezza e di difesa.

Il superamento dell’unanimità

Oltre alla politica estera e alla difesa, non sono poche né di poco peso le materie sulle quali è possibile esercitare il diritto di veto, come, per esempio, il bilancio e le risorse proprie, la politica fiscale, le migrazioni e l’asilo (compresa la revisione del Regolamento di Dublino). La più importante di tutte le materie per le quali è necessaria l’unanimità è la stessa revisione dei Trattati. Infatti, il Trattato sull’Unione Europea, oltre alla procedura ordinaria di revisione dei Trattati (Convenzione/Conferenza intergovernativa, ratifica degli Stati membri) prevede una procedura semplificata con tre diverse modalità (art. 48 del Trattato sull’Unione Europea-TUE).

Secondo la prima – relativamente a disposizioni della Parte terza del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), quella relativa alle “Politiche e azioni interne dell’UE” (dalle politiche economiche e di mercato alle politiche settoriali e sociali) – il Consiglio può decidere modifiche che però debbono essere ratificate dagli Stati membri.

La seconda modalità è quella delle cosiddette “clausole passerella” che consentono al Consiglio Europeo di autorizzare il Consiglio ad adottare decisioni a maggioranza qualificata, superando l’unanimità, ovvero di passare dalla procedura legislativa speciale (potere decisionale del Consiglio e ruolo consultivo del Parlamento) alla procedura legislativa ordinaria (codecisione Parlamento-Consiglio).

Il “Gruppo dei 12” incentra principalmente le possibilità di superare l’unanimità su un uso ampio della “clausola passerella”. Più che una concreta ipotesi di lavoro sembra un wishful thinking perché non tiene conto del fatto che il suo ricorso deve essere deciso all’unanimità e che esiste sempre il “freno d’emergenza”, cioè il blocco da parte di uno Stato membro che invoca “vitali motivi di politica nazionale”.

La terza modalità è la “clausola di flessibilità”; l’art. 352 del TFUE prevede che il Consiglio Europeo possa decidere – previa approvazione del Parlamento Europeo e previa consultazione dei Parlamenti nazionali qualora si tratti di materia di competenza concorrente (UE-Stati membri) – l’ampliamento dei poteri non attribuiti all’Unione europea, nel caso in cui appaia necessario, “nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine”. Oltre al campo ristretto di possibile ricorso a questa clausola, lo stesso art. 352 prevede limitazioni importanti alla sua applicazione, quale, per esempio l’esclusione della politica estera e di sicurezza comune.

L’astensione costruttiva

I Trattati, peraltro, offrono varie scappatoie per sfuggire al ricatto dei veti e all’obbligo dell’unanimità. Relativamente alla PESC, oltre ad alcune “deroghe speciali” che consentono la votazione a maggioranza qualificata – ma che non si applicano alle decisioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa – l’art. 31 del Trattato sull’UE (TUE) prevede la cosiddetta “astensione costruttiva” che esonera uno Stato membro dagli obblighi derivanti dalla decisione del Consiglio, accettando che essa abbia effetto all’interno dell’Unione. Un espediente che ha il precedente illustre dell’opting out che, per esempio, aveva esonerato Regno Unito e Danimarca dall’adozione dell’euro. L’astensione costruttiva, però, non si può adottare se gli Stati membri astenuti sono un terzo o più o rappresentano un terzo o più della popolazione dell’Unione. Anche il “Gruppo dei 12” sconsiglia l’utilizzo sistematico dell’astensione costruttiva come espediente per sfuggire all’unanimità, giacché porterebbe a una sorta di dispersione al ribasso dell’assetto normativo e istituzionale dell’UE. Tutt’al più potrebbe essere limitata a casi eccezionali dovuti a irrinunciabili specificità nazionali.

Facciamoci un trattatino per conto nostro

L’astensione costruttiva è una delle modalità attraverso cui i Trattati hanno aperto un certo spazio alla cosiddetta “integrazione differenziata” che ha visto la sua forma estrema nella costituzione di organizzazioni intergovernative internazionali, sostanzialmente al di fuori dell’UE, ma nei confronti delle quali sono previste connessioni con il TFUE e con la normativa UE. Si tratta specificamente del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e del Fiscal Compact; per il primo l’aggancio è direttamente con il TFUE4,  per quanto riguarda il secondo, sono note le relazioni funzionali con il Patto di Stabilità e Crescita.

Anche se c’è chi ritiene che il ricorso a trattati extra UE, al di fuori di ogni controllo del Parlamento Europeo, possa costituire una modalità di deterrenza nei confronti di Stati membri recalcitranti5, non può sfuggire, proprio per l’esperienza della governance economica, il vulnus che esso arrecherebbe alla già malmessa democrazia dell’Unione.

