Il Tribunale delle donne di Sarajevo

Nel 2020, in occasione di una delle tre giornate1 che dedicammo, come associazioni Lesconfinate e “Bosnia nel cuore”, alla storia e alla tragica attualità degli stupri di guerra, ascoltammo alcune “perle femministe” di Staša Zajović2 (Donne in nero di Belgrado) che ci raccontò l’incredibile storia del Tribunale delle donne di Sarajevo: solo le donne, diceva, hanno potuto trascendere il conflitto tra nazionalismi e mettersi insieme, slovene, croate, serbe, bosniache, montenegrine, kosovare, macedoni, dopo una terribile guerra che ha voluto dividerle. Ci sono voluti anni di incontri e di sostegno al coraggio delle testimoni, testimoni delle violenze etniche, dei crimini militari, degli stupri di guerra, che li hanno raccontati nel contesto dei nuovi “Stati-nazione” dove vige spesso l’impunità per i carnefici e la stigmatizzazione delle vittime e delle testimoni. Chiedevano e chiedono, oltre a risarcimenti economici, forme ben più incisive di riparazione simbolica, di giustizia riparativa.

“Le testimoni, dice Staša, sono diventate soggetti di giustizia”. A questo “miracolo” le donne del Tribunale delle donne (Sarajevo 2015) sono arrivate con una lunga preparazione, “non sono state forme assistenziali di sostegno psico-sociale, ma l’autocoscienza, il superamento di ogni forma di risentimento o gerarchia tra donne, la solidarietà femminista a rendere noi donne protagoniste”; “avevamo alle spalle grandi maestre, da Hannah Arendt, alla filosofa Rada Ivecovich che ha accompagnato tutto il nostro percorso”.

«Voi (le donne testimoni) siete i soggetti principali del Tribunale delle Donne. Siete state invisibili per troppo tempo. Nei processi legali formali siete trattate come vittime o come persone che forniscono evidenza legale, ma nel Tribunale delle Donne avete deciso di parlare a voce alta e con il vostro nome, e a modo vostro. Siete diventate testimoni di crimini e violenza, le cui voci ed esperienze non possono più essere ignorate. Siete diventate una parte autentica della storia»3.

Alle loro spalle l’esperienza di quasi 40 tribunali delle donne in Africa, Asia e America Latina4. Tribunali che non emettono pene, ma denunciano ingiustizie, in cui i racconti sono racconti non di sopravvivenza ma di resistenza, in cui le memorie sono alternative ai nazionalismi, anche se, dice ancora Staša: “Siamo lontani da un futuro in cui potrà essere possibile un giorno scrivere libri di scuola comuni su quanto accaduto”.

E fu allora che ci venne in mente un’idea, un progetto. Perché non facciamo un Tribunale delle donne anche qui, a Roma, alla Casa internazionale delle donne? E lo facciamo con quelle donne che più di tutte soffrono violenze e stupri, respingimenti, emarginazione, razzismo… le donne in migrazione.

E così pensammo subito a un progetto, rivolgendoci alle Chiese Valdesi per una approvazione e un finanziamento.

Ci confortò fin dall’inizio la collaborazione con Gabriella Rossetti che in una delle tre giornate5 aveva raccontato e scritto la storia dei Tribunali delle donne.

I tribunali delle donne hanno una storia ormai lunga abbastanza da poter essere considerata come un capitolo della storia delle donne e non solo. Questo avviene in contesti in cui si opera per una giustizia che si dice “nuova”: una storia particolare che nasce dentro e a fianco alle vicende dei Tribunali dei Popoli e a volte anche a ridosso di Tribunali Penali Internazionali ad hoc come è stato il caso della ex Yugoslavia…

I tribunali delle donne sono un movimento e non un’istituzione, perché creati di volta in volta per un caso specifico. Esistono solo se richiesti e organizzati da movimenti, su temi specifici.

