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Ho partecipato come “osservatore europeo” alle elezioni palestinesi tenutesi dopo gli Accordi di Oslo in cui vi fu il riconoscimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Le prime furono le Presidenziali, nel 2005 a poco più di un anno dalla morte di Arafat. Seguirono nel gennaio 2006 le elezioni legislative. Entrambe avrebbero dovuto tenersi molto prima, a cinque anni dagli Accordi di Oslo (settembre 1993), ma le legislative furono ritardate ancor più rispetto alle presidenziali a causa dell’occupazione israeliana ma anche per il timore fondato di una vittoria di Hamas. Le ho seguite entrambe.

Le Presidenziali videro il boicottaggio di Hamas e la vittoria di Abu Mazen con il 60% a fronte di una partecipazione elettorale di circa il 60%. Abu Mazen era indicato come un presidente provvisorio ma, come vuole l’esperienza, non c’è niente di più definitivo di quello che si presenta come transitorio; infatti, è ancora lì a testimoniare la crisi di leadership che affligge la politica palestinese.

La crisi dell’ANP inizia subito dopo il fallimento dei negoziati di pace perché, come vedremo, essi non produssero alcun risultato e, se possibile, con il deteriorarsi della situazione peggiorò anche la vita dei palestinesi. La delegittimazione dell’ANP e di FATAH, il principale partito laico palestinese, ha aperto la strada all’affermazione di Hamas

In effetti Hamas prevalse nelle elezioni legislative che non furono di facile realizzazione, infatti, allora come oggi, il governo israeliano voleva impedire il voto dei palestinesi di Gerusalemme est, negando su di loro qualsiasi giurisdizione dell’ANP. Alla fine, fu trovato un accordo per far votare i palestinesi di Gerusalemme in alcuni seggi speciali, ai margini della città, e una minoranza di loro, in alcuni uffici postali in città, di cui il più noto fu quello di Salah ad Dinstreet, non lontano dalla porta di Damasco. A Gerusalemme, però, era vietato fare propaganda elettorale, in particolare agli esponenti di Hamas.

L’esito di quella elezione legislativa del lontano 2006 mostrò come la vittoria di Hamas fosse abbastanza omogenea nelle diverse aree abitate dai palestinesi. È anche vero che le sensibilità dei cittadini palestinesi erano e rimangono diverse tra gli abitanti di Cisgiordania e Gerusalemme, tra questi e gli abitanti di Gaza e tra tutti questi e i palestinesi di Israele. I governi israeliani che si sono succeduti hanno spesso puntato a farle divenire vere e proprie divisioni. Ciò che sta succedendo in questi giorni dimostra che non vi siano riusciti a causa di una politica, comunque e ovunque, repressiva e discriminatoria.

Che ci fosse un legame particolare tra Hamas e Gaza è altrettanto vero e ben documentato nel libro “Hamas”, scritto nel 2009 da Paola Caridi. È lì, infatti, che nel 1987 nacque la prima “intifada”, quella così detta delle pietre, che partì dal campo profughi di Giabaliya a Gaza City, dove quattro ragazzi morirono dopo essere stati investiti da un camion israeliano. La dinamica dell’incidente convinse che si trattava di una ritorsione volontaria e indiscriminata a seguito dell’uccisione di un cittadino israeliano al mercato. La rivolta partì da Gaza, che era divenuta una vera e propria polveriera, e si diffuse in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Hamas nasce come forza politica proprio in quel cimento e appare da subito più vicino alle sofferenze del popolo e più ferma nel contrastare Israele e la colonizzazione della Striscia, che cesserà solo nell’agosto 2005 ad opera del Primo Ministro israeliano Ariel Sharon.

Dopo la guerra del Kippur, infatti, l’Accordo di pace del 1979 con l’Egitto (primo accordo tra Israele ed un Paese arabo) comportò la restituzione del Sinai in cambio del riconoscimento dell’esistenza dello Stato di Israele ma non la restituzione di Gaza a cui, evidentemente, l’Egitto non era interessato. La popolazione di Gaza che nel 1967 era di quattrocentomila abitanti (per lo più famiglie di rifugiati del ’48), era divenuta nel frattempo di un milione e ottocentomila, a cui Israele aggiunse insediamenti di ottomila coloni posti in modo da rendere ancora più difficile la continuità territoriale interna. Altro errore fatale, che rivela gli intenti punitivi nei confronti dei palestinesi, fu quello di non collegare la striscia di Gaza con la Cisgiordania in modo da segregare completamente la popolazione.

L’anno successivo all’Accordo, il 30 luglio 1980, la Knesset proclamò Gerusalemme, compresa Gerusalemme est, capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele. Questa annessione non venne riconosciuta dall’ONU e dalla gran parte delle Nazioni, che continuano a mantenere le rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv. Questo, fino all’arrivo di Trump, il quale nel dicembre 2017, provocatoriamente e in spregio al diritto internazionale, riconobbe Gerusalemme come capitale di Israele, annunciando il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.