La cooperazione rafforzata

La principale forma applicativa appartenente alla “famiglia” dell’integrazione differenziata è, però, la “cooperazione rafforzata”, o, per meglio dire, il “genere” delle cooperazioni rafforzate.

La cooperazione rafforzata cosiddetta “ordinaria” ne è la “specie” più pertinente. Prevista sin dal Trattato di Amsterdam (1997), attua il principio della “flessibilità istituzionalizzata”, con l’intento di superare l’annosa antinomia tra allargamento e approfondimento. Essa dà la possibilità agli Stati membri che lo desiderino di cooperare per raggiungere livelli più intensi d’integrazione, sempre nell’ambito dei Trattati. Le condizioni per stabilire una cooperazione rafforzata, a parte il carattere volontario della partecipazione, sono: che vi partecipino almeno nove Stati membri; che non abbiano come oggetto materie di competenza esclusiva dell’Unione6); che siano aperte all’ingresso in qualunque momento di altri Stati membri; che siano autorizzate dal Consiglio. Solo gli Stati che partecipano alla cooperazione rafforzata hanno diritto di voto e le decisioni prese si attuano solo alla loro legislazione.

Il numero di cooperazioni rafforzate finora realizzate è alquanto ristretto: divorzio e regime patrimoniale di coniugi di nazionalità diverse, brevetto europeo, procura europea e, infine, dal 2013 una cooperazione rafforzata per un sistema comune d’Imposta sulle Transazioni Finanziarie (Tobin tax), è stata istituita tra 11 Stati membri che finora non sono riusciti mettersi d’accordo sulle misure da intraprendere.

Non sono pochi i limiti e le criticità rilevati negli anni sull’istituto delle cooperazioni rafforzate. Il fatto che così poche cooperazioni rafforzate siano state finora realizzate dipende innanzi tutto dalle limitazioni imposte dai Trattati alla loro costituzione. La prima risiede nel numero minimo di Stati membri che la debbono comporre, attualmente pari a un terzo del totale degli Stati UE. Inoltre, il TUE, all’art. 20, prevede il carattere di ultima istanza delle cooperazioni rafforzate, cioè che esse possano essere costituite solo qualora il Consiglio “stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta cooperazione non possono essere conseguiti entro un termine ragionevole dall’Unione nel suo insieme”. Senza contare, poi, che l’art. 329 del TFUE rende nei fatti alquanto improbabile che si stabiliscano cooperazioni rafforzate nel quadro della PESC, prevedendo che in questo caso l’autorizzazione da parte del Consiglio sia concessa con decisione assunta all’unanimità, mentre in tutti gli altri ambiti è sufficiente la maggioranza qualificata.

Oltre a queste difficoltà procedurali, ci sono quelle ben più sostanziose di natura politica che si pongono sia nella fase istitutiva – a testimonianza di quanto sia difficile che in questa Unione ci siano almeno nove Stati membri che su una data materia, non solo la pensino allo stesso modo, ma siano determinati a raggiungere un grado più elevato di integrazione – sia in quella attuativa. In questo senso è illuminante la vicenda della cooperazione rafforzata sull’ Imposta sulle Transazioni Finanziarie (ITF). Nata come volontà comune di reagire alla crisi dei debiti sovrani, dopo l’insabbiamento della Proposta di Direttiva della Commissione per una normativa generale, è rimasta congelata per un decennio perché nel tempo ha prevalso la riluttanza di Francia e Germania a imporre una tassazione che non fosse poco più che simbolica. E questo nonostante le ripetute sollecitazioni del Parlamento Europeo – l’ultima nel maggio 20237 – a procedere sull’ITF attraverso l’esistente cooperazione rafforzata ovvero con una norma di carattere generale.

Quand’anche queste difficoltà fossero superate, sarebbe auspicabile un’ampia diffusione delle cooperazioni rafforzate? C’è chi vede in questo strumento una sorta di soluzione messianica di tutti gli intralci dovuti all’impossibilità di trovare il consenso tra i 27 Stati membri; basterebbe che Francia, Germania, Italia e Spagna – soprattutto dopo le conseguenze politiche ed economiche della guerra in Ucraina (oggi si potrebbe dire anche di quella in Medio Oriente) – si mettano d’accordo e coinvolgano altri Paesi della Zona Euro per abolire il Fiscal compact e i paradisi fiscali esistenti nell’Eurozona, istituire un “Fondo fiscale permanente” – alimentato dall’ITF, che emetta Eurobond – cambiare la politica della BCE (compresa la cancellazione dei debiti degli Stati presenti nel suo bilancio), promuovere, tramite massicci investimenti europei, una politica energetica comune e un new deal verde e sociale, e, last but not least, una strategia autonoma di difesa8. La vicenda della cooperazione rafforzata sull’ITF e le altalenanti relazioni, decisive per ogni tipo d’intesa, tra Francia e Germania, basterebbero a mostrare, anche in questo caso, il carattere di mero wishful thinking di queste posizioni.