Al termine dell’ascolto delle testimonianze, gli esperti emettono un “giudizio” che cerca di individuare le cause più profonde degli eventi ricostruendo i contesti storici, politici e culturali in cui si sono verificati e suggerendo quali cambiamenti si ritengono necessari perché non si ripetano.

Ci sono stati, dagli anni ‘70 ad oggi circa 40 Corti o Tribunali delle donne svoltisi per lo più in Asia e in Africa: quella in Europa, preceduta dal Tribunale delle donne di Bruxelles del 1976, la Corte delle Donne in Sarajevo, lanciata nel 2000 da alcune donne in nero di Belgrado, si attuò solo più tardi, dal 7 al 10 maggio del 2015 e questo ci dice quanto sia stato lungo, travagliato e accuratamente preparato l’esito finale di quel percorso. Tra le più note esperienze, il tribunale di Tokyo sul caso delle comfort women, le “donne di conforto” che venivano assegnate ai militari dell’esercito giapponese durante la Seconda guerra mondiale; l’accusa arrivò, in fasi diverse, a colpire l’imperatore e i governanti e si risolse con il pagamento di un risarcimento alle donne sopravvissute. Quello che viene considerato in realtà il primo tribunale delle donne si tenne a Lahore, in Pakistan nel 1992 grazie a una Corte Mondiale delle Donne (World Court of Women) promossa dal Asian Women’s Human RightsCouncil (AWRC). In questo evento, che ne ispirò molti altri nella regione e non solo, si affrontavano, su iniziativa di movimenti locali, le legislazioni punitive per le donne ispirate a interpretazioni particolarmente rigide dell’Islam. Molti di questi tribunali furono organizzati dall’associazione El Taler, di Tunisi, diretta da una donna indiana, Corinne Kumar, che fu presente per breve tempo anche nella organizzazione del Tribunale delle donne di Sarajevo…

La Corte di Sarajevo si riunisce dal 7 al 10 maggio del 2015. Si cerca di superare le paure: l’indicibilità, l’oblio, il mostrarsi in pubblico, il pericolo di rappresaglie. Si tratta di dare un nome a ciò che si è patito e visto: la violenza etnica, i crimini di guerra, la violenza militare, la mobilitazione forzata, la violenza economica sono presenti nelle voci e nei volti delle donne testimoni.

È una giustizia che cura, ma che serve anche a fare pressione sul sistema legale istituzionale.

In queste storie si è dimostrato che c’è un rapporto di potere che deve essere rovesciato. Il precedente rapporto tra aggressori e vittime si rovescia quando da vittime si diventa protagoniste, ma questo accade solo se si da spazio a un difficile e lungo processo di presenza e accompagnamento, grazie al quale da soggetti dimenticati le donne diventano creatrici di una memoria condivisa collettiva.

Da vittime a testimoni. Un Tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione

Le testimoni possono diventare creatrici di giustizia, scrive Gabriella Rossetti. E il nostro progetto prende forma. Si chiama appunto: “Da vittime a testimoni. Un Tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione”. Scegliamo, come soggetto proponente dove svolgere le principali iniziative, la Casa internazionale delle donne, per il suo ruolo e il suo prestigio. Le partner operative sono Differenza donna e LesconfinatePer Differenza donna partecipano Ilaria Boiano e Teresa Manente; per Lesconfinate, Patrizia Salierno, Isabella Peretti e Gabriella Rossetti6. Insieme cerchiamo le associazioni partner che lavorano con le donne immigrate. Ci rispondono tutte positivamente, da Cisda, Binario 15 e Nove onlus, alla cooperativa Eva di Caserta, alle Donne di Benin city di Palermo, alle Donne brasiliane in Italia, a Bosnia nel cuore, a Trama di terre di Imola. Incontriamo Franco Ippolito e Simona Freudatario della Fondazione Basso, per la loro esperienza del Tribunale permanente dei popoli; ne consegue il pieno appoggio della Fondazione e la collaborazione al progetto.

Prepariamo il progetto, viene approvato con il finanziamento dall’ottopermille delle Chiese Valdesi.

