Nessuno di noi avrebbe mai immaginato, un anno fa, che un bene di salute pubblica come il vaccino sarebbe diventato lo strumento più dirimente della diplomazia, la strategia più innovativa di riconfigurazione della geopolitica, in uno scenario mondiale sempre più frammentato, in cui la comunità degli Stati sembra aver irrimediabilmente perduto il senso e la pratica del multilateralismo che serve, in tempo di emergenza pandemica. Nella congiuntura traumatica che stiamo ancora vivendo, sarebbe una grande forma di riparazione l’utilizzo del vaccino come dispositivo per fare la pace, la pace tra Israele e Palestina, o tra India e Kashmir – solo per citare due ferite purulente della storia – in reazione alla pedagogia sanitaria, irriducibile ma razionale, di Covid19. Purtroppo accade l’opposto: la pandemia sociale ed economica, che da un anno accompagna Covid19, incalza le giovani generazioni a manifestare contro l’asfissiante autocrazia di governi corrotti, come in Iraq e Thailandia, e contro regimi militari che sottraggono ogni possibilità di futuro, come a Myanmar, dove ormai si spara anche sui funerali.
Intanto Covid19 continua a imperversare, spronato nella sua colonizzazione da mortifere politiche negazioniste come quelle del presidente della Tanzania John Magufuli, morto a metà di marzo forse proprio a causa del virus che aveva snobbato, o quelle del presidente Bolsonaro, in Brasile. La sua amministrazione è giustamente chiamata in causa con parole forti – genocidio – per via della conta quotidiana degli oltre 2800 decessi registrati da qualche giorno nel paese, ma anche a causa delle epidemiche distruzioni della foresta amazzonica che sono foriere di nuove zoonosi, come se non fosse abbastanza la devastazione del più immenso polmone del pianeta. La evoluzione del virus trova facile terreno anche nelle politiche di sovranismo sanitario (“me first approach”, lo ha recentemente denominato il direttore generale dell’OMS), che sembrano incurabili a un anno e più dall’inizio della pandemia. Ora gli effetti di questa sindrome nazionalista, che risponde a calcoli politici di breve gittata, ma rallenta non poco il controllo del coronavirus, si esprime nella gestione dei vaccini.
Delle oltre 225 milioni di dosi iniettate nel mondo all’inizio di marzo, la gran parte è stata somministrata in un manipolo di paesi ricchi in grado di produrre o di pagare i vaccini, sotto gli occhi dei paesi a medio a basso reddito, in fila per la propria fiala. Le prime dosi di vaccini AstraZeneca prodotti su licenza in India nel quadro del programma Covax sono arrivate in Ghana, Costa d’Avorio e Colombia all’inizio di marzo, ma il miracolo della scienza non ha ancora lambito nazioni duramente colpite dal virus, il cui esordio turbolento prosegue a ondate cicliche. E con esso le varianti, che aumentano con la circolazione del patogeno, senza che vengano minimamente sequenziate nella gran parte dei paesi in cui il virus si manifesta. È peraltro notizia degli ultimi giorni che l’India ha interrotto le esportazioni di vaccini anti-Covid19 per rispondere all’escalation dell’infezione tra la sua popolazione. Serum Institute, la più grande azienda produttrice di vaccini al mondo e che opera attualmente su licenza di AstraZeneca (550 milioni di dosi entro il 2021) nel quadro del programma Covax, ha dovuto fermare l’invio dei vaccini ai paesi poveri che aveva appena cominciato. Covax è la componente vaccinale dell’ACT-Accelerator, la sola iniziativa multilaterale sotto l’egida di Oms, Banca Mondiale, Commissione Europea e Fondazione Gates per favorire ricerca e accesso ai rimedi contro Covid19: con impegni anticipati di acquisto dai 92 paesi che vi partecipano, Covax offre l’accesso agevolato ai vaccini nei paesi a basso reddito, e finora ha inviato 32 milioni di dosi a 63 paesi che partecipano nel programma. Covax non può reggersi in piedi senza lo sforzo produttivo dell’India.
