Interventi

La prima esigenza che avverto nel cinquantennio del Sessantotto è di sottrarlo al mito sia della celebrazione, sia della dannazione.
Della celebrazione come evento irripetibile che chiude un’epoca e ne apre un’altra.
Della dannazione – oggi molto presente – che, viceversa, lo considera la fonte prima dei guasti della società contemporanea: antipolitica, iperindividualismo, saturazione del desiderio nel godimento, damnatio memoriae. Una sorta di eterogenesi dei fini dalle istanze rivoluzionarie alla governamentalità neoliberista.
Per sottrarmi al mito, anzi per contrastarlo, parlerò del “presente del Sessantotto”, come lo definisce Francesca Socrate, in un bel  libro, ricco di testimonianze (Sessantotto. Due generazioni, Laterza 2018).
È, a mio avviso, il solo modo per capire il rapporto tra l’evento e da un lato  le tendenze che l’anticipano, addensandosi, appunto, in un’emersione politica, dall’altro i suoi effetti, il suo perdurare in altre esperienze e movimenti politici.
Mettere a fuoco il presente vuol dire porsi sul versante della soggettività, dell’esperienza vissuta e agita dalle protagoniste e dai protagonisti del Sessantotto. Coglierne i tratti salienti, senza pretendere di portare a coincidenza  il vissuto e gli avvenimenti, ovvero i tratti più oggettivi che lo determinarono (quali, ad esempio, l’allargamento “di massa” dell’Università, la guerra in Vietnam,  in generale il contesto sociale e politico in cui interviene e sul quale influisce).
È questo, del resto, il solo modo per interrogarsi sul rapporto con il femminismo. Un primo legame evidente è che del Sessantotto sono protagoniste donne giovani che saranno la componente numericamente più rilevante del femminismo nei primi anni Settanta.
Questo non vuol dire considerare il Sessantotto come l’origine, politica e culturale, del femminismo. Il “venir prima” non è corretto neppure dal punto di vista cronologico.Il DEMAU, uno dei primi collettivi femministi in Italia, scrive il suo “Il manifesto programmatico” sul “dominio maschile” nel 1966. Il primo atto di separatismo avviene in un’assemblea nell’Università di Berkley, abbandonata dalle donne, per protestare contro “la specificità della condizione femminile”, inserita tra i temi da discutere. Lo ricordo perché il separatismo è la cifra essenziale del rapporto tra Sessantotto e femminismo.
Prima di affrontare questo rapporto, voglio soffermarmi brevemente su ciò che accomuna e distingue donne ed uomini nel loro essere e sentirsi “il movimento”. E lo dico a partire da me.Ho sentito, e sento tuttora, comune ai compagni della mia generazione un vissuto denso di politica. Abbiamo desiderato, amato, detestato, subito, agito, sperato e ripudiato con un’intensità straordinaria, accumulando in un tempo breve esperienze, sentimenti, convinzioni che ci hanno segnato in modo durevole nel bene e nel male.
L’ho definita in uno scritto di diversi anni fa (Le donne e i giovani. I movimenti nell’Italia degli anni Settanta in Con Carla Lonzi, Ediesse 2014) un’esperienza di “felicità pubblica” facendo mia un’espressione di Hirschman (Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino 1982). Qui “pubblico” non sta ad indicare la sfera istituzionale, ma la polis.
Essere dentro il movimento ha voluto dire, innanzitutto nella prima fase decisiva delle occupazioni delle Università compiere un’esperienza esistenziale del tutto inedita, in un intreccio tra vita e politica che spazzava via le forme, gli strumenti ed i significati preesistenti di vita e di politica.
È sufficiente esserci per essere “il movimento”. Ed è una presenza aperta, dai contorni indefiniti, ma anche indistinta poiché non ammette al suo interno differenze.
Questa rimozione attiva, non subita, delle differenze è stata ovviamente cruciale per le donne. Ma non solo per noi. Sono convinta che è stata determinante nell’evolvere della soggettività e dell’esperienza stessa del Sessantotto.
