Femminismo, Internazionale, Politica, Temi, Interventi

Quella di queste settimane non è la prima ondata di protesta contro la Repubblica Islamica. Si ricordano bene le rivolte studentesche del 1999, la mobilitazione verde del 2009 e del 2017, e quella del 2019 per il carovita e il prezzo della benzina. Ciò che le accomuna è la repressione subita da un regime disposto a tutto pur di sopravvivere. Migliaia e migliaia di donne e di uomini, intellettuali, studenti, cineasti, giornalisti, artisti, lavoratori, hanno dovuto affrontare la morte, le persecuzioni, l’esilio.

La straordinaria rivolta, esplosa subito dopo l’assassinio della giovane curda Masha Amini, e le manifestazioni di solidarietà della diaspora iraniana nel mondo segnano però una netta distinzione rispetto alle proteste del passato.

Le donne iraniane sono sempre state ben presenti nelle mobilitazioni a iniziare da quella contro l’obbligo dell’hijab appena due anni dopo la rivoluzione islamica. Stavolta non solo hanno avviato il movimento, ma ne sono il motore trainante e ne rappresentano il fulcro simbolico e politico. Hanno cominciato, sempre più numerose, a camminare in modo pacifico, a viso scoperto e a mani nude per le strade di tante città – non solo a Teheran –, scandendo lo slogan “donna, vita, libertà”. Hanno affrontato la repressione del regime bruciando il velo obbligatorio, quelle che lo portavano per propria scelta, a loro volta, lo hanno strappato unendosi alla lotta, altre si sono tagliate i capelli o li hanno raccolti con un elastico. Gesti che sono stati messi in rete, senza timore, come sfida agli obblighi imposti per legge dalla teocrazia islamica. Gesti diventati simbolici e rilanciati da tante altre donne in ogni parte del mondo. Sono le donne che per prime, partendo da sé, hanno dato la forma della lotta a un insopprimibile bisogno di libertà e hanno così, col loro esempio, coinvolto quegli uomini che sono scesi al loro fianco. Tutte e tutti sapendo di rischiare la vita. Come Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard, giovani di 23 anni condannati per muharebeh, per “inimicizia contro Dio”. Condannati senza processo, senza avvocati, dopo spietate torture. Altri giovani, alcuni minori, sono nella lista dei condannati a morte, anch’essi senza processo. Il bilancio, a oggi, parla di oltre 500 morti, tra cui ragazzi e bambini, e di circa ventimila arresti. Macabri numeri destinati a crescere. La comunità internazionale non può rimandare azioni diplomatiche all’altezza della gravità di quanto sta accadendo, deve premere con ogni mezzo per impedire nuove esecuzioni e per ottenere un controllo indipendente sulle condizioni carcerarie.

La libertà delle donne questa volta è al primo posto. E questo è un fatto storico. Quel desiderio di vivere liberamente, sentire il vento tra i capelli, sorridere, cantare, ballare, baciarsi, è il segno di un cambiamento esistenziale avvenuto e irreversibile. Quando un desiderio di libertà e dignità si accende in modo così diffuso e consapevole, è impossibile reprimerlo. Tanto più quando si accende per le sofferenze accumulate in quarantaquattro anni di oppressione, e quando a esso si uniscono le frustrazioni subite dalle nuove generazioni private di ogni prospettiva. Questa generazione non ha vissuto lo sconvolgimento del ’79, né la guerra con l’Iraq (1980-1988), per l’Iran una guerra patriottica.

Si svela l’inganno delle promesse sociali della cosiddetta rivoluzione khomeinista, e restano invece l’oppressione delle minoranze etniche e religiose, la gravissima crisi economica e del welfare con le profonde diseguaglianze, la corruzione statale, manifestatasi anche nel recente crollo della torre Metropol, la crisi ambientale. Le mobilitazioni di queste settimane nascono da questo retroterra, ma il fulcro dirompente è la richiesta di autonomia e libertà delle donne iraniane che ha preso forme di lotta che continuano a stupirci e a chiamarci a un impegno solidale.

La rottura prodotta da questa lotta e dai suoi contenuti lascerà segni durevoli, qualunque sia l’esito della crisi di quel regime. La notizia di una trattativa con il Venezuela per assicurare un salvacondotto ai suoi massimi esponenti, nel caso in cui fossero costretti alla fuga, darebbe ragione al regista in esilio Babak Payam che, intervistato dal Corriere della Sera, ha detto che il regime è a un bivio e dietro il pugno sanguinario serpeggiano divisioni “sul miglior modo per sopravvivere”. È tutta aperta la discussione sulla transizione (intervista di Farian Sabahi a Riccardo Redaelli a “il manifesto” 10 dicembre).

