Il solenne discorso di Biden alla Nazione il 31 agosto scorso al termine della caotica evacuazione dall’Afghanistan ha rappresentato molto di più della semplice rivendicazione del successo di un’operazione che, al contrario e a giudizio dei più, è stata una catastrofe organizzativa e un’umiliazione nazionale, conclusasi con un’azione di rappresaglia per la strage perpetrata dall’Isis che ha provocato la morte, oltre che di due presunti terroristi, di una decina di vittime civili, tra cui almeno sette bambini.
Se il discorso fosse stato solo questo – l’elencazione del numero dei voli, delle persone tratte in salvo, delle basi cui sono stati portati – sarebbe stato nient’altro che il tentativo di giustificare un fallimento che ha avuto per Biden anche un costo in termini di popolarità (scesa per la prima volta dall’inizio del mandato sotto il 50 per cento). Dobbiamo supporre che l’anziano presidente fosse alquanto seccato nei confronti dei suoi consiglieri, ministri, vertici militari e dell’intelligence – i vari Sullivan, Blinken, Austin, che lui stesso aveva nominato pochi mesi prima decantandone la competenza e esperienza sul campo – che lo avevano male informato, avevano male organizzato e peggio ancora eseguito i suoi ordini, trascinandolo in questa umiliante débacle.
È probabilmente anche per questo che verso la fine del discorso ha alzato il tiro, dalla evacuazione degli ultimi soldati e dei civili afgani, al senso generale di una occupazione durata venti anni. Deve avere ricordato come nel 2009, dopo già otto anni di guerra inconcludente, i vertici militari avevano convinto un riluttante Obama a disporre la “surge”, cioè un aumento delle truppe di ben 40.000 unità, assicurandolo che così si sarebbe potuto finalmente raggiungere l’obbiettivo della stabilizzazione del paese e della sconfitta definitiva dei talebani. Mentre invece dopo pochi mesi si era ritornati alla casella di partenza e Obama aveva deciso che quando è troppo è troppo e aveva iniziato a ridurre di nuovo, questa volta drasticamente, il numero dei soldati.
Anche Biden deve avere pensato, dopo le ultime previsioni sbagliate dei militari e dell’intelligence (che, ricordiamolo, avevano assicurato che il governo afgano sarebbe rimasto in piedi per altri 18-24 mesi), che quando è troppo è troppo. Da qui l’urgenza nel suo discorso a imparare dagli errori commessi ponendo alcuni precisi paletti per i futuri interventi militari, ma anche parlando al presente, ai suoi ministri e consiglieri oltre che al Paese, alla luce dell’ultimo disastroso episodio della guerra. Vale la pena di citare le sue parole per esteso perché raramente nei discorsi presidenziali si trovano affermazioni così nette e autocritiche tali da configurare una vera e propria innovativa “dottrina Biden”:
“Mentre voltiamo pagina sulla politica estera che ha guidato la nostra nazione negli ultimi due decenni, dobbiamo imparare dai nostri errori. Per me ve ne sono due fondamentali: Primo, dobbiamo svolgere missioni che abbiano obbiettivi chiari e raggiungibili, non obbiettivi che non potremmo mai raggiungere.”
Fin qui sono considerazioni, diciamo così, tattiche, che riguardano lo svolgimento delle operazioni, ma subito dopo viene una più ampia enunciazione della dimensione strategica che riguarda le future decisioni di politica estera e militari:
“Secondo – continua Biden – dobbiamo rimanere concentrati sui fondamentali interessi nazionali per la sicurezza degli Stati uniti. Questa decisione sull’Afghanistan non riguarda soltanto l’Afghanistan. Riguarda la necessità di porre fine ad un’epoca di massicce operazioni militari per ricostruire altri paesi. Abbiamo visto una missione di controterrorismo, il cui scopo doveva essere di porre fine agli attacchi dei terroristi, trasformarsi in una operazione di contro-insurrezione, di costruzione di una nazione, nel tentativo di creare un Afghanistan democratico, coeso e unito – una cosa che nessuno è mai riuscito a fare in molti secoli di storia afghana.”
