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Chi ha avuto in sorte di visitare fin da giovanissimo Dachau, Buchenwald, Auschwitz e Birkenau è vaccinato per sempre dalla peste dell’antisemitismo. Chi ha vissuto i suoi primi 20 anni a due passi dalla sinagoga di Genova, seguendone a volte i riti del calendario, non può diventare antisemita. Chi è entrato nello storico cimitero ebraico di Carpentras, non lontano da Avignone, profanato nel 1990 da mani neonaziste che ne divelsero le tombe e dissacrarono i corpi, diventa antinazista, non certo antisemita. Come può essere antisemita chi ha amato la ricca letteratura ebraica o il suo insuperabile umorismo? Né può diventarlo chi dal Danubio sale la “scala della morte” di Mauthausen fino al muro dove trova scolpiti i versi di Louis Aragon: “I morti non dormono, non hanno che questa pietra incapace di contenere la folla dei loro nomi. La memoria del crimine è la sola preghiera, visitatore, che ti chiediamo”.

Ma proprio chi è vaccinato dal virus dell’antisemitismo ha il dovere di contribuire a liberare Israele dal ghetto politico in cui si è isolato. Che direbbero Hannah Arendt, Primo Levi, Simon Wiesenthal, Bruno Kreisky in questo Giorno della Memoria? Come giudicherebbero le sofferenze arrecate da Netanyahu e dai suoi ministri alle due popolazioni semitiche che condividono la stessa terra? Dopo l’efferata uccisione di 1.200 ebrei il 7 ottobre scorso, il mondo ha assistito al massacro di 25.000 abitanti di Gaza senza riuscire a fermare la mano di chi citava le pagine più oscure della Bibbia per vendicarsi. Eravamo spettatori ipnotizzati? Così pareva, quasi considerassimo una fatalità ineluttabile radere al suolo città intere con i loro abitanti per “fare giustizia”. Tsahal giustificava la sua brutalità sostenendo che Hamas si faceva scudo dei civili. Se è così, come si spiega allora lo stillicidio di vittime innocenti che prosegue anche negli altri Territori occupati?

I governi israeliani – abituati a 75 anni di impunità – nel 2023 hanno passato il segno. Non sentono il fiato addosso del resto dell’umanità, perché una persistente impunità rende insensibili le coscienze, ottunde la capacità di misurare la gravità di ogni infrazione al diritto delle genti. È noto che Israele non prevede la pena capitale, ma non ne ha bisogno, visto che ha i mezzi per eliminare a distanza, a colpo sicuro, i propri bersagli, indifferente al fatto che assassinare qualcuno in uno Stato estero è un crimine e un’offesa a quello Stato. Senza parlare dei danni che le politiche disinvolte d’Israele arrecano all’Occidente democratico, tacciato di ipocrisia.

Nel 1982 la carneficina di palestinesi inermi compiuta dai falangisti libanesi nel campo profughi di Sabra e Chatila con la complicità dei militari di Sharon non ha lasciato tracce nel dedalo delle viuzze e dei tuguri della periferia di Beirut. Oggi solo un povero memoriale segna il luogo della strage. Non dovrà esser così a Gaza. Per i suoi caduti si edificherà un vero sacrario. In ebraico Yad Vashem significa letteralmente “mano e nomi”. Il memoriale a Gaza dovrebbe chiamarsi in arabo Nasb al-Asmà (“monumento ai nomi”). Poco importa che i recenti bombardamenti abbiano preso di mira e volutamente cancellato l’edificio dell’anagrafe con i suoi archivi. Il Nasb al-Asmà sarà comunque dedicato a tutti i palestinesi uccisi, ignoti e non, molti irriconoscibili e moltissimi seppelliti senza poter nemmeno celebrare i riti funebri sacri alla tradizione coranica.

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