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Secondo i dati ufficiali del Ministero della Salute di Ramallah, dall’inizio dell’anno ad oggi, oltre 170 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Questo dato, seppure comprensivo delle 49 vittime dell’ultima operazione bellica condotta ai danni della Striscia di Gaza nell’agosto scorso, denuncia un acuirsi delle tensioni nella Cisgiordania occupata.

A questo, va aggiunto il numero esorbitante di palestinesi, soprattutto giovani e giovanissimi, arrestati dallo scorso gennaio. Secondo la Palestinian Prisoners Society, ONG locale con sede a Ramallah, si parla di almeno 5300 persone, di cui 620 sono minori.

Stando alle parole di Aviv Kochavi, Capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano, migliaia di arresti sarebbero riconducibili alla cosiddetta “operazione Breakwater”, tesa a ridimensionare il fenomeno crescente degli attacchi armati condotti dalla resistenza palestinese su territorio israeliano, direttamente rivolti a coloni armati e militari.

Nonostante la retorica enfatica che caratterizza tutta la narrazione israeliana sulla “sicurezza”, le parole di Kochavi sembrano far trapelare un certo imbarazzo da parte delle autorità di Tel Aviv, incapaci di prevenire e arginare le operazioni messe in atto dalla resistenza.

Kochavi attribuisce direttamente l’aumento nel numero e nell’intensità di tali attacchi alle mancanze dei “meccanismi di sicurezza palestinesi”, che avrebbero condotto alla “ingovernabilità di alcune aree [della Cisgiordania],” divenute dunque “terreno fertile” per quello che Kochavi definisce “terrorismo”.

L’ANP e il Coordinamento per la Sicurezza

Un duplice problema sembra profilarsi per le autorità israeliane: da un lato, le difficoltà nel mantenere la “sicurezza” dei propri cittadini alla vigilia delle elezioni generali del primo novembre, in un quadro già caratterizzato da una forte instabilità istituzionale; dall’altro, l’indebolimento dell’Autorità Nazionale Palestinese.

In effetti, questa ha rappresentato l’interlocutore privilegiato di Tel Aviv proprio sul tema della sicurezza a partire dal 1995, quando, in seguito agli Accordi ad Interim di Oslo, il neonato organismo di rappresentanza, che andava di fatto a esautorare l’OLP, istituiva un Coordinamento per la Sicurezza, che si riproponeva di agire “sistematicamente contro ogni espressione di violenza e terrore”, adottando dunque completamente il linguaggio israeliano in materia.

I palestinesi hanno espresso a più riprese, nel corso della storia recente, il loro disappunto verso questa decisione. La percezione che il proprio governo si facesse, in qualche modo, agente coloniale nella regione e si mettesse al servizio delle priorità della forza occupante scatenò una prima, forte reazione all’indomani degli Accordi, con la Seconda Intifada.

Quel processo fu soffocato con l’ascesa al potere di Mahmoud Abbas, anche detto Abu Mazen, che da allora presiede l’ANP e l’OLP, con alterne fortune ma con incrollabile ostinazione.

I gruppi armati riconducibili a Fatah, partito di maggioranza negli organismi rappresentativi, furono pertanto assorbiti dalle forze “di sicurezza” dell’ANP, generando una calma apparente che non risolveva tuttavia il problema dirimente, l’occupazione, e che quindi lasciava solo che il fuoco covasse sotto la cenere.

Dopo Oslo, Fatah perse il suo carattere rivoluzionario, ma la volontà e la necessità di attuare strategie di resistenza portò alla formazione di nuovi movimenti, che si dotarono anche di gruppi armati e organizzati.

Se per molti anni questo meccanismo ha esacerbato il fazionalismo sul campo, generando lacerazioni e divisioni che hanno attraversato anche il popolo palestinese, e non solamente la sua leadership, da qualche tempo assistiamo a un fenomeno che sembra invertire tale tendenza.