Dicevamo “dottrina Biden”. Un termine, quello di dottrina, con il quale i giornalisti prima e gli storici poi (raramente gli stessi presidenti) definiscono i pronunciamenti di un presidente che hanno un durevole impatto sulla politica estera e di difesa del paese e ne dovrebbero costituire le linee guida, anche a futura memoria, per il suo successore.
Nel corso della loro storia gli Stati uniti sono passati dall’isolazionismo confacente agli inizi di una nazione giovane (e militarmente debole) all’interventismo proprio di una grande potenza, con una oscillazione tra l’uno e l’altro, ma sempre con una linea di tendenza di crescente interventismo. Nel 1796, all’inizio di questa storia, il discorso di addio di George Washington con il quale mette in guardia la nazione affinché non si faccia invischiare nei giochi (“foreign entanglements”) delle grandi potenze europee costituisce in nuce l’enunciazione di una “dottrina Washington” in favore dell’isolazionismo. Ma solo due decenni dopo, nel 1824, un suo successore, James Monroe, esprime un indirizzo assai diverso (e questa sì verrà dagli storici chiamata “dottrina Monroe”) quando, al fine di arginare le mire coloniali europee sul continente americano, proclama che gli Stati uniti considereranno come “atto ostile” (con tutte le conseguenze del caso) ogni siffatta ingerenza.
Alla dottrina Monroe si aggiunse nel 1904 il cosiddetto “corollario Roosevelt” (Theodore Roosevelt). Il presidente che aveva conquistato Cuba e le Filippine nella guerra contro la Spagna affermava il diritto esclusivo degli Stati uniti a intervenire militarmente nei paesi latino-americani al fine di assicurarne “la stabilità e la prosperità”. Il corollario costituì la base ideologica (a copertura dei molto concreti interessi economici) per un secolo circa di interventi militari e di colpi di stato in quasi tutti i paesi del continente (unica eccezione il Costarica, dove gli Stati uniti non hanno mai inviato le loro truppe e che non a caso è rimasto il più prospero, stabile e democratico dell’intera area).
Dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale la dottrina Truman, enunciata nel 1948 dal successore di F.D. Roosevelt durante la guerra civile greca (1946-1949), allarga la sfera di intervento degli Stati uniti al vecchio mondo. “Gli Stati uniti – dice Truman – appoggeranno i popoli liberi che si oppongono ai tentativi di soggiogarli da parte di potenze straniere o di nemici interni”. Fuor di retorica è un minaccioso avvertimento all’Unione sovietica e ai partiti comunisti a essa legati a non intromettersi nei paesi che l’America considera parte della sua zona di influenza. Nei decenni successivi la dottrina servirà da giustificazione (o meglio pretesto) per i numerosissimi interventi militari, diretti o per il tramite di regimi compiacenti, in tutto il mondo: dalla Turchia, all’Iran, al Vietnam, in Africa, in Medio Oriente, in America latina, qualche volta per puntellare un regime amico, qualche altra per cercare di rovesciare un regime nemico (o percepito come tale).