In sintesi gli obiettivi:

  • promuovere il diritto delle donne migranti alla protezione internazionale e a forme di riparazione morale e politica, rispetto ai danni derivanti dal regime dei confini e facilitando il loro inserimento in Italia;
  • istituire un Tribunale simbolico permanente per dare voce alle loro testimonianze sulle violenze subite, rispondendo così a una domanda di giustizia che per lo più non trova spazio nelle procedure vigenti. Il quadro normativo e le politiche attuali in tema di regolazione e controllo dell’immigrazione producono infatti forme di violenza e persecuzioni specifiche nei confronti delle donne che si aggiungono a quelle da cui le donne in migrazione fuggono;
  • creare un Archivio della memoria. Diffondere i risultati in una campagna nazionale anche attraverso un video delle sedute. Promuovere il modello di giustizia riparativa.

In forma più estesa

I tribunali simbolici delle donne – e questo inedito Tribunale sui diritti delle donne migranti – si inseriscono nella tradizione dei Tribunali dei Popoli, nati a partire dagli anni Sessanta con il Tribunale Russell e proseguiti fino a oggi. La giurisprudenza dei tribunali penali internazionali e dei tribunali nazionali non offre rimedio alle conseguenze delle violenze vissute dalle donne lungo le tratte migratorie, pertanto si tratta di definire un paradigma rinnovato di giustizia, secondo una visione femminista, capace di offrire riconoscimento e riparazione. Le donne migranti da “vittime” diventano testimoni e prendono la parola a partire dalla loro esperienza per condividere quanto accade nel mondo, di cui altrimenti non vi sarebbe traccia. La loro memoria diventa testimonianza e quindi storia, che può ispirare riforme legislative in materia di protezione internazionale sia incoraggiando l’esplicita inclusione tra i motivi di persecuzione quelli motivati dal sesso e dal genere, sia per la definizione di procedure interne che proteggano dalla vittimizzazione secondaria.

Il Tribunale contrapporrà ai modelli formali previsti dalle leggi, un contesto informato dalle relazioni politiche tessute tra le donne tutte, in particolare dalle reti di relazione delle associazioni partner del progetto, riconoscendo l’autorevolezza delle loro voci, per superare la fissità dello statuto di vittima derivante dai meccanismi istituzionali. Le esperienze delle donne migranti, silenziate nelle procedure legali, rischiano l’oblio, pur essendo fonti ineludibili per un accertamento dei fatti sul vissuto di ciascuna. Nelle sedute del Tribunale si potrà avvicinare il diritto positivo a tale vissuto. Il Tribunale si propone quindi come luogo di rivoluzione del pensiero, nel solco dell’azione già portata avanti sul territorio italiano dai centri antiviolenza femministi e dalle reti di donne migranti. Inoltre, il presente progetto si propone di creare un Archivio della memoria, nel quale le donne potranno depositare le loro testimonianze, per costruire una risposta di “giustizia”. Nell’Archivio della memoria vi saranno anche le registrazioni audiovisive delle sessioni del Tribunale e degli eventi di informazione e di discussione pubblica come parte della “riparazione” sia sul piano delle storie singole che su quello della storia sociale e politica delle migrazioni e del contrasto alla violenza. Inoltre, l’Archivio conterrà ricerche sulla letteratura e la giurisprudenza, su casi di donne migranti che hanno subito violenza, e la ricostruzione delle loro storie.

La partecipazione delle donne con esperienza di migrazione devono essere centrali nella critica e nella elaborazione, senza però marcare una distanza, ma anzi un continuum tra migranti e native, un continuum nella ribellione, poiché è importante partire dalla consapevolezza che nessun paese è sicuro per le donne,sostengono Ilaria Boiano e Giorgia Serughetti7, che hanno partecipato ai seminari introduttivi, e le violazioni dei diritti umani riguardano tutte e tutti.