Da Gaza a Jenin, da Nablus a Umm Al-Fateh

Nel maggio del 2021, quello che sembrava un evento “normale” nella triste storia dell’occupazione israeliana sulla Palestina ha aperto scenari che, fino a quel momento, sembravano inattuabili.

Una corte israeliana aveva stabilito che bisognava espellere intere famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata. Per quanto atroce, questa decisione non era dissimile da tante decisioni similari, prese nel corso di una storia fatta di allontanamenti, espulsioni e da un sostanziale “genocidio incrementale”, come dalla brillante definizione dello storico Ilan Pappé.

L’allora governo di Benjamin Netanyahu aveva deciso di accompagnare tali espulsioni con irruzioni militari nella Moschea di Al-Aqsa, anche essa situata a Gerusalemme Est. Anche questo sembrava far parte di una triste, quanto rodata, pratica abituale.

I gruppi di resistenza di Gaza, in particolare Hamas, la Jihad Islamica – entrambi di matrice islamista – e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – di matrice socialista – si coordinavano per rispondere con razzi diretti al territorio israeliano.

Netanyahu rispondeva con una delle operazioni militari più cruente mai messe in atto sulla Striscia di Gaza. Anche questo sembrava, banalmente, un’operazione di routine: l’ex primo ministro, tormentato da vicende giudiziarie e problemi politici, intendeva ristabilire il consenso facendo leva sui sentimenti sempre più estremisti che attraversano il corpo elettorale israeliano.

Quello che non ci si aspettava era la risposta unitaria, univoca e molto potente da parte della resistenza palestinese, che non si limitò a manifestarsi a Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania, ma che trascese fino a raggiungere il territorio della ‘Palestina 1948’, attualmente entro i confini israeliani, i campi profughi in tutto il Medio Oriente e le comunità dei palestinesi in diaspora, in quella che viene da molti analisti definita l’Intifada dell’Unità.

Le radici di questo sollevamento popolare sono sicuramente da ricercare anche in avvenimenti precedenti, come la Grande Marcia del Ritorno, che per oltre due anni aveva visto una mobilitazione straordinaria ai confini della Striscia sotto assedio. Ma è forse ancora più dirimente analizzare le possibili ricadute di questa ribellione popolare.

Chi si aspettava un terremoto politico e un rovesciamento immediato dell’Autorità di Abu Mazen sarà di sicuro rimasto deluso. Ma le fiamme hanno continuato a covare sotto la cenere. Alcuni avvenimenti che si sono susseguiti in questi mesi e che sembravano casi isolati, si stanno viepiù rivelando come tasselli di uno stesso puzzle.

Di sicuro, è apparsa sin da subito evidente la “doppia velocità” con cui si muovono il popolo palestinese e la sua leadership. Da un lato, l’immobilismo e l’afasia dell’Autorità Nazionale Palestinese, incapace di dare risposte efficaci e imbrigliata in una fitta rete di relazioni che la pongono, per certi versi, al di là della barricata, agli occhi di un popolo in lotta.

Dall’altro, appunto, il popolo, che chiede azioni forti e immediate. Un popolo costituito, in larga misura, da giovani e giovanissimi che non erano ancora nati ai tempi di Oslo, che non ricordano i fasti della fase rivoluzionaria di Fatah, e che non comprendono le ragioni profonde del fazionalismo che finora ha lacerato la politica palestinese.

Un popolo, inoltre, che non esclude il ricorso alla lotta armata per resistere contro un’occupazione ormai asfissiante e contro quelle che molte organizzazioni non esitano a definire un vero e proprio regime di apartheid da parte di Israele.

Superare l’immobilismo: la Fossa dei Leoni

Che vi fosse un ritorno alla lotta armata con modalità finora inedite era già trapelato dalle intuizioni di alcuni analisti e dall’interpretazione di alcuni fatti di cronaca, in relazione a uccisioni o arresti mirati da parte dell’esercito israeliano e, talora, del Coordinamento per la Sicurezza dell’ANP.

