Tra i commenti al risultato elettorale nelle Marche è stata ricordata da molti la frase “Piazze piene, urne vuote” che Pietro Nenni utilizzò per primo dopo la sconfitta elettorale del 1948. Descrive questa frase la delusione di chi prevede e spera in un risultato elettorale coerente con grandi mobilitazioni di piazza e si trova poi a constatare che, invece, le scelte elettorali sono andate in una direzione opposta.
Così oggi qualcuno aveva sperato che alle grandi mobilitazioni popolari a favore della Palestina avrebbe corrisposto nell’urna elettorale un premio ai partiti che si erano espressi a favore di queste mobilitazioni.
Speranza ingenuamente coltivata, ammoniscono i commentatori più esperti, perché, soprattutto in elezioni regionali, il comportamento elettorale è influenzato da interessi e convenienze molto ‘locali’.
Ma la frase “Piazze piene, urne vuote” oggi può avere una ben diversa e più significativa attualità, e molto può dirci non solo sulle urne vuote, ma soprattutto sulle piazze piene.
Proviamo a riscriverla con una opposta relazione di causalità: “Urne vuote, piazze piene”.
Le urne vuote sono, con crescente evidenza quelle disertate da chi non ha votato. Ed è l’astensionismo l’unico, vero vincitore delle ultime elezioni nelle Marche. I numeri dimostrano, come accuratamente spiega Franco Astengo sul nostro sito, che la contesa è stata non fra chi ha preso più voti, ma tra chi ne ha persi di meno. Urne dunque sempre più vuote di schede, con la maggioranza degli aventi diritto che preferisce non votare. Preferisce disertare le urne.
Ed ecco i commentatori più esperti pronti a bollare questo comportamento come il sintomo di una crescente disaffezione verso la politica. Certo, i partiti attuali lo meritano, chiusi come sono nella loro autoreferenzialità, senza più la capacità di interpretare la società, ridotti a comitati elettorali storditi dalla necessità di comunicare quasi esclusivamente sulle piattaforme. Ma, dicono i soliti commentatori esperti, anche chi non vota più non è senza peccato, perché ha deciso di non partecipare, di disertare le opportunità del gioco democratico. Esprime, in altre parole, un colpevole rifiuto della politica.
Ma siamo sicuri che sia così?
Quello che sta accadendo in queste settimane, la straordinaria mobilitazione del 22 settembre, i processi che l’hanno preparata, le manifestazioni che si moltiplicano e crescono per partecipazione e intensità dimostrano in realtà il contrario.
Dentro l’astensionismo crescente non c’è oggi rifiuto della politica ma una forte, inedita, crescente domanda di politica, di una forma diversa della politica che si traduce nelle mille forme di partecipazione e di mobilitazione che stanno riempiendo le piazze a partire dalla giusta causa della Palestina.
Contro il muro di gomma della politica tradizionale, dell’isterilirsi della democrazia parlamentare, della sostituzione della capacità di governo con la “governance” del pilota automatico tecnocratico abbiamo valorizzato, spesso anche al di là dei suoi meriti effettivi, la vitalità della società italiana, dei corpi intermedi ancora esistenti, la rappresentatività sociale del terzo settore e delle sue organizzazioni.
Con la consapevolezza, derivata dall’esperienza, che la sua frammentazione è stato un limite difficilmente superabile, che solo episodicamente ha trovato la forza per conseguire risultati politici, per modificare il corso delle cose.
Quello che sta accadendo in questi giorni dimostra che tale debolezza non è un destino ineluttabile. La domanda di politica espressa da chi, sempre più numeroso, si astiene dal voto esige infatti il superamento di questa debolezza, reclama forme nuove di organizzazione dell’azione politica.
Non più la verticalità di una relazione gerarchica tra rappresentanza politica e società, che si risolve, con le attuali percentuali di astensione, in una espropriazione di rappresentanza da parte dei partiti.
Ma l’orizzontalità delle relazioni tra funzioni politiche diverse e paritarie, che riescono a superare le rispettive parzialità.
Assistiamo oggi nel movimento alla compresenza inedita di occasioni di intersezione e opportunità di convergenza, allo strutturarsi di funzioni organizzative di scopo, a un uso sapiente della comunicazione orizzontale che riesce a sfruttare gli spazi di libertà ancora possibili nell’universo digitale, alla messa in gioco del proprio corpo come risorsa politica. Un allusione a una nuova forma dell’azione politica di cui l’esperienza politica della Flotilla rappresenta uno straordinario laboratorio.
Ma c’è di più: tanto forte e prezioso è il sentimento collettivo che si è generato intorno alla Palestina e all’esperienza della Flotilla, quanto diffusa è la consapevolezza che vada protetto e accudito con cura, come una risorsa comune che può cambiare il futuro. Accogliere e includere anche chi arriva solo adesso. Usare parole comprensibili. Rifiutare il gergo politichese. Metterci la faccia e il corpo. Un vaccino, finalmente, contro il settarismo autoreferenziale?
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