Per contro, appaiono fondate le preoccupazioni di chi vede in una eventuale espansione delle cooperazioni rafforzate un pericolo per l’unità politica e giuridica dell’Unione Europea. Per esempio, Giuliano Amato si fa interprete di queste preoccupazioni, seppure da posizioni di europeismo mainstream. “Abbiamo ormai difficoltà a stare insieme, le abbiamo addirittura per le divaricazioni che si sono create fra noi su temi fondamentalissimi come lo Stato di diritto”. Oggi, il vero rischio di moltiplicare le cooperazioni rafforzate è che “quanto più singoli Stati membri percepiranno come necessarie normazioni e decisioni comuni in specifici ambiti, tanto più potrà accadere che a condividere tale necessità siano di volta in volta Stati diversi. Col risultato di dar vita a quella multi-cluster Europe, che in parte – lo abbiamo visto – esiste già oggi, ma che domani potrebbe investire ambiti di governo di particolare rilievo, come quelli sopra ricordati. A quel punto, però, reggerebbe il tessuto comune? Non potrebbero crearsi distanze alla lunga laceranti?”9.

Insomma, per restare nella giostra storica delle definizioni, multi-cluster Europe è un po’ più preoccupante di Europa “a geometria variabile” e un po’ più gentile e, senz’altro, più raffinata di Europa “à la carte”.

Un allarme che non sembra essere preso pienamente in considerazione dal Rapporto del “Gruppo dei 12” che, nonostante alcuni caveat che vanno nella stessa direzione, assegna un ruolo importante alle cooperazioni rafforzate.

Le cooperazioni rafforzate “speciali”

Continuando a parafrasare la tassonomia linneana, al “genere” delle cooperazioni rafforzate possono essere ricondotte alcune “specie” “speciali”.

Ci sono, innanzitutto, i due casi storici di Schengen e dell’Unione Economica e Monetaria (UEM). Il primo nasce nel 1985 con l’Accordo di Schengen, un accordo internazionale tra cinque Paesi (Francia, Benelux, Repubblica Federale Tedesca), divenuto operativo con la Convenzione di Schengen del 1990, sottoscritta via via negli anni dalla maggior parte degli Stati membri. Con il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, e più compiutamente con quello di Lisbona10 , l’acquis di Schengen viene incorporato nel quadro istituzionale dell’UE. Diventa così una cooperazione rafforzata sui generis, chiamata anche “cooperazione rafforzata speciale”, che nasce con una operazione di opting out: Regno Unito e Irlanda se ne tirano fuori. E’, in ultima analisi, una cooperazione rafforzata perché non coinvolge tutti gli Stati membri11 ma è anche una politica comune ormai disciplinata da un Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio UE12.

Anche l’UEM è, in qualche modo, considerata una sorta di cooperazione rafforzata. Essa, infatti, non coinvolge tutti gli Stati membri, tant’è che le decisioni vengono prese solo dai Paesi aderenti. Ma si distanzia sensibilmente dal modello standard delle cooperazioni rafforzate, non solo perché proclamata da un trattato, quello di Maastricht, ma, soprattutto per la motivazione originaria per la quale si è ricorsi a uno strumento di integrazione differenziata. La cooperazione rafforzata ordinaria è la via traversa che cerca di porre rimedio alle divergenze di posizioni e di strategie politiche esistenti tra gli Stati membri, per cui quelli che vogliono una maggiore integrazione su una data materia si mettono insieme; magari altri lo fanno su altri temi. Al contrario, nel caso dell’UEM si indica una strada e un traguardo che tutti (ad eccezione di quelli che fin dall’inizio se ne tirano fuori; oggi solo la Danimarca), sono obbligati a raggiungere, quando saranno maturate le condizioni specifiche di ciascuno Stato13. In sostanza si è applicato il modello dell’”Europa a più velocità”, in cui, come si è detto, è solo una questione di tempo ma prima o poi tutti arrivano allo stesso livello di integrazione.