Già nell’agosto del 2021, per esempio, l’analista palestinese Ramzy Baroud scriveva che “i palestinesi sotto occupazione e a lungo repressi sono pronti a ribellarsi e desiderosi di superare nei fatti l’ottuagenario Abbas, il suo corrotto cerchio magico e ogni forma di fazionalismo”. Restava solo da chiedersi, secondo Baroud, “come, dove e quando” questo sarebbe accaduto.

Sicuramente, Jenin e Nablus si sono poste come apripista di un fenomeno destinato ad ampliarsi. Le incursioni militari nei campi profughi delle due città si sono fatti quasi quotidiani; molti leader della resistenza, appartenenti a formazioni diverse – alcuni alle Brigate di Al Qassam, riconducibili ad Hamas, altri alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, riconducbili a Fatah, altri ancora alla Jihad Islamica – sono stati arrestati, uccisi, o inseriti nella lista dei ricercati.

Il 9 agosto, Ibrahim al-Nabulsi, uno dei capi riconosciuti delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, ma anche di questo nuovo movimento trasversale, viene assassinato dopo un’operazione di alto profilo nella Città Vecchia di Nablus, con il lancio di un missile nell’abitazione in cui si era riparato.

In quel momento, Israele ha ancora la percezione di poter controllare i gruppi di resistenza con alcune azioni mirate. Ma i giovani che si riversano nelle strade a protestare contro l’uccisione del loro coraggioso leader non hanno alcuna intenzione di lasciarsi scoraggiare o intimorire. Al funerale di al-Nabulsi, anche detto “Il Leone di Nablus”, è sua madre a lanciare un messaggio sibillino: “Ci sono centinaia di Ibrahim”, la donna aveva detto, sfidando l’occupazione: “Siamo tutti Ibrahim”.

Qualche settimana dopo la morte di Al-Nabulsi, infatti, il gruppo Areen al-Usood (Fossa dei Leoni) rilascia la prima dichiarazione pubblica. Avviene alla cerimonia funebre in memoria di due combattenti, Muhammad Abu Saleh Al-Azizi e Abd Al-Rahman Subh. Il gruppo si dichiara, sin da subito, trasversale. L’analista politico Mohammad Daraghmeh sostiene: “Durante la Prima Intifada (…) ogni fazione aveva il proprio braccio armato. Ora, questo gruppo è trasversale, non appartiene a nessuna fazione specifica”.

Sul campo, e imbracciando le armi, la resistenza palestinese sembra compiere quel salto che non è ancora riuscito alla politica ufficiale: il superamento delle divisioni per lottare uniti contro l’occupazione.

Ribellarsi a “una vita fatta di umiliazioni”

È uno scarto anche generazionale che, come sostiene il New York Times, la breve vita di Ibrahim al-Nabulsi sembra riflettere alla perfezione. Il combattente era, infatti, figlio di un ufficiale dell’ANP, il quale si era ritrovato a lavorare in “coordinamento” con l’occupazione.

“Da padre, era difficile, per me, chiedergli di non farsi coinvolgere (nella lotta armata)”, dice il Colonnello Alaa al-Nabulsi. “Cosa avrei dovuto dirgli? Che era giusto vivere una vita fatta di umiliazioni?”.

È in questa domanda che vanno ricercate le ragioni profonde di una scelta collettiva e coraggiosa che i giovani palestinesi stanno compiendo, e che presenta quei caratteri di organicità, simbolismo e organizzazione sul campo che la rendono un fenomeno decisamente non transitorio. Quando, ad esempio, i soldati israeliani hanno fatto irruzione nel campo profughi di Shuafat, alle porte di Gerusalemme, per arrestare un ricercato calvo, tutti i giovani del posto si sono rasati i capelli, in un gesto audace che è stato emulato anche dai ragazzi palestinesi in diaspora in ogni parte del mondo.