Finita la guerra fredda e crollata l’Unione sovietica, i successore di Reagan, George H.W. Bush, enuncia una dottrina interventista se possibile ancora più ampia: gli Stati uniti, che sono ora l’unica grande potenza mondiale in un mondo divenuto unipolare, si attribuiscono il diritto/dovere di svolgere la funzione di poliziotto globale al fine di “garantire la pace e la sicurezza ovunque siano minacciate”. Finito il conflitto tra grandi potenze – questa era l’illusione – il ricorso alle armi sarebbe avvenuto sotto forma di operazioni di polizia al servizio dell’umanità. Su questa base ideologica, con la benedizione delle Nazioni unite, Bush padre promosse la guerra del Golfo (1991) contro l’Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, cui seguirono con le stesse motivazioni “benevole” sotto la presidenza Clinton altre guerre “umanitarie” nella ex-Yugoslavia, in Kossovo, in Somalia…
Fino all’11 settembre del 2001 quando, dopo i terribili attentati ad opera di al-Qaeda, l’inesperto presidente Bush figlio di George H.W. (inesperto ma consigliato dagli espertissimi strateghi neo-con) lanciò la “guerra globale al terrorismo” invadendo prima l’Afghanistan e poi l’Iraq e dando la caccia ai terroristi con i metodi più spietati in tutto il mondo. La dottrina Bush consisté nell’affermazione del diritto degli Stati uniti a intervenire unilateralmente e ad esclusivo loro giudizio, anche contro il parere delle Nazioni unite o dei loro alleati, ogni qual volta ritenessero la loro sicurezza o i loro interessi minacciati. La novità era che per la prima volta veniva legittimata una “guerra preventiva”, ovvero un’azione militare sulla base non di una minaccia imminente, ma di una minaccia soltanto supposta. Ovviamente a queste arroganti affermazioni del primato militare americano vennero aggiunte altre giustificazioni di carattere “umanitario” – esportare la democrazia, sviluppare la società civile, liberare le donne dall’oppressione maschile e religiosa e via discorrendo – che rimandavano alla dottrina del buon poliziotto globale di Bush padre. Ma il nocciolo duro dell’uso unilaterale della forza armata per schiacciare l’avversario vero o presunto rimaneva.
L’intenzione del successivo presidente, Barack Obama, era di rovesciare questa dottrina interventista, arrogante e guerrafondaia, proponendo un ritorno al multilateralismo e alla concertazione internazionale. (Fu per questo e non per una qualche specifica azione che nel 2009 gli venne attribuito il premio Nobel per la pace). La sua dottrina (che lui non volle venisse chiamata così perché considerava il termine troppo rigido e dogmatico) venne enunciata in un discorso all’accademia di West Point, sempre nel 2009, e rappresentò un cambiamento radicale non solo rispetto alla dottrina Bush, ma anche rispetto alle numerose precedenti dottrine interventiste con le quali i successivi presidenti avevano allargato a dismisura la sfera di influenza e di ingerenza militare degli Stati uniti. Solo che… la dottrina Obama si fermò alle intenzioni e non ebbe seguito concreto, anche perché contemporaneamente alla sua enunciazione il “Presidente della speranza e del cambiamento” non solo, come abbiamo detto, continuò e allargò la guerra in Afghanistan, ma nella più generale guerra al terrorismo aumentò i micidiali attacchi con i droni e gli omicidi mirati dei presunti terroristi, provocando innumerevoli vittime civili. E inoltre, pur ponendo fine alla pratica della tortura, per ragioni di realpolitik non fece processare i funzionari e gli agenti responsabili per le infamie commesse dall’amministrazione precedente.
Dovevano ancora passare anni, gli anni di Donald Trump, a parole isolazionista ma inconcludente e contraddittorio nei fatti, il quale tuttavia, come già aveva fatto Obama ordinando il ritiro dall’Iraq, aveva concluso gli accordi di Doha per il ritiro dall’Afghanistan prima che la situazione precipitasse, dal momento che era opinione ormai di tutti che la situazione sarebbe precipitata ed era questione non del se, ma del quando.
Poi è andata come è andata e si è arrivati alla “dottrina Biden”, che è non solo la salutare presa d’atto del fatto che la guerra afghana era sbagliata nei suoi obbiettivi e mezzi fin dall’inizio, ma è anche l’ammissione del fallimento strategico di una politica interventista che, in varie forme e con alterne vicende, dura da più di un secolo. Se ora all’enunciazione della dottrina seguiranno fatti concreti è naturalmente ancora tutto da vedere.
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