Nel 1993 gli Accordi di Oslo accesero una grande speranza. Tutti ricordiamo la foto storica di Bill Clinton che assiste compiaciuto alla stretta di mano tra Rabin ed Arafat. Gli accordi di Oslo stabilirono il riconoscimento dell’Autorità Nazionale Palestinese e la ripartizione della Cisgiordania in tre aree a differente controllo: la prima, sotto controllo esclusivo palestinese; la seconda con responsabilità civile palestinese ma sottoposta alla sicurezza militare israeliana; la terza ad esclusivo controllo israeliano. Passati cinque anni, si sarebbero dovute affrontare e risolvere le questioni dello“Status permanente” e cioè: il destino di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati (a cominciare da quelli cacciati dalle loro case nel 1948), gli insediamenti coloniali israeliani, gli accordi sulla sicurezza, i confini e le relazioni con i Paesi vicini.

Gli Accordi di Oslo non produssero quel cambiamento tanto atteso, al contrario, nel giro di pochi mesi gli insediamenti illegali in Cisgiordania si quintuplicarono. Lo “Status permanente” rimase lettera morta, salvo, con gli accordi di Oslo 2 del settembre 1995, aver esteso l’autogoverno palestinese a Betlemme, Hebron ,Jenin, Nablus, Qalqilya, Ramallah, Tulkarem e altri villaggi minori.

Quattro mesi dopo, Rabin fu assassinato. Non sapremo mai se con lui vivo le cose sarebbero andate diversamente. Probabilmente no, perché il fallimento era già insito nel fatto di aver rimandato la soluzione di quelle questioni cruciali. Da lì in poi la situazione ha visto un progressivo deterioramento e oggi, addirittura, sembra precipitare. Nel 2000, il fallimento del summit di Camp David mise la parola fine al cosiddetto “processo di pace”.

Non posso farlo qui, ma bisognerebbe tornare sul negoziato del Summit perché la vulgata che è andata per la maggiore è stata quella di un Arafat intransigente che respinse le “generose offerte” del Primo Ministro laburista Barak , succeduto nel 1999 a Netanyahu.

La ricostruzione non è semplice, poiché, non esistono documenti ufficiali, infatti, si mettevano per iscritto soltanto gli accordi raggiunti, tuttavia, esistono testimonianze storiche attendibili che delineano tutto un altro scenario, a cominciare dal libro del 2002 “Le revebrisé” di Charles Enderlin, franco-israeliano e storico corrispondente di France2; a quello di Alain Gresh “Israele-Palestina. Le verità su un conflitto”; e autorevoli testimonianze come quelle del Prof. Menachem Klein1, presente a Camp David come consulente negoziale della delegazione israeliana.

Insisto sul summit di Camp David, perché da lì inizia il disimpegno, nei confronti dei palestinesi, di una parte della sinistra italiana, la quale finge di non vedere cosa succede nella realtà, rifugiandosi dietro la formula “due popoli due Stati”.

Abbiamo parlato degli insediamenti illegali ma dobbiamo aggiungere che dal 2002, sempre ad opera del Primo Ministro Ariel Sharon, partì la costruzione del muro. Il muro detto “della vergogna”, come tanti altri nel mondo, fraziona ancor di più il territorio e “ruba” ancor più terra ai palestinesi, rendendo la loro vita un inferno .La sua lunghezza è di 712 chilometri, tre volte tanto il confine ufficiale ed è per l’88% in territorio esclusivamente palestinese.

Sicuramente sarà capitato ad altri, ma a me è successo, di sentire più di una volta dei palestinesi della Cisgiordania affermare che la loro vita era più facile quando l’occupazione israeliana comprendeva l’intera West Bank; anche perché, gli insediamenti hanno sottratto non solo la terra ma anche l’acqua – che lì è una risorsa oltremodo scarsa e, pertanto, inviolabile per la sopravvivenza della regione – e il frazionamento che – oltre a comportare limiti insopportabili alla libertà di movimento, costringe a subire continui e umilianti controlli ai numerosissimi checkpoint (fissi e mobili) disseminati in tutta la Cisgiordania – vieta ai palestinesi l’uso di infrastrutture dedicate esclusivamente ai coloni.

La seconda intifada parte da Gerusalemme. Subito dopo il fallimento di Camp David: era il 28 settembre 2000 quando Ariel Sharon, capo dell’opposizione e non ancora Primo Ministro, al fine di provocare la reazione palestinese, si reca con una scorta armata a passeggiare sulla Spianata delle moschee, per dimostrare che mai e poi mai Gerusalemme sarebbe stata condivisa. La dinamica è simile a quella odierna; infatti, partita dalle proteste, soprattutto dei giovani palestinesi a Gerusalemme, Hamas ne prende la leadership e così partono i primi razzi Qassam da Gaza su Sderot, la città israeliana più vicina.