Prima di entrare nel merito vorrei chiarire due aspetti, per me essenziali, sull’intreccio tra vita e politica. Da un lato sulla trasformazione personale di chi ha preso parte a quell’esperienza, dall’altro sulla trasformazione politica del senso della vita e delle relazioni umane.
Il primo è l’antiautoritarismo che io leggo diversamente, ma non in contrapposizione, da Raoul Mordenti e Luigi Ferrajoli. Lo considero infatti  un atto soggettivo di libertà, un’affermazione di autonomia, di chi non può e non vuole più affidarsi all’autorità. Non più affidarsi ai padri: al padre familiare, al padre politico, al padre del sapere. In breve, al padre come figura simbolica, autore della Legge, sociale e simbolica.
È stato un atto che ha tolto credito alle verità acquisite; la mossa decisiva per la critica dell’ordine istituito, preso nella sua complessità e nella sua globalità, come dei progetti per istituire un altro ordine. Ha cioè messo in questione anche i padri della tradizione rivoluzionaria.
Il secondo aspetto è la liberazione sessuale ovvero la scoperta dirompente del desiderio come potenza, appunto simbolica, che trasforma la mancanza in possibilità, in un differente modo d’essere e una differente relazionalità.
Questa liberazione sessuale non ha però avuto lo stesso significato, la stessa possibilità di libertà per donne ed uomini del Sessantotto. Lo esprimono bene alcune testimonianze raccolte da Francesca Socrate: “fare l’amore doveva essere liberatorio”; “era difficile rifiutare”; “dovevi dimostrare di non essere prude”. Carla Lonzi ha definito questa stagione di liberazione sessuale un nuovo imperativo imposto dagli uomini alle donne. Scrive in La donna clitoridea e la donna vaginale: “L’uomo può richiedere un tipo di donna emancipata il cui erotismo si sviluppi confermando le pretese del sesso dominante la cui prepotenza aumenta con l’aumentare della sua libertà”.
Ancora oggi dovremmo riflettere su quanto il dominio si può concentrare in una ideologia ed una pratica sessuale che, in nome della libertà, ripropongono la prevaricazione del piacere maschile ed il bisogno di possesso e di complicità di cui è intriso.
Vengo alla rimozione “attiva” delle differenze a cui ho fatto riferimento, come aspetto essenziale della condivisione di vissuto politico. La definirei una mistificazione dell’uguaglianza, o una pratica retorica dell’uguaglianza, che toglie spazio alle soggettività proprio mentre le suscita e rende protagoniste. Il “Noi” infatti assorbe l’Io, e non fa spazio alla sua differenza. Questa rimozione favorirà, in breve tempo, uno spostamento della politica verso concezioni e pratiche più tradizionali. Finisce, o resta in secondo piano, la politica esistenziale, ovvero  lo straordinario intreccio di vita e politica, e vengono in primo piano altri aspetti: l’organizzazione, gli obiettivi, la visibilità sulla scena pubblica.
Vincono progetto, logica del potere, lotta come manifestazione di piazza e  scontro frontale con il sistema;  viene cioè sopraffatta l’invenzione di un’altra politica, di un altro modo di pensarla e praticarla. Le donne avvertono il contrasto con più intensità degli uomini: “non mi divertivo più”, “si tornava indietro si perdeva la dimensione dei rapporti”.  Sono solo flash, ma le testimonianze raccolte da Socrate documentano in modo sostanziale questo aspetto.
Il separatismo, cioè la scelta delle donne di fare politica tra donne e con donne, avviene in questo passaggio. È cioè pressoché contestuale alla nascita dei gruppi, dei partiti della sinistra cosiddetta extraparlamentare.
Di nuovo, è bene chiarire che i gruppi di autocoscienza non si formano tutti allora, ma il loro diffondersi e coinvolgere la generazione femminile del Sessantotto avviene in quel passaggio. Anzi, per un lungo periodo, negli anni Settanta, il separatismo si esprime nella modalità della cosidetta “doppia militanza”: politica delle donne e politica nei gruppi cosiddetti “misti”, dove  la prima orienta, per le donne, la seconda.