La morte di Mahsa Amini è stata come una scintilla su un falò e gli apparati repressivi non riescono a spegnere l’incendio. Le proteste che non si placano da tre mesi, si sono rapidamente trasformate in un’onda anti-sistema, che chiede la fine del regime perché non c’è più la speranza che esso possa essere riformato (intervista di Isaac Chotiner a Fatemeh Shamstale, “How Iran’s Hijab Protest Movement Became So Powerful”, The New Yorker, 2 ottobre).

A testimoniare il cambio di ‘natura’ delle manifestazioni, trasformatesi da protesta in “rivoluzione” sta il fatto che dalle piazze e dalle strade le mobilitazioni hanno dilagato, progressivamente, nelle università, nelle fabbriche, nei bazar diventati teatro degli scioperi. Tra tanto coraggio che ha invaso l’Iran, commuove la disobbedienza delle giovanissime ragazze dei licei, ma pure quella di Gohar Eshghi, anziana madre di un giovane blogger ucciso in prigione per aver criticato il regime, che si è filmata mentre si toglie il velo che ha indossato per tutta la vita denunciando chi “uccide per la religione”. È un’onda che attraversa generazioni, strati sociali, formazioni culturali diversi, e unisce le minoranze. Questa convergenza attorno alla battaglia per i diritti umani e la libertà delle donne ha dato al movimento una forza inedita. Non a caso, il regime cerca di minarla agitando la minaccia, di cui al momento non vi è traccia, dell’attacco all’integrità dell’Iran con la richiesta di autonomia curda, o accusando il movimento di essere nelle mani di forze esterne nemiche dell’Iran.

In realtà la Repubblica Islamica sta morendo per gli orrori di cui si è macchiata e per la sua furia misogina. Basti guardare alla perversa ossessione di martirizzare diversamente i corpi: a un uomo si colpiscono le gambe, la schiena, le natiche, a una donna si mira al volto, al seno e ai genitali. Uno sfregio alla bellezza e all’essere donna. Sono queste le scioccanti rivelazioni di un’inchiesta del Guardian fra medici e infermieri impegnati a curare clandestinamente chi rimane ferito nelle proteste ed evita l’ospedale per non essere arrestato.

A fronte di tutto ciò non si è sentita in questi mesi un’adeguata pressione internazionale, solo ora l’Onu ha approvato una risoluzione proposta dagli USA nel Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc) per “rimuovere con effetto immediato l’Iran dalla Commissione sullo status delle donne per il resto del suo mandato 2022-2026” (29 voti a favore – tutti i paesi della Ue –, 8 contrari – Bolivia, Cina, Kazakistan, Nicaragua, Nigeria, Oman, Russia, Zimbabwe – e 16 astenuti. Un passo significativo a cui il regime risponde con la solita accusa agli USA di inaccettabile interferenza.

Purtroppo ragioni geopolitiche e affaristiche prevalgono ancora sulla intransigente difesa della libertà delle donne e dei diritti umani, come dimostra l’aggiramento dell’embargo sulla fornitura di armi dell’Italia all’Iran. Non è neppure d’aiuto l’eventualità che forze estranee al movimento, come i monarchici e i Mojaheddin-e Khalq (Mek), appoggiate da USA e Israele, possano interferire (Farian Sabahi, “il manifesto”, 7 dicembre). Inoltre, è riduttivo osservare la vicenda iraniana con la semplificazione dello scontro di civiltà tra autocrazia e democrazia, come lo scontro tra “due assoluti” (Giuliano Ferrara, “Il Foglio”, 9 dicembre) quando è del tutto evidente che ambedue sono segnate da complessità e contraddizioni. L’Iran è un paese cruciale per gli equilibri regionali e globali, e oggi più di sempre è necessario riflettere sulla sua vicenda con la cautela consigliata da Ida Dominijanni per decifrarla senza i codici e i parametri occidentali (“L’Iran è vicino”, Facebook, 10 dicembre).