È essenziale considerare la violenza come un continuum, dalla partenza, al viaggio, all’attraversamento dei confini fino alla permanenza in Italia. Da qui il titolo donne ‘in migrazione’ che coglie la dimensione della soggettività delle donne che attraversano i confini, mentre la loro stessa mobilità viene negata, respinta e criminalizzata.

La delicatezza che pone la questione etica del passaggio da vittima a testimone non può essere trascurata. È importante lavorare sulla forma di alleanza per non creare paternalismo, ha affermato durante il primo incontro BarbaraPinelli8.

Come si svolgeranno le sedute

Richiamandosi ai riferimenti teorici e storici del femminismo giuridico e alle esperienze dei Tribunali dei popoli e dei Tribunali delle donne, convinte del valore prezioso della pratica della relazione tra donne quale luogo della nascita del proprio sé e di altre possibili interpretazioni del mondo, luogo quindi di rivoluzione di pensiero, all’interno del quale poter immaginare e, persino, realizzare, una dimensione di giustizia femminista ancora non pensata, cominciamo ad organizzare le sedute.

Diversamente dall’esperienza dei Tribunali dei popoli, non sarà predisposto “un atto di accusa”, da corroborare attraverso l’istruttoria.

Si mira a realizzare una dimensione di ascolto, una Commissione di ascolto invece che una Giuria, che superi la dinamica avversariale propria del processo – non sarà predisposto “un atto di accusa”, da corroborare attraverso l’istruttoria – con il compito di identificare, a partire dalle testimonianze assunte, le doglianze individuali, i bisogni rappresentati, la richiesta di giustizia complessiva, con la finalità di delineare prospettive riparatorie individuali, collettive e al contempo occasione di critica delle dinamiche proprie delle procedure tipizzate dai codici (amministrative, civili e penali) che le stesse testimoni potrebbero aver sperimentato.

Le testimonianze. La seduta pubblica prevede l’ascolto di donne che, in ragione della propria biografia individuale, hanno avuto esperienza diretta della rotta migratoria e delle condizioni di vita in Italia, in relazione con le associazioni di donne che hanno esperienza di accoglienza e sostegno.

Il documento conclusivo individuerà le rivendicazioni emerse e le proposte, e sceglierà gli interlocutori internazionali, europei e nazionali.

Le organizzazioni partner del progetto si impegneranno a perseguire gli obiettivi indicati sia sotto il profilo della campagna di sensibilizzazione sia sotto il profilo dell’attività di advocacy istituzionale e legale, senza trascurare le individuali richieste di riparazione, anche in forma di supporto e assistenza legale, emerse per le testimoni durante la seduta pubblica.

Il nostro progetto si prefigge di percorrere il percorso dalle testimonianze singole alle istanze istituzionali, per l’attuazione dei diritti delle donne in migrazione, posti in evidenza dagli stessi casi singoli, investendo le commissioni territoriali, i Tribunali, gli enti locali, il Parlamento e il Governo, nonché le diverse istanze internazionali, con ricadute quindi sul piano giuridico nazionale ed europeo, ma anche sul piano dei diritti universali e del riconoscimento delle violenze subite dalle migranti come crimini contro l’umanità. Mantenere la dimensione simbolica, quindi, ma l’esito del progetto non può essere solo simbolico. Mantenere cioè una doppia dimensione, culturale e simbolica da una parte, ma anche la possibilità di avere uno spazio di advocacy dall’altra.

A chi ci rivolgeremo9

Il nostro progetto riguarda la costruzione di uno spazio in cui possono emergere non tanto le violenze subite, oggetto di ripetute e vittimizzanti dichiarazioni di fronte a vari organi, quanto la personale storia di migrazione e l’impatto con le violenze istituzionali. Si tratta anche di individuare circostanze che integrino la Convenzione di Ginevra, che hanno un risvolto sul piano personale e di genere, perché specifiche sono le forme di persecuzione e perché tutto l’impianto giuridico del diritto d’asilo, internazionale, europeo e nazionale, è complessivamente non rispondente alle donne in migrazione, alle donne in fuga, alle donne senza Stato.