La reazione israeliana consiste in due operazioni definite “arcobaleno” e, a poca distanza, “giorni di penitenza”, la prima contro i tunnel sotterranei costruiti da Hamas e le infrastrutture; la seconda contro i miliziani al fine di impedire il lancio di razzi contro Sderot.

Nel 2006 la situazione si aggrava; infatti, l’esercito israeliano rapisce due giovani palestinesi e, per tutta risposta, i palestinesi, sconfinando in territorio israeliano, rapiscono il soldato Gilad Shalit. La reazione non si fa attendere e Israele scatena l’operazione “piogge estive” e, successivamente “nuvole d’autunno”. Nel corso del 2006 vi furono, complessivamente, 660 palestinesi uccisi, di questi: 141 minori, 322 non combattenti, 22 omicidi mirati; 405 a Gaza.

Gli anni successivi saranno terribili. Nel 2007 Israele dichiara Gaza “territorio ostile” e taglia tutte le forniture idriche ed energetiche e chiude ermeticamente la striscia. Una “punizione collettiva”, inumana e inaccettabile, vista la densità di popolazione e la presenza di famiglie e di minori. In quell’anno vengono uccisi a Gaza 290 palestinesi, altri 83 in Cisgiordania contro 7 civili israeliani e 6 soldati.

Il 2008 inizia con un assalto popolare e la rimozione di alcune postazioni di confine al valico di Rafah in comunicazione con l’Egitto, si tratta di migliaia di persone esasperate e stremate che cercano disperatamente l’accesso ad alcuni generi di prima necessità. I soldati egiziani, per ordine del Presidente Mubarak, lasciano che i palestinesi si riforniscano nei negozi egiziani posti sul confine.

A marzo dello stesso anno parte l’operazione “inverno caldo” allo scopo di impedire il lancio di razzi Qassam. Muoiono 455 palestinesi di cui 87 minori contro 18 israeliani. Si intensificano trattative per il “cessate il fuoco” e si raggiunge una relativa calma che porta a un allentamento dell’embargo su Gaza.

Già a novembre lo scenario cambia, l’esercito israeliano entra a Gaza con il pretesto di avere informazioni circa un piano di Hamas per rapire nuovi soldati israeliani. Con l’occasione, 7 palestinesi vengono uccisi in due giorni e l’embargo a Gaza diviene di nuovo totale. I lanci di razzi, in questo caso, hanno ferito 3 persone.

Tanto è bastato a far scattare l’operazione “piombo fuso”, la più terribile. Vittorio Arrigoni è stato uno dei pochi giornalisti a documentarla e il suo appello “restiamo umani”, fa capire quanto fosse indicibile la tragedia a cui ha assistito. Il bilancio parla chiaro: 1400 palestinesi uccisi di cui 900 civili e oltre 500 feriti (anche gravi a causa dell’uso del fosforo bianco) contro 13 israeliani.

L’esercito israeliano, per la prima volta, entra a Gaza via terra e, due giorni prima della fine dell’operazione, durata 22 giorni, attacca la struttura di un’agenzia dell’ONU e distrugge un magazzino contenente decine di quintali di scorte alimentari destinati alla popolazione. In risposta, Israele invia all’Onu un rapporto in cui annuncia un procedimento disciplinare contro due ufficiali responsabili dell’attacco. Niente altro.

Su questi fatti sta indagando la Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e, proprio lo scorso febbraio, i giudici hanno respinto il ricorso di Israele, il cui argomento principale è stato che la Corte non avesse il diritto di pronunciarsi poiché la Palestina non è uno Stato. Non può sfuggire il cinico uso di questo argomento. Anche su Hamas è aperto un procedimento della Corte.

E poi, c’è stata, nel 2014, l’operazione “Margine di Protezione”. Sviluppatasi con la consueta spirale: attacchi isolati da una parte e dall’altra, risposte israeliane sproporzionate, lancio di razzi da parte di Hamas, bombardamenti e invasione di terra da parte di Israele. Risultato: circa 2.300 vittime palestinesi, tra cui più di 500 bambini. Dalla parte israeliana morirono 66 soldati e 5 civili (tra cui un bambino). I feriti: 11.100 palestinesi, 469 soldati e 256 civili israeliani.

Ho voluto ricostruire questi fatti e dare anche conto del numero delle vittime e dei feriti per ricordare quanto sia evidente la sproporzione tra le due parti in conflitto, tuttavia, il ragionamento non può fermarsi ai numeri.

