Ancora una volta, a pochi mesi di distanza dalle ultime modifiche normative, ci troviamo a confrontarci con nuove proposte di riforme legislative che riguardano la giustizia e, nello specifico, il tema di prevenzione della violenza di genere nei confronti delle donne1.
Le modifiche normative proposte
Nello specifico, i disegni di legge in discussione ritornano sullo strumento dell’ammonimento del questore, misura amministrativa che può essere adottata sia d’ufficio che su richiesta della persona offesa, introducendo la procedibilità d’ufficio e un aumento di pena nei confronti di soggetto che reiteri le condotte di reato punite dagli articoli 581 (percosse), 582 (lesioni personali), 610 (violenza privata), 612, secondo comma, (minaccia grave), 614 (violazione di domicilio) e 635 (danneggiamento) c.p..
Nelle proposte di legge si amplia inoltre l’ambito oggettivo di applicazione degli obblighi informativi alle vittime di violenza da parte delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche.
Si propongono modifiche al Codice antimafia, da un lato, estendendo l’applicabilità, da parte dell’Autorità giudiziaria, delle misure di prevenzione personali ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati che ricorrono nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e della violenza domestica e, dall’altro, intervenendo sulla misura della sorveglianza speciale.
Si affronta inoltre il tema della tempestività della risposta giudiziaria introducendo un criterio di trattazione di assoluta priorità dei processi anche relativi ai reati di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; di costrizione o induzione al matrimonio; di lesioni personali aggravate; di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e di stato di incapacità procurato mediante violenza laddove ricorrano le circostanze aggravanti a effetto speciale, e quindi il colpevole ha agito con il fine di far commettere un reato, ovvero la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto previsto dalla legge come delitto.
Sempre con finalità acceleratoria, si propone che il Pm, il quale dovrebbe sentire la persona offesa entro 3 giorni dalla denuncia (adempimento impossibile di fatto), debba richiedere l’applicazione della misura entro trenta giorni dall’iscrizione della persona nel registro delle notizie di reato e il giudice debba pronunciarsi sulla richiesta nei trenta giorni dal deposito dell’istanza cautelare presso la cancelleria. Più nel dettaglio l’articolo introduce nel codice di procedura penale, il nuovo articolo 362-bis recante misure urgenti di protezione della persona offesa.
La decisione del giudice circa deve intervenire “senza ritardo”, secondo la proposta di riforma.
Si prevede che, in caso di prescrizione una determinata distanza, le ordinanze di applicazione debbano garantire una distanza non inferiore a cinquecento metri, dalla casa familiare o da determinati luoghi frequentati dalla persona offesa.
Nel caso in cui la frequentazione di tali luoghi sia necessaria per motivi di lavoro la disposizione prevede che il giudice debba prescrivere modalità e limitazioni. Si prevede, infine, che, nel caso in cui l’imputato neghi il consenso all’adozione del braccialetto elettronico il giudice preveda l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave.
Si codifica la necessaria specializzazione degli uffici requirenti in materia di violenza di genere o domestica, in attuazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione di Istanbul, superando anche terminologicamente la prospettiva di intervento che implicava la titolazione “fasce deboli” dei gruppi specializzati delle Procure.
Le proposte C. 1294 (art. 12) C. 439 (art. 5) e C. 1245 (art. 6) – con identica formulazione – recano modifiche in materia di informazioni alla persona offesa dal reato, al fine di estendere l’obbligatorietà dell’immediata comunicazione alle vittime di violenza domestica o di genere a tutti i provvedimenti de libertate inerenti all’autore del reato, sia esso imputato in stato di custodia cautelare, condannato o internato.
Le tre proposte recano una modifica al quinto comma dell’art. 165 c.p.. Tale disposizione prevede che la concessione della sospensione condizionale per i delitti, consumati o tentati, di violenza domestica e di genere, è sempre subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati. La finalità delle tre proposte è di assicurare che i percorsi proposti siano superati con esito favorevole; l’accertamento della partecipazione e del superamento del corso sono demandati al giudice.
L’art. 7 della proposta C. 603 Ascari reca disposizioni di tutela delle vittime in relazione all’accesso ai dati anagrafici. In particolare, il comma 1 prevede il divieto di rilascio di documenti e informazioni relativi a una persona offesa da reati di violenza domestica o di genere, violenza sessuale, pedopornografia tratta, e schiavitù, o a un suo parente o affine di primo o di secondo grado, all’autore o al presunto autore del reato, dal momento in cui è esercitata l’azione penale fino all’eventuale sentenza di assoluzione o all’archiviazione. Questa misura sarebbe particolarmente utile per evitare che, nonostante la condanna, le persone offese continuino a essere esposte al rischio di ritorsioni e ulteriori violenze.