Ho l’impressione che in molte analisi non venga valutato in modo adeguato lo spiazzamento prodotto dalla centralità che ha assunto fin dall’inizio il tema della libertà delle donne. Lo dimostra il considerare una debolezza il fatto che questo movimento sia senza un leader, o un partito politico. Si disconosce così quello che invece il femminismo ha colto prontamente, l’efficacia di una pratica di lotta diffusa e auto-organizzata, orizzontale e non secondo una linea di comando all’alto verso il basso, che si esprime nei luoghi più imprevisti e dunque ben più difficile da controllare. È proprio questa modalità che ha impedito alle forze di sicurezza di sopprimere il movimento e far cessare la protesta. Nel 2009, il Governo mise agli arresti domiciliari i leader di quella protesta e, così facendo, ne causò la fine.

Ho avuto maggiore cognizione di causa del cambiamento “rivoluzionario” in atto e dell’efficacia (almeno finora) della pratica di lotta, grazie alla relazione con le donne della comunità iraniana di Firenze, relazione costruita per solidarietà e vissuta con grande senso di ammirazione. Ci inorgoglisce il fatto che il movimento femminista globale è stato il primo soggetto a schierarsi accanto alle comunità iraniane, mentre erano ancora silenti i governi, la politica e le stesse organizzazioni internazionali il cui ruolo è oggi più che mai decisivo.

Il punto di vista delle donne iraniane in lotta nel loro paese e in diaspora può aiutare a capire sia i rischi che le grandi possibilità aperte. C’è in Italia e nel mondo una ricca presenza di studiose, artiste, imprenditrici, attiviste. Anche loro possono illuminarci nella comprensione di come il tratto femminile sia egemonico nelle lotte in corso in Iran. Proprio ciò che continua a sfuggire nella politica ufficiale imbambolata dalla nomina della prima donna Presidente del Consiglio.

Innanzitutto, l’enorme valore della strada pacifica e non violenta intrapresa per liberarsi dalla teocrazia islamica. Il loro atto rivoluzionario è togliersi un pezzo di stoffa dalla testa, camminare per le strade, non è imbracciare un’arma. Scelte di libertà contro le quali è quasi impossibile per il patriarcato di Stato trovare idonee punizioni o contromisure. Ci danno la misura di quanto sia profondo e irrinunciabile il desiderio di autonomia delle donne. Difficile tornare indietro.

La forza che si è messa in gioco, questa è l’altra significativa peculiarità, difficilmente sarà addomesticata, riportata nel buio dell’osservanza dei dogmi oppressivi. Non sarà un processo indolore. Con il rifiuto dell’obbligatorietà del velo il movimento è andato al cuore del sistema politico della Repubblica Islamica. Tale obiettivo non è un “dopo”, né è “una tra le altre” rivendicazioni. All’uso forzato dell’hijab è legata la volontà liberticida sistemica del regime, accettare che divenga una libera scelta equivale, per quel regime, a negare se stesso. Per lo Stato Islamico è una possibilità da scongiurare con la violenza e con nuovi strumenti come prevede il piano statale in preparazione denominato “Efaf (castità) e hijab”, che sostituirà la “polizia morale” con altri mezzi di coercizione e ricatto: sms di avvertimento, blocco dei conti bancari delle donne che non portano il velo. Alcune dichiarazioni del procuratore generale Jafar Montazeri avevano fatto pensare ad un alleggerimento dei divieti, ma un esponente del regime, Hossein Jalali della Commissione Cultura del Parlamento, è stato perentorio: “Non ci sarà alcuna novità sul piano dell’hijab, perché il suo ritiro significa il ritiro della Repubblica Islamica”. Da parte del governo degli ayatollah il messaggio è forte e chiaro: l’hijab è uno dei pilastri della Repubblica Islamica e del programma di intensificazione dell’islamizzazione della società propugnato dall’attuale presidente Ebrahim Raisi. Un programma che ha introdotto la “Giornata Nazionale dell’hijab e della castità”, e un nuovo elenco di restrizioni al codice di abbigliamento, per non parlare della recrudescenza delle confessioni estorte con la forza e la loro messa in onda dalla televisione di Stato. A questo riguardo è da ricordare il caso della giovane scrittrice Sepideh Rashno, arrestata nell’agosto scorso per non avere seguito il codice di abbigliamento, fatta scomparire e in seguito riapparire in televisione per esprimere pubbliche scuse, in un chiaro stato di shock, dopo violenze e torture. Siamo al punto che il rovesciamento della Repubblica Islamica è auspicato perfino da Badri Hossein, sorella della Guida suprema in una lettera pubblica in cui definisce la “rivolta legittima e necessaria”. L’ennesimo magnifico esempio di coraggio e umanità. Abbiamo molto da imparare.

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2 commenti a “Una rivoluzione femminista. Abbiamo molto da imparare”

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