Un’altra cooperazione speciale è la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) prevista dal Trattato di Lisbona (artt. 42.6 e 46 del TUE) nell’ambito della Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC). Può essere assimilata al “genere” delle cooperazioni rafforzate perché è su base volontaria; infatti, è stata istituita nel 2017 con la partecipazione di 23 Stati membri, diventati via via 26; ultima a entrare, dopo la guerra in Ucraina e lo storico referendum di giugno 2022, è stata la Danimarca. L’unico Paese autoescluso è Malta che, proprio dopo la guerra, insiste nel proclamare la propria neutralità. I risultati della PESCO sono stati finora modesti; c’è una certa riluttanza degli Stati membri a onorare gli impegni presi, come sottolinea lo stesso Consiglio in una sua Raccomandazione del novembre 2022. E ciò, nonostante il livello non elevato degli impegni assunti, visto che le decisioni in ambito PESCO si possono prendere solo all’unanimità. In questo senso la PESCO è ancora più intergovernativa della PESC. Ma proprio per questo non può essere annoverata tra modalità per evitare il diritto di veto e superare l’unanimità.

L’integrazione differenziata in discussione

Tra i propugnatori entusiasti dell’integrazione differenziata e i suoi assoluti detrattori, vale la pena citare due posizioni intermedie. Il Parlamento Europeo, nella sua Risoluzione di gennaio 2019, dedicata all’integrazione differenziata afferma che “sebbene l’integrazione differenziata possa essere una soluzione pragmatica per portare avanti l’integrazione europea, essa dovrebbe essere sfruttata con parsimonia ed entro limiti strettamente definiti, in considerazione del rischio di frammentazione dell’Unione e del suo quadro istituzionale; che il fine ultimo dell’integrazione differenziata dovrebbe essere quello di promuovere l’inclusione e non l’esclusione degli Stati membri”; essa dovrebbe “essere un esempio di integrazione europea più profonda che non escluda nessuno Stato membro da una politica nel lungo termine, e non andrebbe considerata un modo per facilitare soluzioni “à la carte” che minacciano di pregiudicare il metodo unionale e il sistema istituzionale dell’UE”. Afferma anche “che qualsiasi forma di iniziativa di differenziazione che porti alla creazione o alla percezione della creazione di Stati membri di prima e di seconda classe rappresenterebbe un grave fallimento politico, con conseguenze negative per il progetto dell’Unione europea”.

Il “Gruppo dei 12”, ammette l’esistenza dei rischi per la coerenza delle azioni dell’UE e per l’integrità dei principi che la reggono. Per questo raccomanda di utilizzare l’integrazione differenziata nel rispetto di cinque principi: 1. Rispetto dell’acquis comunitario e dell’integrità delle politiche e delle azioni dell’Unione (per esempio, lo Stato di diritto si applica a tutti gli Stati membri, indipendentemente dalle diverse forme di partecipazione); 2. Uso delle istituzioni europee (no a trattati extra UE); 3. Apertura a tutti i membri dell’UE; 4. Condivisione (tra i soli partecipanti all’integrazione) dei poteri di decisione, dei costi e dei benefici; 5. Eventuali defezioni non debbono nuocere al gruppo dei “volontari”.

Nelle sue proposte sull’integrazione differenziata, il “Gruppo dei 12” fa riferimento sia ad azioni che si possono intraprendere a Trattati vigenti sia a quelle, più importanti, da realizzare con la loro revisione. Dal punto di vista dell’assetto “costituzionale” si prefigura un modello d’integrazione a “cerchi concentrici”. Una versione aggiornata di quello a cui Jacques Delors aveva dato lo stesso nome. Ciò che in questa sede interessa rilevare è la concezione del cerchio centrale, chiamato “ristretto” quello delle avanguardie, mentre il secondo è quello degli altri Stati membri dell’attuale UE. Si tratta, in qualche modo di ritornare alla teoria del “nocciolo duro” di Schäuble e Lamers14, che per lungo tempo si è pensato/sperato potesse essere costituito dalla Zona Euro, l’Europa “a due velocità” avversata dagli europeisti classici che hanno sempre pensato che i progressi dell’integrazione dovessero riguardare l’Unione nel suo insieme anche se con velocità diverse, pensando che l’Europa “a due velocità” è meno desiderabile dell’Europa “a più velocità”.

Nella proposta del “Gruppo dei 12” il cerchio ristretto dovrebbe essere costituito dagli Stati membri della Zona Euro e dell’area Schengen, più eventuali altri volontari. C’è da chiedersi se non sia un po’ troppo affollato per essere “ristretto”; quanti ne rimarrebbero fuori? C’è poi la dimensione politica. Come si è detto, il vincolo cooperativo può costituire il cemento politico e istituzionale per caratterizzare un nucleo che dovrebbe non solo essere compatto ma avere come obiettivo principale l’integrazione e l’autonomia strategica dell’Europa? Insomma, una cosa è un “nocciolo duro” costituito attraverso una o più cooperazioni rafforzate, altra cosa è una vera federazione composta da un certo numero, anche limitato di Stati membri, che partecipa come entità unica all’Unione Europea.