Tornando ai giorni nostri, il fatto che i razzi lanciati da Gaza stiano oscurando, nelle cronache giornalistiche, o nel dibattito al Parlamento europeo, le ragioni dei manifestanti palestinesi contro lo sgombero delle case nel quartiere di Sheikh Jarrah, ripropone il protagonismo di Hamas a fronte della evidente debolezza politica dell’ANP. Ancora una volta, sembra essere Hamas a dettare la strategia; tuttavia, la sua strategia appare principalmente quella di mantenere ed espandere il consenso presso i palestinesi che, prima o poi, dovranno poter votare. E ancora una volta, Hamas viene rafforzata dai ripetuti atti provocatori compiuti da Israele. Una dinamica perversa che è ben sintetizzata dal titolo del quotidiano israeliano Haaretz del 18 maggio 2021: “Netanyahu ha bisogno di un Hamas forte”. Ma non dobbiamo dimenticare che Hamas è il frutto di una lunga storia in cui le responsabilità sono in primo luogo di Israele, ma non risparmiano l’occidente democratico e l’Europa.

Trovo particolarmente grave l’assenza di iniziativa dell’ANP anche perché una delle ragioni del rinvio delle elezioni legislative palestinesi ha riguardato proprio il voto dei palestinesi di Gerusalemme. La negazione del diritto di voto fa il paio con quella del diritto di vivere e di risiedere a Gerusalemme est per le famiglie di Sheikh Jarrah e non può essere derubricata a questione fondiaria o, addirittura come ho sentito sostenere da qualche cronista improvvisato conoscitore di Medio Oriente, di morosità; essa è coerente rispetto all’obiettivo israeliano della cacciata dei palestinesi da Gerusalemme est.

Poca attenzione dei media è data, poi, alle manifestazioni pacifiche che si tentano di svolgere a Gerusalemme e che vengono represse brutalmente con fermi ed arresti. Hamas è un paravento per non vedere neanche quelle?

A questo proposito sono molto interessanti le reazioni americane rispetto ad alcune prese di posizione di esponenti politici europei e, soprattutto, italiani. Mentre Sanders, Ocasio-Cortez e moltissimi altri democratici americani si sono concentrati sulla denuncia degli sfratti illegali a Gerusalemme est, sulla repressione dei manifestanti insieme alla importantissima questione dei finanziamenti e degli armamenti ad Israele, a Roma si indice una manifestazione per la sicurezza di Israele che, più che dai razzi, è minata dalla impossibilità di una convivenza, deteriorata da decenni di vessazioni e discriminazioni. L’abbattimento a Gaza del palazzo dell’informazione,poi, ricorda molto l’attacco della sede dell’agenzia dell’Onu nel 2008 e ha il sapore di un’intimidazione verso la stampa proprio in un momento in cui ci sarebbe molto da documentare.

Certo, dopo le telefonate di Biden a Netanyahu e Abu Masen, ci si stringe il cuore al solo pensiero che le sorti di questa tragedia siano nelle mani di questi ultimi: il primo azzoppato dal responso elettorale e dalle inchieste giudiziarie e l’altro ormai largamente discreditato presso gli stessi palestinesi, anche perché per dodici anni si è sottratto alla verifica democratica del voto. Entrambi da questa situazione possono ricavarne una “tragica stabilità”.

Moltissime sono state in Italia, in Europa e nel mondo le manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, ma certamente quella che si è svolta a Roma a sostegno di Israele mentre a Gaza, con i “bombardamenti mirati” morivano famiglie intere e tanti bambini è stata del tutto singolare soprattutto se si pensa che a Londra, il giorno dopo, degli ebrei ortodossi sarebbero sfilati con al collo la kefiah palestinese. Quanto alla presenta del segretario del Pd alla manifestazione di Roma, la cosa non mi ha stupito. Sono anni che in quel partito si pratica una equidistanza insopportabile e ambigua che si riassume nella logora formula “due popoli due Stati” molto utile a sfuggire dalla realtà e dalla verità.

Ho sempre vissuto con grande disagio l’identificazione tra ebraismo e politica statuale di Israele; non è quello che si rimprovera al fondamentalismo islamico?

Ora le armi tacciono. Molti invocano la necessità di una soluzione politica. Dubito che sia a portata di mano.

Qualche atto di “buona volontà”, tuttavia, potrebbe aiutare almeno a lenire la rabbia e il dolore degli inermi.

Ad esempio la sospensione degli atti provocatori che hanno scatenato le opposte reazioni ed una solidarietà concreta con gli abitanti di Gaza capace di sostenere quella popolazione stremata.

Note

1 Menhamen Klein, Shattering a Taboo: The Contacts towards a Permanent Status Agreement in Jerusalem, 1994-2001. Jerusalem 2001, Jerusalem Institute for Israeli Studies. Citato in Ron E. Hassner, War on Sacred Grounds. 2009. Ithaca: Cornell University Press. p.81 (www.waronsacredgrounds.org).

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