La doppia militanza indica sia un coinvolgimento forte nella politica condivisa con gli uomini, sia che in quel coinvolgimento le donne non trovano risposta alla domanda divenuta ormai centrale: chi sono io donna? Per ripensare il senso della differenza sessuale – essere donna e non uomo – l’uguaglianza non offre infatti risposte.
Si può considerare il femminismo, anche da parte di donne, in rapporto genealogico con il Sessantotto. La lettura più pregante in questa chiave l’ha data Mariella Gramaglia, su “Problemi del socialismo” (n.4, 1968): un venir dopo e andare oltre.
Tuttavia questo venire dopo del femminismo non mi convince. Mi convince di più la lettura di Carla Lonzi, già richiamata da Eleonora Forenza. Dieci anni dopo, nel Settantotto, in una lettera a “L’Espresso” Carla Lonzi  scrive che “per entrare nello spirito femminista le giovani hanno dovuto scardinare non poco le parole d’ordine, i modi e i miti sessantotteschi. È stato malgrado il ’68 non grazie al ‘68 che hanno potuto farlo”.
Non vi è corrispondenza, tanto meno coincidenza, tra la libertà femminile e la lotta di liberazione che la politica del Sessantotto ha espresso. Al contrario, come scrive Lonzi in “Sputiamo su Hegel” (Scritti di Rivolta femminile, 1970) “il problema della donna non si risolve nell’uguaglianza ma prosegue nell’uguaglianza, non si risolve nella rivoluzione ma prosegue nella rivoluzione, il piano delle alternative è una roccaforte della preminenza maschile”.
Noi giovani donne che abbiamo fatto il Sessantotto siamo nate emancipate e cresciute uguali ai nostri compagni: non eravamo discriminate, abbiamo, come ho detto, condiviso con loro esperienze, passioni ed idee. Ma abbiamo anche sperimentato lo scarto tra l’esserci percepite/pensate uguali e l’esserci scoperte differenti.
Negli anni Settanta, apertasi la separazione che non si è più richiusa, il femminismo ha continuato a produrre politica tra donne con la pratica dell’autocoscienza e del partire da sé. Tuttavia nel separatismo ha operato a lungo, come ho già accennato, un rapporto di contaminazione e differenziazione con la galassia di partiti, movimenti, associazioni che nel Sessantotto hanno avuto un comune riferimento. C’è un momento in cui la differenziazione ha prevalso, ed è il Settantasette. Una nuova generazione di donne si separa da quel movimento in modo, se è possibile, ancora più radicale, significando l’incompatibilità fra la loro politica e quella del movimento.
Era possibile un altro esito rispetto a questa frattura? Straordinariamente è proprio Lonzi a parlare di possibile alleanza tra il giovane e la donna.
Il fondamento politico teorico di questa alleanza Lonzi lo nomina come “rifiuto” del padre: “la donna che rifiuta la famiglia il giovane che rifiuta la guerra costituiscono due colossali smentite dell’autorità patriarcale”.
Nell’opposizione alla guerra del Vietnam non c’è solo l’antimperialismo.  Nelle cartoline bruciate dagli studenti nelle Università americane c’è una motivazione pacifista di ripudio della guerra. Il giovane che rifiuta la guerra rifiuta un modello di virilità, ricattatorio per gli uomini stessi, che poggia sull’affermazione della supremazia dell’uomo sull’altro sesso. Ma i giovani sessantottini hanno per lo più ceduto al richiamo dell’alleanza tra maschi nella lotta di massa organizzata anticapitalista. Nell’alleanza con la classe operaia si perdono le motivazioni originarie della rivolta studentesca. Confluiti (e divisi) nei partiti/gruppi, gli studenti si pongono piuttosto come avanguardia delle lotte di classe. Comunque, “studenti e operai uniti nella lotta”  cancella la differenza sessuale. Il giovane abbandona il terreno suo proprio di lotta al patriarcato, e alla sua matrrice antiautoritaria subentra la logica dei rapporti di forza e del potere.