La CEDAW, Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, contesta da una prospettiva femminista molte definizioni del diritto e rileva che in molti Paesi la mobilità interna è vietata alle donne. I Tribunali dei popoli sono Tribunali di opinione, che vogliono informare e sensibilizzare e sono soprattutto tribunali di denuncia di determinate situazioni.

Con questo progetto vorremmo produrre una documentazione sui diversi casi e quindi interloquire con determinati organismi interni e internazionali

Potremmo immaginare di sollecitare l’apertura di un’inchiesta dinanzi al Comitato CEDAW raccogliendo testimonianze su specifiche violazioni di diritti fondamentali delle donne che potrebbero emergere dal nostro lavoro. Secondo me anche solo il fatto di metterci in questa prospettiva ci dà uno schema per inquadrare i casi che vogliamo approfondire; poi comunque manderemo i documenti esplicativi di sintesi. Tutto ciò può anche rappresentare un momento di autoformazione.

La CEDAW esprime quelle che vengono chiamate Opinion Views, perché comunque non siamo davanti a organi giurisdizionali, però la cosa importante è che si tratta comunque di atti che vincolano l’ordinamento e impongono dei cambiamenti importanti. Per esempio adesso il nostro ordinamento sarebbe vincolato a modificare la legge sulla violenza sessuale all’articolo 609bis introducendo la necessità del consenso perché non vi sia violenza, ma dovremo su questo interloquire con la Meloni! La CEDAW potrebbe richiedere una serie di misure concrete di sistema, oltre al risarcimento alla vittima diretta che è stata autrice della communication, però per il nostro progetto il problema è che si tratta di casi singoli che hanno esaurito le vie di ricorso interne, e immaginiamo che nelle vicende che potrebbero emergere durante le sedute previste dal nostro progetto in realtà si tratterà di casi che si sono esauriti con un riconoscimento positivo, l’ottenimento dello status di rifugiato o comunque di un altro titolo. Quello che nelle nostre sedute dovrebbe emergere è la violenza strutturale cui le testimoni sono state sottoposte e forse quindi, come dicevo, la cornice più interessante sarebbe quella dell’inquiry da parte della CEDAW.

Altri riferimenti importanti potrebbero essere le Special Rapporteurs, sempre dall’interno delle Nazioni Unite, esperte nominate nel contesto delle Nazioni Unite e specializzate su base tematica. Noi abbiamo avuto come nostra Special Rapporteur contro la tratta Maria Grazia Gianmarinaro, per esempio. Oggi abbiamo una congiuntura molto favorevole, vi sono due esperte femministe molto impegnate, una sulla violenza di genere e l’altra, Alice Jill Edwards, contro la tortura. È una delle prime che ha scritto in materia di asilo da una prospettiva di genere femminista, in particolare riguardo alla tratta e alle conseguenze che le restrizioni in materia di regolamentazione dell’immigrazione hanno su sulle donne.

A livello europeo, potremmo interloquire con il Gruppo di esperti (GRETA), istituito ai sensi dell’art. 36 della Convenzione del Consiglio d’Europa che monitora la applicazione della Convenzione di Varsavia contro la tratta di esseri umani. All’interno del Consiglio d’Europa però vi sono molti altri organismi tematici che potrebbero essere raggiunti da rapporti da parte nostra, uno di questi è il Grevio,organismo dedicato a monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, dove, ricordiamoci, c’è un capitolo dedicato proprio alla migrazione e all’asilo da una prospettiva di genere, il Capitolo 7. Potremmo eventualmente rivolgersi al Grevio e mandare nostri documenti, nostre considerazioni. C’è anche il Comitato per la prevenzione della tortura, il CPT. Sono tutti questi organismi un po’ ignorati, ma in realtà potrebbero rappresentare un contesto interessante quantomeno di documentazione, perché il nostro Comitato economico e sociale, sempre all’interno del Consiglio d’Europa, che riguarda però, come dice anche la sua denominazione, i diritti sociali. Potremmo capire se dalle sedute emergeranno delle questioni specifiche di discriminazione, di limitazioni nell’esercizio di quelli che sono definiti diritti economici e sociali delle donne migranti ,

Sicuramente potrebbe essere anche interessante immaginare un percorso di denuncia sul tema della discriminazione delle donne nell’accesso ai servizi abortivi sul territorio.

