La nuova generazione dei telefoni cellulari è quella, com’è noto, classificata 5G.
La sequenza iniziò nel 1991: dal 2G (c.d. GSM), al 3G (c.d. UMTS), all’attuale 4G (LTE o Long Term Evolution). Quest’ultimo apparecchio ha aperto l’opportunità di sviluppare le app e di accedere in mobilità al World Wide Web: una vera alternativa alla postazione fissa.
Il 5G aumenta la velocità di trasmissione dei dati di 20 volte ed elimina le pause tra un impulso e l’altro, permettendo svariati accessi per singola “cella”, con esiti assai innovativi. È ciò che viene chiamato Internet of Things, vale a dire un’altra età della e nella rete. Siamo dentro la scalata verso la dittatura degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale.
Appare chiaro che non siamo di fronte, dunque, a un modello solo più sofisticato dei precedenti, bensì a una sequenza fondamentale dell’ambiente nominato infosfera. Alla parabola via via discendente dei media classici è seguita – essendone una concausa – la fortuna della rete dell’ultima generazione.
Tramontata a sua volta l’età dell’innocenza, quella dell’inno ingenuo alla purezza e alla libertà anarchica delle relazioni digitali, oggi è in corso una vera e propria lotta per accaparrarsi i principali nodi infrastrutturali del sistema. La portata e la capienza dei canali trasmissivi di una trama divenuta enorme e complessa, in cui dialogano direttamente gli oggetti e non solo gli esseri umani, e nei quali passano quantità abnormi di dati e di audiovisivi, richiedono nuove opportunità.
Non basta, soprattutto quando come in Italia c’è un ritardo storico, la polarità dialettica “fibra-wifi”, ormai insufficiente. Il 5G sembra la manna scesa dal cielo. Infatti, trasforma un telefono, in un terminale multi-piattaforma e cross-mediale. Una componente cruciale del capitalismo delle piattaforme.
Non è uno strumento che connette con modalità punto a punto, perché per natura è destinato ad essere multipoint. Fino a 64 antenne messe insieme.
Ora, di fronte a un’importante scadenza di voto amministrativo, è essenziale chiarire che non ci si può arrendere a una pigra assuefazione al determinismo tecnologico. Vale a dire la tendenza (una delle facce, del resto, del liberismo) a considerare sempre positivo ciò che asetticamente è possibile ottenere dalle cose scientifiche. Costi quel che costi.
Serve, dunque, valutare innanzitutto le conseguenze per la salute delle persone del celebrato 5G. Non se ne parla, forse perché – come già avvenne sugli effetti dell’amianto – un non detto tra i vari operatori impone nei fatti la strategia del segreto. Non si sa, non si deve sapere, come si intitolava una delle famose commedie di Dario Fo e Franca Rame. Neppure si osa svelare l’arcano. Sarebbe praticabile, infatti, un’altra strada meno insidiosa, se solo si investisse in misura maggiore su materiali meno nocivi e se si rivedesse l’entità della calata di antenne. Meglio meno, ma meglio, urlò il famoso bolscevico di una precedente “rivoluzione d’ottobre”. E così la pensano donne e uomini di buon senso.
Si evocano, giustamente, le smart city: le città e le aree territoriali “intelligenti”, declinate sui ritmi e sulle potenzialità delle reti. Serve, però, un piano regolatore, onde evitare che le logiche del profitto e del mercato divorino ogni ulteriore opportunità. I bisogni reali delle persone, il miglioramento dei servizi sociali e la condivisione dei beni comuni vanno collocati in cima all’agenda delle priorità. Le tecniche per la società, non il contrario. Che anatema pronuncerebbero oggi contro Over The Top e Big Tech Norbert Wiener o Alan Turing o Giulio A. Maccacaro o Marcello Cini? La salute è un sacro diritto costituzionale.
Guai a considerare il 5G un mero campo neutro. Al contrario, va indirizzato verso percorsi ad alta intensità democratica, scartando i consolidati sentieri del cinico arricchimento degli operatori.
I principi di cautela e di precauzione sono la bussola del discorso.
Abbiamo in Italia una buona legge sull’inquinamento elettromagnetico (n.36/2001) e un altrettanto ottimo decreto interministeriale (n.381/1998), che sanciscono criteri e tetti da rispettare. Sono tuttora validissimi. In particolare, il limite di 6 Volt/metro per l’esposizione alle fonti radio rimane e deve rimanere.
Purtroppo, il cosiddetto decreto sviluppo (convertito con l. 83/2012) varato dal governo presieduto da Mario Monti aveva già addolcito la misura, allargando lo spazio del calcolo a 24 ore rispetto ai 6 minuti previsti in precedenza. E il Codice delle comunicazioni introdusse nel 2003 la furbata degli “impianti temporanei”.
Da ultimo, vi è stato un insistito tentativo – nel corso della discussione parlamentare sul decreto 77/2021 inerente alla governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza – di alzare il limite a 61 Volt/metro. Si trattava di un emendamento voluto dal gruppo di Italia Viva, bocciato. Tuttavia, come dimostra il documento redatto dall’attuale ministro Vittorio Colao per il precedente esecutivo di Giuseppe Conte, la tentazione cova da tempo sotto le ceneri. Quel testo è finito presto nel dimenticatoio, ma non è escluso che l’offensiva riprenda. Magari riscrivendo il valore a 43 Volt/metro. Le voci corrono.
Ecco perché le elezioni amministrative sono l’occasione per imporre scelte nette. Enti e autonomie locali sono il terminale decisionale, comunque. Tant’è che il comma 6 dell’articolo 8 della citata legge 36 prevede proprio dei regolamenti regionali e comunali, applicativi della norma generale. L’inquinamento va minimizzato, gli algoritmi evocano negoziati. Non sono editti oscuri o divinità pagane.
In sintesi. Gli studi accreditati, ancorché non inducano a certezze definitive, hanno una costante: l’esposizione ai campi elettromagnetici è correlabile a disturbi e malattie degenerative, autoimmuni, in particolare tumori.
Con il dolore e con la morte non si scherza mai.
La tragedia della pandemia ci dà una scossa definitiva: il virus ci ammonisce sui confini della nostra azione. Ed è più importante tracciare il virus rispetto a disseminare antenne.
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