L’alleanza era sembrata a Lonzi possibile, in ragione del taglio operato all’origine del Sessantotto con le forme di soggettività politica della tradizione rivoluzionaria. Quell’alleanza viene mancata quando gli uomini prendono la via della ripetizione: di un’idea di rivoluzione e di un modo di far politica. Di un modo d’essere nei rapporti tra donne e uomini e quindi tra uomini.
Perché l’alleanza fosse praticabile ed incisiva occorreva che gli uomini riconoscessero l’asimmetria tra loro e le donne ovvero che riconoscessero il vantaggio delle donne, perché la rivoluzione femminile ha in sé le condizioni per sbloccare proprio la logica delle false alternative, delle lotte di potere tra uomini che comunque poggiano sulla persistenza del paternalismo e dell’autorità patriarcale.
Gli esiti negativi di quella mancata alleanza segnano in profondità il presente. C’è una reazione e un restringersi rispetto all’affermazione di una differente politica, che si esprime oggi in un ritorno di violenza nei rapporti tra donne e uomini.
La libertà delle donne è infatti andata avanti, ha messo in crisi l’identità maschile. Per superare l’angoscia della perdita di senso, comunque di un fallimento di quel modello di virilità, si diffonde negli uomini il ricorso alla violenza, privata e pubblica. L’aut aut dei rapporti amico-nemico cresce dentro la società; non solo tra l’altro il basso ma orizzontalmente. E si esprime in primo luogo in violenza contro le donne. Diversamente da come è rappresentata nei media e nella poltica istituzionale, la violenza contro le donne non è segno del perdurare, immutato, dell’oppressione tradizionale, ma conseguenza della crisi della virilità e dell’identità maschile. Sul piano politico la logica delle alternative tra il potere appare oggi paralizzata, non sembra più realisticamente praticabile se non nella sua dimensione distruttiva.
La mancata alleanza presenta due rischi, due insidie, per la politica delle donne. Il primo è il separatismo statico ovvero il rinchiudersi nella politica delle donne come ambito esclusivo e circoscritto; il secondo è il mimetismo del maschile. È una tendenza diffusa nella società e nelle istituzioni, incentivata dalla rappresentazione mediatica, promossa da pari opportunità, quote, misure di tutela femminile. In breve l’uguaglianza inclusiva sempre più si riduce a spartizione di poteri e di ruoli.
Ma il femminismo è tuttora generativo di cambiamenti della soggettività femminile e quindi delle relazioni, sia private che pubbliche, in tutti i contesti della società. Possiamo e dobbiamo parlare anzi di femminismi al plurale, purché non vada smarrita la loro matrice comune, quella che consente scambio, anche nel conflitto, dentro la politica delle donne. Questa matrice comune è la presa di coscienza della singola senza la quale la libertà resta un enunciato senza soggetto.
Partire da sé, questo è il principio della politica femminista, non vuol dire restare a sè ma investire il mondo per modificarlo. E il femminismo ha già prodotto mutamenti profondi che consentono di parlare di rivoluzione antropologica.
Non c’è Una teoria e Una politica femminista, nel senso che non c’è un progetto e un programma a cui rifarsi. La sfida è quella di tenere vivo il nesso tra presa di coscienza della singola e significazione comune. Un nesso che, appunto, il Sessantotto aveva praticato e che poi è stato abbandonato.
Una donna che parla a partire dalla consapevolezza che la sua è parola di donna parla a tutte ma non parla a nome di tutte: questa è la matrice della critica femminista alla rappresentanza.
Per me la preoccupazione oggi più forte è che gli uomini non tengano il passo di questa trasformazione, che prevalga in loro la resistenza, nelle più diverse forme, rispetto al mettersi in gioco. Poiché il femminismo è una rivoluzione in atto, mai compiuta definitivamente, senza questo spostamento  maschile sarà più difficile procedere.
Qui il PDF della relazione

3 commenti a “Uguaglianza/differenza, la rottura politica del femminismo”

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