Infine il Comitato per i diritti umani, sempre nell’ambito delle Nazioni Unite, che è stato comunque un riferimento sulla condizione delle e dei migranti.

Questa è un po’ la cornice, abbiamo tanti luoghi a cui rivolgerci. Penso che il la figura delle Special Rapporteurs potrebbe essere quella più utile come cassa di risonanza.

Ragioniamo anche poi sulla possibilità di un eventuale rapporto tematico, uno Shadow Report tematico, dinanzi al comitato CEDAW, perché comunque è prossima la revisione del Rapporto dell’Italia.

Per quanto riguarda invece il contesto nazionale chiaramente siamo in un momento difficile, in cui fatico a trovare dei destinatari che si possano mettere in ascolto, però possiamo ragionarci insieme. Per esempio, rispetto ai respingimenti, ai rimpatri cosiddetti assistiti nei paesi terzi, per esempio dalla Libia verso la Nigeria, potremmo immaginarci qualcosa di concreto dal punto di vista giurisdizionale o forse di attivismo, con le nostre referenti in Parlamento, potrebbe essere interessante la logica dell’interpellanza parlamentare, o addirittura arrivare a disegni di legge, anche se sappiamo che sono un po’ utopici, ma la nostra resistenza sta anche nel sognarci delle possibilità, anche se in questo momento il percorso legislativo è quello meno percorribile, ma pur sempre luogo di denuncia pubblica.

Accade in Italia

La concessione dei visti da parte delle ambasciate italiane nei paesi di partenza e di transito dovrebbe evitare le carrette del mare, ma non accade. Si dovrebbe dare la possibilità legale di venire in Italia e chiedere la protezione in Italia o in altri Paesi europei, ma non accade. Da qui l’ignoranza e la malafede di dichiarazioni di politici , giornali, tv, ecc.. “Sono tutti clandestini!”. Non c’è un altro modo “legale” di arrivare in Italia per chiedere protezione. Solo poco più di 5000 migranti sono arrivati in questi anni in sicurezza con i corridoi umanitari. Tutti gli altri e le altre sappiamo come.

Le violazioni dei diritti: i rimpatri collettivi (soprattutto di migranti tunisini) senza la possibilità di vagliare le situazioni individuali.

I paesi sicuri: oltre alla permanenza nell’elenco per i rimpatri di molti paesi niente affatto sicuri per le donne, rispetto alla violenza domestica o alla tratta, che renderebbe pericoloso il rimpatrio, per esempio Albania, Georgia, Macedonia, Bosnia e Tunisia, e molti altri paesi africani; ora tra i paesi sicuri è stata inserita anche la Nigeria! L’elenco viene predisposto dal Ministero degli Affari Esteri sulla base di schede paese, assolutamente incomplete per quanto riguarda le donne. Su queste basi vengono stabiliti accordi per i rimpatri con i Paesi da cui provengono le/i migranti, le procedure di espulsione vengono così facilitate e accelerate, si fa ricadere l’onere della prova sulla singola/o migrante rispetto alla pericolosità che renderebbe impraticabile il rientro.

È stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge di conversione del D.L. 10 marzo 2023, n. 20, il Decreto Cutro, convertito nella l. 50/2023 per la programmazione dei flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare; qui l’analisi richiederebbe troppo spazio, ma basti ricordare che di fronte alla tragedia di Cutro che riguardava le problematiche dell’asilo, in quanto tutti i migranti provenivano da paesi estremamente insicuri e avevano quindi diritto ad appellarsi alla Convenzione di Ginevra, si risponde con il decreto flussi che riguarda l’ingresso per lavoro. Gravi le conseguenze nelle restrizioni adottate rispetto alle varie forme di protezione internazionale e ai permessi di soggiorno e di lavoro.

