L’Uruguay è la parentesi tranquilla tra i giganti Brasile e Argentina. È il paese più ricco (assieme al Cile) e più laico dell’America Latina, con i partiti politici più vecchi del mondo, il Partido blanco e il Partido colorado. Rinomata la sua stabilità in una regione caratterizzata da grandi passioni e grandi delusioni, «siamo argentini col valium», sentenziò Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano di fama internazionale. Nel Novecento, era la «Svizzera d’America Latina», «un paese piccolo e felice, con istituzioni sociali esemplari» secondo Albert Einstein che lo visitò nel 1925, quando era già presente il divorzio, il divieto del lavoro minorile, i permessi di maternità e le pensioni di invalidità.
È curiosa la storia di questo paesito, come lo chiamano affettuosamente i suoi abitanti, esteso come mezza Italia, ma con meno degli abitanti della Toscana (3,5 milioni contro 3,7), metà dei quali concentrati nella capitale, Montevideo.
«Il nostro padre fondatore, José Artigas, a inizio Ottocento non lottava per l’Uruguay indipendente, ma sognava una federazione delle province del Rio de La Plata, una patria grande. Anche culturalmente non c’erano ragioni perché nascesse uno stato qui, siamo molto simili agli argentini. La storia andò diversamente: la diplomazia inglese sostenne la nascita di uno stato cuscinetto tra l’impero spagnolo e quello portoghese, tra Argentina e Brasile, in una zona chiave per la navigazione dei fiumi che portano al cuore dell’America Latina», spiega a MC Luis Bertola, storico economico presso la Universidad de la República dell’Uruguay.
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