Entrambe le proposte, che si differenziano per alcuni aspetti limitati, introducono un nuovo articolo 13-bis nella legge 7 luglio 2016, n. 122 (legge europea 2015- 2016) la quale, agli articoli 11 e seguenti, reca disposizioni in materia indennizzi in favore delle vittime di reati intenzionali violenti, in attuazione della direttiva 2004/80/CE.
Si prevedono inoltre interventi di formazione: da una parte si propone l’adozione di linee guida per l’inserimento nei programmi scolastici delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado dei temi dell’educazione alla legalità, del diritto all’integrità dell’identità personale e del contrasto della violenza di genere. Dall’altro si offre alla discussione un piano organico di interventi multisettoriali volti alla prevenzione e all’informazione in merito al fenomeno della violenza contro le donne, con particolare riguardo alla formazione scolastica e all’accrescimento della consapevolezza e degli strumenti interpretativi rispetto all’utilizzo commerciale e sessuale dell’immagine e del corpo della donna.
L’esperienza delle donne quale fonte primaria per delineare pratiche, politiche pubbliche e riforme organiche
A fronte dell’insopportabile rumore (cfr. Patrizia Romito, 2010) che monta sul tema della violenza di genere nei confronti delle donne dinanzi all’ultimo e più efferato femminicidio, ritengo imprescindibile ripartire dall’esperienza che le donne fanno tanto della violenza nelle relazioni di intimità quanto dell’implementazione negli ultimi dieci anni di riforme normative che le Sezioni unite hanno definito “arcipelago legislativo”, marcandone l’assenza complessiva di sistematicità e organicità2.
Osservatorio privilegiato per poter parlare di questa esperienza sono sicuramente i centri antiviolenza femministi: nel 2022 i Centri gestiti dall’associazione “Differenza Donna” hanno raggiunto 2.224 donne e a partire da loro si può ricostruire il cambiamento negli anni della loro composizione demografica, poiché sono in prevalenza donne di tutte l’età, in particolare tra i 21 e 45 anni, di diversa estrazione sociale e con i livelli di istruzione e realizzazione professionale disparati, di diversa provenienza geografica e con storie di vita variegate.
Tutte però, a prescindere da nazionalità, lingua, religione, risorse economiche o strumenti culturali, sono accomunate da una progettualità concreta che oggi matura fortunatamente in tempi molto più brevi, in confronto ad appena dieci anni fa, volta a liberarsi della situazione di violenza, economica, psicologica, fisica o sessuale in cui sono costrette a vivere nella relazione affettiva oppure nel contesto lavorativo o nella dimensione pubblica che attraversano.
Siamo dinanzi a ragazze e a donne che hanno ben chiara, oggi a differenza di ieri, grazie ai tasselli lasciati da tutte quelle che hanno preso parola e praticato politiche femministe, la differenza tra amore e violenza, tra premure e sopraffazione, tra interesse e controllo coercitivo.
Le modifiche normative di volta in volta adottate sono note alle donne: sanno che vi sono strumenti di protezione e che, astrattamente, determinate condotte sono vietate dalla legge. In egual misura, sono ben noti gli ostacoli e le ostilità che si possono trovare tanto nel contesto sociale di riferimento quanto nelle autorità che devono implementare le leggi vigenti.
Annosa è la querelle su come definire le donne che fanno esperienza di violenza di genere: “vittima” è un’espressione che, da un lato, riconosce una dimensione giuridica di facoltà, poteri e diritti in sede processuale, faticosamente riabilitata dalla dottrina penale e processualistica, dopo una storia di diffidenza in quanto simulacro di vendetta e perciò motore di una giustizia arcaica e illiberale. Dall’altro lato, però, è una definizione ritenuta politicamente non soddisfacente, in quanto identifica il soggetto con il reato, schiacciandolo in una posizione sociale e giuridica di passività. Dal mio punto di vista, si continua così ad alimentare un equivoco giuridico e un errore logico, poiché il termine “vittima” è riferito al contesto processuale che oggi attribuisce facoltà, diritti e poteri prima non previsti dalla legge e consente di acquisire nell’accertamento processuale la versione, storicamente ignorata, che proviene dalla parola di chi subisce atti di sopraffazione e violenza, disinnescando le dinamiche di oppressione e potere che alimentano la violenza di genere nelle relazioni di intimità.