Rimane, poi, da misurare l’integrazione differenziata con la sua legittimazione democratica, a cominciare dai poteri del Parlamento Europeo. Non si può ignorare che, per esempio, l’Eurogruppo, con i suoi due Comitati (Comitato di politica economica e Comitato economico e finanziario) è rimasto in una sorta di cono d’ombra della legittimità democratica. Né che una gran parte delle azioni di integrazione differenziata oggi possibili escludono un ruolo effettivo del Parlamento Europeo. A partire da quelle che riguardano la politica estera e la difesa; il che rende parole al vento quelle di tutti coloro che invocano il superamento dell’unanimità nelle decisioni del Consiglio per dare risposta alle urgenze che le guerre ci impongono o addirittura di chi sostiene che la guerra sarà il vero collante della rinascita dell’Europa.

Note

  1. Cfr. Sabato Angieri, Assemblea Generale ONU, sì alla risoluzione sulla tregua. Il Manifesto, 28 ottobre 2023.
  2. Il Rappresentante permanente italiano all’ONU, Ambasciatore Maurizio Massari, ha spiegato l’astensione dell’Italia per l’assenza nella risoluzione di tre affermazioni: la condanna degli attacchi di Hamas, il diritto di Israele all’autodifesa, la liberazione degli ostaggi. Una attenta lettura della Risoluzione porta a concludere che questi tre elementi sono contenuti nel testo in votazione. Si veda a questo proposito il fact checking di Claudio Messora.
  3. Sulle conseguenze nefaste dell’intergovernativismo si può vedere anche: Andrea Amato, Sovranità e democrazia nell’Unione Europea. Transform!Italia, 10.12.2022.
  4. Cfr. Andrea Amato, Il MES e la questione democratica nell’Unione Europea. Alternative per il Socialismo, 66-67, 2023, pag. 94. Ripubblicato su Transform!Italia, 3 maggio 2023.
  5. Cfr. Riccardo Perissich, Decidere a maggioranza nella UE: una questione di coraggio e immaginazione. Aspenia, 12.12.2022.
  6. Le materie di competenza esclusiva dell’Unione sono: unione doganale; concorrenza e mercato interno; politica monetaria nei paesi dell’euro; conservazione delle risorse biologiche del mare; politica commerciale comune; competenza esterna dell’Unione (accordi internazionali).
  7. Vedi paragrafo 18 della Risoluzione del Parlamento Europeo del 10 maggio 2023 sulle risorse proprie.
  8. Cfr. Enrico Grazzini, La strada per rifondare l’Unione europea (alla luce della guerra in Ucraina). Micromega, 20 aprile 2022.
  9. Giuliano Amato, Rischi e opportunità dell’integrazione differenziata UE. EU IDEA, 5 luglio 2021.
  10. Protocollo n.19 sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito del­ l’Unione Europea.
  11. Mancano ancora all’appello: Irlanda, Cipro, Bulgaria e Romania. Per l’Irlanda a causa dell’opting out ancora obbligato per i movimenti con l’Irlanda del Nord. Cipro, che nel luglio 2023 è entrato nel SIS-Sistema d’Informazione Schengen, deve ancora espletare degli adempimenti tecnici, ma il vero problema è il contenzioso con la Repubblica di Cipro Nord. Per Bulgaria e Romania, che hanno adempiuto a tutte le condizioni per l’ingresso, c’è il veto politico di alcuni Stati membri, ufficialmente dalla commistione tra politica e criminalità organizzata, in realtà da preoccupazioni elettorali legati alle migrazioni.
  12. Si tratta del Regolamento UE 2016/399 che istituisce il Codice Frontiere Schengen e successivi Regolamenti di modifica. Un’ultima proposta di riforma del Codice, presentata dalla Commissione Europea nel dicembre 2021, è attualmente oggetto di confronto tra Parlamento Europeo e Consiglio.
  13. I sei Paesi, oltre la Danimarca, ancora fuori dall’Euro sono: Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Ungheria.
  14. L’espressione “nocciolo duro” o “nucleo duro” è stata usata per la prima volta nel dibattito europeo in un documento Riflessioni sulla politica europea, presentato al Bundestag nel 1994 da Wolfgang Schäuble e Karl A. Lamers, a quel tempo rispettivamente Presidente del Gruppo CDU-CSU e deputato della CDU.

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