Questi giovani rompono con il passato, ma le loro ragioni sono comprese dai loro padri e sostenute attivamente dalle loro madri, come spesso è accaduto nella storia palestinese. Il motore della resistenza, infatti, è stato spesso in seno alle donne, quelle che ancora prima della fondazione dello stato di Israele avevano imbracciato le armi e abbracciato la lotta contro il colonialismo; quelle che, durante la Prima Intifada, si opponevano con il proprio corpo tra i loro figli e i soldati, incaricati di “spezzare le ossa” dei combattenti secondo una politica precisa ideata da Yitzhak Rabin, che sarebbe passato alla storia, ironia della sorte, come uomo di pace.

Chi fatica a comprendere le ragioni di questo movimento, invece, o quantomeno a controllarlo, sono proprio gli ufficiali dell’ANP che, non a caso, insultano e attaccano le madri di questi combattenti, come ha osato fare Ibrahim Ramadan, governatore di Nablus, definendole “devianti” e suscitando reazioni sdegnate e furiose.

Lo scollamento tra l’ANP e il popolo in rivolta, poi, si è reso particolarmente evidente con l’arresto di Musab Shtayyeh, altro leader della resistenza di Nablus, molto vicino ad Al-Nabulsi, pur provenendo dall’esperienza delle Brigate di Al Qassam. A detenere, tuttora, Shtayyeh non è l’esercito israeliano, bensì le forze del Coordinamento per la Sicurezza. Il popolo palestinese si è sentito, ancora una volta, umiliato, e questa volta non da parte dell’occupazione.

Una minaccia allo Stato

Sul versante israeliano, qualcuno aveva sicuramente sottovalutato la situazione. Di certo, lo aveva fatto Benny Gantz, secondo cui la Fossa dei Leoni non era che un “gruppetto di 30 persone” che sarebbero state facilmente individuate e assassinate.

Altri, forse meno condizionati dalla necessità di sminuire il pericolo incombente alla vigilia delle elezioni, hanno lasciato trasparire timori e imbarazzi.

Ad esempio, Michael Milstein, Direttore del Forum degli Studi Palestinesi al Centro Moshe Dayan, scrive che, “per quanto il numero dei membri (della Fossa dei Leoni) sia ancora limitato, il gruppo ha un notevole impatto sulle strade palestinesi, soprattutto tra i più giovani”.

Se da un punto di vista territoriale, il fenomeno è per il momento relegato alla Cisgiordania settentrionale, Milstein paventa la possibilità di un ampliamento e del sostegno effettivo da parte di altri gruppi. I timori di Milsten non sono infondati. Basti pensare che, il 15 ottobre scorso, la Sala Operativa Congiunta di Gaza, che unisce tutti i gruppi di resistenza, ha dichiarato il proprio supporto alla Fossa dei Leoni e a qualunque altro movimento che combatta l’occupazione israeliana.

In più di un’occasione, poi, le autorità israeliane hanno attribuito ad Abbas la responsabilità dei recenti avvenimenti, sostenendo che il leader e l’ANP abbiano perso il controllo della Cisgiordania. Qualcuno teorizza che si starebbe già lavorando alla sostituzione dell’anziano presidente con una figura persino più legata alla politica del coordinamento per la sicurezza, Hussein el-Sheikh. Questo, però, continuerebbe a determinare uno scollamento tra il palazzo e la strada, tra le ragioni della leadership e quelle del popolo.

Sembra difficile capire questa fase utilizzando le categorie del passato. Forse un’intifada è già in corso, e gli esiti potrebbero essere imprevedibili, anche sul piano delle istituzioni che animano la politica palestinese.

Finora, due militari israeliani sono stati uccisi in operazioni mirate e molti coloni sono stati attaccati e feriti. La risposta israeliana è stata quella solita: assedio dei campi profughi da cui era partito l’attacco, raid, incursioni, arresti e uccisioni.

In buona sostanza, i soliti rituali di quel regime di occupazione e apartheid che non spengono la fiamma della resistenza, ma che, al contrario, la alimentano, come il popolo palestinese dimostra da oltre settant’anni.

*Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.

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