Comprendo certamente la vischiosità che il termine porta con sé, per donne impegnate nel proprio percorso di liberazione dalla violenza che descrivono il peso insopportabile che lo stereotipo porta con sé: debole, non astiosa, imperturbabile nel testimoniare anche le più efferate violenze e più insopportabili umiliazioni, perfetta e con il pianto al momento giusto (per chi ascolta non per sé stessa, perché altrimenti è giudicata “teatrale”).
Sarebbe interessante ragionare sui motivi per cui non si mette in discussione lo statuto di vittima di coloro che subiscono tortura o altre gravi violazioni di diritti umani, mentre la diffidenza e l’ambiguità si avverte solo quando si parla di donne vittime di reato, con i conseguenti moniti a evitare il “vittimismo”.
Per superare questa confusione terminologica è stata proposta la cornice discorsiva della figura della “sopravvissuta”, al fine di veicolare una rappresentazione che potesse dare conto sia della condizione di originaria esposizione a condotte che hanno messo a rischio la vita stessa sia della forza individuale di resilienza e di capacità personali di uscire dalla condizione di oppressione.
Poco si riflette tuttavia sul fatto che i lemmi che nascono nella pratica politica poi prendono una loro strada, svincolata dai luoghi di elaborazione e dalle esperienze che li hanno prodotti, e divengono spesso oggetto di appropriazione da parte delle politiche pubbliche.
La confusione tra “vittima” e “vittimismo” rientra nelle forme discorsive che alimentano nei decisori pubblici l’occultamento della violenza di genere nei confronti delle donne: trascurando il pregiudizio di passività e colpevolezza sotteso all’attacco al concetto di vittima e alle vittime stesse, la confusione tra chi oggettivamente “soccombe all’altrui inganno e prepotenza, subendo una sopraffazione, un danno, o venendo comunque perseguitato e oppresso” (Devoto & Oli, 2014) e chi “si atteggia a vittima delle circostanze o degli altri” continua a impedire il riconoscimento del valore epistemologico della parola femminile sulla violenza sessista.
Con riferimento al termine “sopravvissuta”, si deve considerare non solo che purtroppo ogni due giorni in Italia una donna non sopravvive affatto, ma anche che la cornice descrittiva della “sopravvissuta” è divenuta la nuova maschera che si pretende indossino le singole donne, ossia quella della donna dotata di super poteri, la quale resiste e supera le avversità con le sue sole forze, perché non deve chiedere mai a nessuno né aiuto né protezione, come detta la visione neoliberista dei rapporti sociali, in cui ciascuno ce la fa, sopravvive appunto, per sé e grazie a sé.
Si perdono così pezzi consistenti dell’esperienza delle donne che, se riconosciuti nella loro portata trasformatrice, potrebbero innescare un autentico mutamento delle relazioni sociali e incidere sulla efficacia sostanziale delle norme di volta in volta introdotte: la ribellione, la protesta, la rabbia che le donne manifestano quando cercano vie di uscita dalla violenza familiare sono ignorate, negate e finanche denigrate nella comunità di riferimento (parenti, amici e colleghi di lavoro che si girano dall’altra parte) e nelle aule di giustizia, dove la molestia sessuale diventa un gesto goliardico e il maltrattamento in famiglia normale dinamica della crisi separativa, mentre le donne sono descritte come abili manipolatrici e mentitrici per natura.
Nelle sentenze si legge che le donne, persone offese da reati quali maltrattamenti o violenza sessuale (ossia violazioni di diritti umani), sono da ritenersi attendibili se appaiono equilibrate e prive di rabbia nei confronti degli imputati. Nelle relazioni dei servizi sociali o dei vari sedicenti esperti della genitorialità, le donne sono giudicate non sul portato di accudimento e intelligenza emotiva profusi, bensì alla luce della capacità di gestione di quello che viene “normalizzato” come conflitto ma che nei fatti vuol dire parare i colpi di uomini controllanti e prevaricatori di cui non ci si libera mai e che usano le istituzioni per rendere la vita delle ex partner dolorosa e soffocante (in Spagna si definisce questa condotta “violenza vicaria”, ossia perpetrata per mezzo degli istituti giuridici e delle autorità pubbliche).
E invece, la grande risorsa delle donne tutte è proprio la rabbia e la ribellione allo status quo, il desiderio di cercare e produrre un cambiamento, nella consapevolezza però che nessuna, da sola, ce la fa: ciascuna donna racconta in tribunale o nei momenti di condivisione, nelle case rifugio e nei centri antiviolenza femministi, che la ribellione è possibile se esercitata collettivamente con tutto quello che si ha, ossia leggi, spazi protetti e solidarietà, la quale si traduce anche in risorse economiche sufficienti per sé e per tutte.