Non ci sono dubbi che l’arrivo del vaccino anti-Covid19 alla fine dell’indimenticabile anno 2020 definisca una svolta assoluta nella storia della medicina. Mai prima si era vista una simile attivazione contro il medesimo agente patogeno. Sia nel mondo occidentale che in Russia e Cina – i tre maggiori poli di ricerca e produzione dei vaccini contro SARS-CoV-2 – i nuovi rimedi sono stati scoperti e prodotti con una velocità inaudita – 10 mesi invece dei classici 10-12 anni – e spesso con un’efficacia che lascia semplicemente allibiti, oltre il 90%. La corsa al vaccino ha messo a confronto due modelli di politica industriale completamente diversi. Quello di Stati uniti ed Europa poggia sul ruolo delle case farmaceutiche e la forte leva che queste esercitano sui governi. Quello di Russia e Cina è improntato a una sorta di capitalismo di stato e al protagonismo indiscusso del settore pubblico sia nella ricerca che nella produzione farmaceutica. In entrambi i casi è stato il finanziamento pubblico che ha agito da leva per attivare la rotta senza precedenti. La garanzia di significativi fondi pubblici ha di fatto rivoluzionato gli studi clinici e permesso l’incredibile accelerazione dei processi scientifici, che per la prima volta sono stati organizzati in fasi di studio parallele e non in successione. La kENUP Foundation, una non-profit europea che monitora la ricerca in ambito sanitario, rivela che in 11 mesi il settore pubblico ha investito 93 miliardi di dollari; di questo colossale impegno finanziario il 95% è stato destinato ai vaccini, e il 5% ai farmaci e diagnostici.
Proprio per questo straordinario impegno di investimento, a voler citare di nuovo il direttore generale dell’OMS, “le normali regole di business che proteggono i profitti dei produttori di vaccini devono essere messe da parte, se vogliamo conseguire una immunizzazione globale”. Il valore incommensurabile dei vaccini in questa congiuntura richiede approcci alla portata della sfida pandemica. In questa ottica, assai ragionevole è la richiesta di moratoria dei diritti di proprietà intellettuale (IP Waiver) in campo farmaceutico formulata da India e Sudafrica in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) lo scorso ottobre. La proposta punta a rimuovere, almeno durante la pandemia, i monopoli brevettuali fissati dall’accordo TRIPS che dal 1995 limitano la diffusione della conoscenza scientifica. La questione, venuta alla ribalta all’inizio del nuovo millennio con il virus HIV/Aids, è una delle dorsali più simboliche della patogenesi della globalizzazione, nel senso che l’incentivo brevettuale per le innovazioni industriali su scala globale incarna un regime di esclusiva della durata di venti anni, esiziale nel caso dei farmaci salvavita. La proposta di India e Sudafrica, forte dell’appoggio di 100 governi in seno all’Omc, nonché del sostegno di agenzie ed esperti dell’ONU (Oms e Unaids), del Vaticano, di movimenti sindacali e politici, di oltre 400 organizzazioni della società civile mondiale, tiene banco a Ginevra e in molte capitali europee, dove si tenta in tutti i modi di aprire una breccia nel muro di opposizione della Commissione europea. La Commissione, con USA, Canada, Norvegia, Giappone, Brasile e Australia, difende a spada tratta i monopoli delle aziende detentrici dei brevetti, da cui oggi dipende per l’approvvigionamento dei vaccini. Inoltre questi governi non sono inclini a cooperare per colmare il gap di know-how tecnologico che esiste rispetto a eventuali paesi a medio reddito i quali – con qualche passaggio di acquisizione della capacità tecnologica in ambito farmaceutico – potrebbero diventare concorrenti di mercato. Uno statement politico a favore della sospensione della proprietà intellettuale durante Covid19, lanciato il 25 marzo, è stato sottoscritto da oltre 300 parlamentari in Europa – fra questi 105 europarlamentari e 50 parlamentari nazionali. Anche importanti settori della comunità scientifica – tramite The Lancet e Nature – hanno preso posizione a favore della proposta di liberalizzazione della scienza.
La gestione proprietaria della conoscenza su cui poggia la ricerca scientifica da 25 anni a questa parte è agli antipodi dello sforzo di intelligenza collettiva che serve per fronteggiare SARS-CoV-2. Mentre esaltiamo i risultati della scienza nel 2020, non riusciamo a immaginare gli esiti nella lotta alla pandemia che si sarebbero potuti conseguire se gli scienziati di tutto il mondo avessero condiviso know-how, segreti industriali e dati della filiera scientifica, le piste tecnologiche già battute, per combinarle creativamente e generare un portafoglio di candidati vaccini con le caratteristiche più adatte a debellare il nuovo coronavirus. Ma è difficile eludere la portata del problema. Nella sua dura ma razionale pedagogia, SARS-CoV-2 impone un serio ripensamento del controllo industriale da parte del settore pubblico in ambito sanitario, e un ancor più serio ripensamento sul sistema di produzione della conoscenza, che deve essere condivisa e impostata su presupposti di collaborazione, se vogliamo affrontare la nuova era pandemica con cui saremo costretti a cimentarci. Oltre la retorica, il “vaccino bene comune” è la grande sfida della politica intorno a Covid19, se vogliamo puntare al nuovo futuro di sostenibilità del pianeta.
Qui il PDF
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.