Le discriminazioni per l’accesso al welfare:incostituzionalità delle prestazioni sociali con l’esclusione di stranieri se non hanno il permesso di lungo periodo. La questione reddito di cittadinanza, solo per immigrati residenti da più di 10 anni e con permesso di lungo periodo. Giusto per fare qualche esempio.

Ottenere l’asilo. In un recente libro, Le dannate del mare10, si denunciano i respingimenti alle frontiere senza poter chiedere l’asilo, le modalità frettolose e irregolari dei poliziotti negli hotspot nel decidere sulle protezioni, i tempi lunghi per richiedere e cercare di ottenere l’asilo, in genere non si è creduti, bisogna sempre dimostrare, nelle commissioni territoriali, nei tribunali che non si è ‘finti rifugiati’.

“Vige una sorta di essenzializzazione rispetto ai comportamenti delle donne in chiave di nazionalità e di genere; gli stereotipi sulle africane, sulle nigeriane, eritree, somale, la strategia civilizzatrice e il genere etnicizzante con cui l’ideologia bianca assegna determinate caratteristiche di genere ai diversi altri etnici. Il non riconoscimento delle soggettività politiche e quindi delle soggettività individuali e il considerare le migranti vittime e quindi oggetto comporta che siano destinatarie di modelli disciplinari diretti a formare soggettività più moderne ed emancipate: educazione alla cura di sé, dei figli ecc., come ne fossero prive ‘per cultura’, come se migranti e rifugiate non avessero altre interpretazioni e altri modi con cui intendere l’essere soggetto nella storia. Le campagne compassionevoli delle organizzazioni internazionali le rendono accettabili perché impotenti, spogliate della loro storia e quindi ammissibili nell’ordine nazionale”.

Barbara Pinelli

Lo comprovano alcuni dati. Nel 2021 su 53.609 domande di protezione internazionale e 51.931 decisioni delle Commissioni territoriali il 58% sono state respinte respinte in base anche a fattori di provenienza nazionale, senza distinzioni individuali. Il riconoscimento di status di rifugiato concesso agli afghani (93%), somali (96%), iracheni (84%). Dall’altro lato: tunisini (8%) egiziani (16%), bangladesi (19%), pakistani (30%), nigeriani (32%)11.

Le vite vere

Finora vi abbiamo raccontato i presupposti teorici e politici e il programma del nostro progetto. Adesso cominciamo a incrociare le vite vere delle migranti. Il 27 maggio alle 15 alla Casa internazionale delle donne ascolteremo le testimonianze delle donne afghane, a fine giugno a Caserta e in luglio a Palermo quelle delle donne nigeriane; infine a ottobre a Reggio Emilia faremo con le ragazze bangladesi, iraniane, irachene, pakistane un processo al processo Saman, che è tuttora in corso, non per individuare i colpevoli, ma le inadempienze delle forze dell’ordine e dei servizi sociali italiani.

Le donne afghane hanno cominciato a parlarci, in preparazione dell’incontro del 27 maggio. A Madina è andato tutto bene, tranne l’attesa di tre giorni in aeroporto a Kabul, in quella situazione tragica dopo la vittoria dei talebani, e la fuga rocambolesca con un aereo militare italiano. Ha avuto l’assistenza di Nove onlus, e, giunta in Italia, ha avuto l’asilo dopo 4 mesi, l’accoglienza a Bari e poi a Colleferro e oggi ha una borsa di studio all’Università di Roma 3 per un master in Scienze politiche. Dice che non fa più la vita di rifugiata, ma comunque con Nove svolge attività di mediazione con altre rifugiate, partecipa a convegni sulla situazione afghana.