Il problema è che la rabbia e la ribellione fanno paura, soprattutto quando sparigliano le carte sul tavolo e ribaltano la narrazione comoda, e a investimento economico pari a zero, di relazioni sociali pacificate ed esenti da conflitti. La rabbia per la violenza di genere l’abbiamo sperimentata tutte sulla pelle, propria e delle altre che ci sono vicine; ciascuna pratica la sua ribellione o paga le conseguenze della ribellione che soffoca dentro di sé a fronte di dinamiche normalizzate sia nei contesti più progressisti sia in quelli più conservatori.
Il prezzo della ribellione solitaria di molte è la stessa vita e questo a tutte le latitudini.
La rabbia però, almeno per quanto mi riguarda, si dovrebbe risvegliare dinanzi a leggi inapplicate, a risorse mai stanziate, all’ingiustizia di una riparazione di sola facciata che non mette mai gli autori della violenza di fronte alle responsabilità sociali, e poi anche civili e penali, fino a chiedere, ancora una volta, alle donne di farsi carico della condotta altrui.
Le donne nei centri antiviolenza femministi ridefiniscono il concetto di sicurezza e di protezione lontane dalle logiche securitarie ed emergenziali, partendo dalla loro ribellione contro l’oppressione prodotta dalla violenza, e dunque chiedendo misure ragionevoli e proporzionate al legittimo desiderio di una vita libera e autodeterminata. La rabbia e la ribellione delle donne che fanno esperienza tanto della violenza di genere nelle relazioni di intimità quanto della violenza di genere istituzionale non si traduce mai, e questo sì è un mito da sfatare anche nei discorsi femministi, in istanze punitive o carcerarie: chiedere leggi adeguate e pretendere che quelle esistenti siano applicate con rigore e nel rispetto del principio di uguaglianza dinanzi alla legge (art. 3 Cost) non significa promuovere il diritto penale del nemico e le sue derive contemporanee, tanto meno riconoscere utilità ai luoghi di violenza istituzionale come il carcere, senza considerare che solo in casi residuali e più gravi (tentato femminicidio/femminicidio, violenza sessuale) gli uomini condannati sono sottoposti in concreto a pene privative della libertà personale, poiché nella maggior parte dei casi le pene comminate sono sospese.
In concreto la rabbia e la ribellione si traducono nella pretesa, senza se e senza ma, che la condotta violenta si arresti, che la propria libertà sia esente da briglie di ogni tipo, che i propri desideri, scelte e progetti non siano alla sbarra del tribunale o del gruppo sociale di riferimento, che si possa decidere di non vedere mai più chi ha prodotto gravi danni alla propria vita, con conseguenze sociali e intergenerazionali incommensurabili (cfr. Comitato Cedaw, F.c. Italia, 2022), che non si debba essere chiamate, ancora una volta nella storia, a mediare con il proprio carnefice.
Prima di accedere alla giustizia penale, tanti sono i tentativi di negoziazione privata e poi sociale che le donne mettono in atto per liberarsi dalla violenza. Non si può ignorare che la rivoluzione sociale, politica e giuridica degli ultimi cinquant’anni della tutela internazionale dei diritti umani è stata l’enunciazione della rilevanza pubblica delle violazioni perpetrate ai danni di singoli e di singole tra privati; ossia concretizzare lo slogan femminista “il personale è politico” in misure legislative, avanzamenti giurisprudenziali e politiche pubbliche.
Dinanzi alla inefficacia delle leggi di volta in volta introdotte, all’incertezza degli orientamenti giurisprudenziali di merito e alla povertà delle politiche pubbliche proviamo tutte la rabbia di Giuditta dipinta da Artemisia Gentileschi o quella di Modesta raccontata dalla penna di Goliarda Sapienza. Forse dovremmo riscoprirne anche il gesto ribelle contro la normalizzazione, la sottovalutazione e i recenti tentativi di privatizzare nuovamente la risposta alla violenza di genere nei confronti delle donne, demandandola ai gruppi di pari che, come dimostrano le esperienze di transitional justice sperimentate nelle comunità attraversate da atrocità indicibili, tradiscono le donne sempre e comunque.
Note
1 Proposte di legge C. 439 Bonetti, C. 603 Ascari, C. 1245 Ferrari e C. 1294 Governo, recanti “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”.
2 Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2016, n. 10959, in Diritto penale e processo, 2016, pp. 1063 ss., con nota di S. Michelagnoli, L’espressione “delitti commessi con violenza alla persona” al vaglio delle Sezioni Unite: rileva anche la violenza psicologica, in Diritto penale e processo, 2016, 8, pp. 1071-1079.
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