Uscito dal voto del 2018, che espresse una forte maggioranza “populista e sovranista” capace di dare vita al breve governo del contratto, uno dei più produttivi e decisionisti esecutivi della Repubblica, l’attuale Parlamento si dissolve nel segno della decomposizione di ogni legame politico durevole: già 430 cambi di gruppo, nel 2013 furono addirittura 569 le giravolte.
Questo pendolo brusco di aggressivo populismo e rilassato trasformismo, che si attiva nel ciclo brevissimo di una sola legislatura, senza disporsi cioè in un arco temporale più lungo, come è accaduto in altre fasi storiche della modernità italiana, non va interpretato in una maniera superficiale. L’attuale bonaccia trasformista, che accompagna una impressionante ricollocazione al centro di sigle, forze, attori individuali non è la pura e semplice riedizione del nomadismo parlamentare antico, proprio dell’italietta liberale.
I deputati dell’età liberale erano pur sempre i signori assoluti dei loro collegi, i notabili che controllavano nei dettagli i collaudati meccanismi di influenza e in aula disponevano di un potere negoziale autonomo da giocare per ottenere riconoscimenti dagli aspiranti dittatori parlamentari. Gli attuali ceti elettivi, che nel miraggio di un seggio recuperato affollano il grande centro, non vantano alcuna capacità rappresentativa di luoghi, opinioni, interessi. Accorrono in massa al grande centro non in ragione di una deriva individualistica di segno ottocentesco, ma perché spinti da una invisibile, per così dire, forza coalizionale che li attrae in un magnetico disegno aggregativo che sfugge persino ai livelli della piena consapevolezza dei singoli attori.
I tanti peones, che spaesati si spostano da uno schieramento all’altro con il desiderio, sempre più flebile in verità, di una ricandidatura, proprio ricercando di conservare un agognato seggio, impossibile da riacciuffare dopo la drastica riduzione del numero dei parlamentari, concorrono in realtà alla maturazione di un processo centripeto che emana una forza che quasi li trascende. Sono in corso le manovre per la preparazione non di un semplice grande centro dai confini identitari sbiaditi, ma di uno specifico assetto centripeto occupato con il partito unico delle élite ritenute responsabili “e di Governo” perché chiaramente atlantiche nella loro fede.
È quindi un centro di nuovo conio, e pieno di sostanza. Persino denso di ideologia: non dichiara l’ex pizzaiolo in nero, ora transfuga, dopo essere stato ‘capo politico’ del movimento, e però promosso da chi conta a vero esemplare di statista, di essere “dalla parte giusta della storia”? A “macchia di Leonardo” maturano delle significative convergenze atlantiste di spezzoni di ceto politico-economio-mediatico-intellettuale che, in modo trasversale, affluiscono al centro infinito perché attratti alla causa della guerra di civiltà. La guerra ha cambiato le forze in campo e anche una rudimentale sociologia del potere sarebbe in grado di svelare la composizione effettiva del partito unico delle élite atlantiste che spezzano ogni autonomia politico-strategica della vecchia Europa e battono i tamburi di guerra in sintonia con il comandante in capo dell’impero smarrito.
Questo trasformismo nient’affatto calmo non ha niente di rassicurante, perché non indica una semplice disgregazione delle organizzazioni da tempo residuali in una ondata di irreversibile atomizzazione politica. È un trasformismo con l’elmetto che definisce un “patto atlantico” come sostrato di una nuova costituzione materiale, con un partito unico delle élite responsabili autorizzato a stilare liste di proscrizione, a combattere l’analisi critica. Sta maturando una egemonia politico-culturale trasversale che, nell’affollamento centrista, spinge con forza a mutare collocazioni, strategie internazionali nel disegno nitido di approdare alle esibizioni di una guerra infinita che mentre si azzuffa con la Russia prende platealmente le misure dello scontro ineluttabile con la Cina.
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