Razia invece è arrivata in Italia passando per l’Iran, ma non rilascia più interviste come forma di protesta contro le carenze gravi dell’assistenza in Italia e il non riconoscimento dei suoi titoli di studio, problema comune a tutte; Batool invece interverrà, perché dice che ha trovato in Italia un altro Afghanistan!

Naid invece ci ha messo 5 anni per arrivare in Germania lungo la rotta balcanica; aveva 12 anni, è passata dall’Iran, poi Turchia, poi per 2 anni è vissuta in un campo profughi in Grecia senza ottenere l’asilo, e ancora in fuga: Albania, Montenegro, Bosnia, e da lì 40 volte il game per l’Europa. Sperimenta la violenza dei confini, soprattutto quello croato. 5 anni di impronte digitali. Ma in Grecia pur giovanissima con altre ragazze come lei diventa attivista dei diritti umani, e continua in tutto il viaggio e ora in Germania la sua denuncia.

Vi racconteremo cosa ci racconteranno il 27, come interloquirà con loro la Commissione d’ascolto, quali indicazioni di rivendicazioni ne emergeranno, quali istituzioni interpellare.

E poi vedremo cosa ci diranno le donne nigeriane sulle esperienze di tratta che hanno subito; cosa ci diranno a Reggio Emilia le compagne di Saman sui matrimoni forzati e sulle loro famiglie, e allora si riaprirà l’antico dibattito sul multiculturalismo e il relativismo, oggi forse ormai superato, perché non sono le Santanché di turno a stigmatizzare le culture altre, ma la ribellione delle giovani che contestano un patriarcato violento che nelle loro famiglie le perseguita anche in Italia, e se ne fuggono via, spariscono dal controllo dei loro familiari, quando fanno in tempo.

Note

1 Isabella Peretti, Patrizia Salierno (a cura di), Tre giornate. Dal Rwanda ai Balcani ai campi libici greci e turchi di detenzione delle migranti. La tragica attualità degli stupri di guerra e la soggettività delle donne, CSV Lazio, 2021.

2 Cfr. Donne in nero, Centro per gli studi delle donne, Belgrado, Il Tribunale delle Donne. Un approccio femminista alla giustizia, edizione italiana a cura delle Donne in nero di Udine.

3 Tribunale delle Donne per la ex-Yugoslavia. Un approccio femminista alla Giustizia, 7-10 maggio 2015, https://www.zenskisud.org/en/pdf/2015/Tribunale%20delle%20Donne%20per%20la%20ex%20Yugoslavia.pdf (ultimo accesso 30 Novembre 2017), pp. 22 ss.. Cfr. anche Marcella Orsini, Donne resistenti, intervista a Stasa Zajović, Mosaico di pace, 7 settembre 2020.

4 Alcuni dei luoghi dove si svolsero i Tribunali delle donne: Lahore, 1992; Bangalore, India, 1994; poi al Cairo, Tokio, Katmandu, Beirut, Pechino, Nairobi, Lusaka, Città del Capo, 2011. Cfr. Donne in nero, cit., p. 88.

5 In Isabella Peretti, Patrizia Salierno (a cura di), cit..

6 Per Differenza donna partecipano Ilaria Boiano e Teresa Manente; per Lesconfinate, Patrizia Salierno, Isabella Peretti e Gabriella Rossetti.

7 Cfr. Ilaria Boiano, Giorgia Serughetti, Donne senza stato. La figura della rifugiata tra politica e diritto, Futura, 2021.

8 Cfr. Barbara Pinelli, Migranti e rifugiate. Antropologia, genere e politica, Raffaello Cortina, 2019.

9 Dalla relazione di Ilaria Boiano – avvocata, Differenza donna (seminario del 14 marzo 2023).

10 Camille Schmoll, Le dannate del mare. Donne e frontiere nel Mediterraneo, AstArte edizioni, 2022.

11 Idos, Dossier statistico immigrazione 2022, p. 125.

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2 commenti a “Un tribunale femminista per i diritti delle donne migranti”

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