Abbiamo scelto alcune pagine scritte nei giorni del Venticinque Aprile del 1945: lettere, brani di diario, taccuini, ad eccezione della testimonianza di Rossana Rossanda, partigiana a Milano, giovane donna di ventuno anni. I volti di sette giovani donne si alternano ai brani trascritti a comporre la nostra breve antologia. Irma Bandiera e Luisa Ferida incontrarono la morte l’una sulla sponda opposta dell’altra. Clara Calamai, con “Ossessione” di Luchino Visconti, impresse una figura di donna che restò allora nell’animo di molti, e Maria Denis contribuì a salvare Visconti dagli aguzzini di Pietro Koch. Joyce Salvadori Lussu, Titina Maselli e Teresa Mattei porteranno la loro passione civile nell’Italia repubblicana, assumendosi l’eredità di Giovanni Battista Vighenzi. A tre studiosi tra i massimi dell’Italia del Novecento, si debbono alcune considerazioni appuntate in quei giorni: Benedetto Croce, Piero Calamandrei e lo storico Gioacchino Volpe, due oppositori e un sostenitore del fascismo, quest’ultimo, che pure non aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Renato Birolli, Leoncillo Leonardi e Giovanni Stradone vanno annoverati tra gli artisti che acquisteranno rilievo dopo il 1945.

Clara Calamai

Rossana Rossanda


Venti anni si ribaltavano

Vidi in piazza Duomo Parri per la prima volta, accanto a Longo, erano in borghese, non c’era enfasi ma una fierezza e allegria che non ricordavo, non avevo mai conosciuto. E attorno un mucchio di gente in festa, accalcati, su per il monumento e sui lampioni, tantissimi; come a Como, a Olmeda erano spuntati tricolori e fazzoletti rossi al collo di persone che un mese prima non avrei potuto avvicinare.

Era una liberazione, la liberazione. La fine di un’angoscia, la fine di un’epoca, si sarebbe ricominciato tutto, per qualche giorno fui trasportata anche io, anche io […]. In piazzale Loreto guardai i corpi sospesi per i piedi. Erano come sfatti, qualcuno aveva per pietà legato la gonna della Petacci sopra le ginocchia, i volti erano gonfi e anonimi, come se non fossero vissuti mai, cadaveri non ricomposti. Davanti scorreva accalcandosi una folla furente, donne urlanti, uomini sbiancati, gridavano, odio e impotenza che si liberavano. Qualcuno aveva fatto giustizia per loro, c’era qualche scherno, molta rabbia. Venti anni si ribaltavano. Me ne andai, forse era un rituale necessario, era tremendo.

Oggi qualcuno si indigna che più d’una vendetta fosse tratta a guerra finita, in quei giorni e dopo. Come se una guerra che era stata anche fra la stessa gente si chiudesse a una certa ora. Non si chiude niente finché il tempo non passa e oblitera, lasciando lungo la strada chi non sa dimenticare.

E noi non tornavamo integri a casa come gli inglesi o i russi o gli americani. Noi avevamo un lungo strascico che sprofondava negli anni di complicità o inerzia.

Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005, pp. 96-97.

Maria Denis

Renato Birolli

Ventitreesimo taccuino (febbraio-aprile 1945)

La notte si illumina a festa, i bastioni neri delle case si rompono di luci. Qualcosa di misterioso è nel gran faro lontano e nell’uniforme ronzio che pare avvicinarsi. V’è gente impensierita per il ritardo degli alleati. Temono le bande naziste e fasciste che girano pazzamente nella regione lombarda, vicine a Milano, in cerca di scampo. Ma il popolo combattente tale timore non l’ha. Il borghese è quello che lascia agli altri di difenderlo, e che ha – in parte – visto di buon occhio e forse ammirato lo strapotere tedesco, che ora teme. Ma teme anche altre cose. Egli pensa che gli alleati vengano, solo per lui, a difendere i suoi interessi e i suoi errori. Ne ho sentiti di quelli che – subito dopo il giorno 26 – dicevano che la data era stata prematura per l’insurrezione e troppo audace. E per audace intendevano temerario e pazzo.

D’improvviso il faro dirige il suo occhio enorme altrove e sparisce. La colonna – si dice che è una colonna – ha fatto conversione su Porta Vittoria.

Anche in quel quartiere si attendono gli americani. Tutti sono scesi in strada e nelle piazze. Ma suona la sirena d’allarme, quella di pericolo. È chiaro che intendono far rientrare la folla nelle case. Si tratta invece di una colonna di patrioti e partigiani che recano a Milano i cadaveri di Mussolini e della Petacci. E sono portati là dove giacquero i quindici fucilati di Piazza Loreto. Così, all’alba, tutta Milano corse là.

Renato Birolli, Taccuini, 1936-1959, a cura di Enrico Emanuelli, Torino, Einaudi, 1960, pp. 266-267.

Irma Bandiera

Giovanni Battista Vighenzi

26 aprile 1945

Liana amatissima, mia gioia, mia vita, c’è una grande sete nel mio cuore, in questo momento, e una grande serenità. Non ti vedrò più Liana, mi hanno preso, mi fucileranno. Scrivo queste parole sereno d’animo, e col cuore spezzato nel medesimo tempo per il dolore che proverai. Ti ho detto stasera prima di partire: Liana, io ho tanta voglia di riposare vicino a te, io riposerò vicino a te, sulla tua spalla, nel tuo animo, ogni notte per tutta l’eternità. Mio bene, tanto cara, ho mille scuse da chiederti per le gentilezze che non ho avuto per te, che meriti tanto per tutto…

Pino è stato pure preso e fucilato prima di me. Prega per noi due amici uniti anche nella morte. È morto con dignità e mi ha salutato con uno sguardo in cui era tutta la sua vita. Spero di morire anch’io, di fare il grande viaggio, serenamente. La mia ultima parola sarà il tuo nome, il nome che è inciso sulla fede che ti mando. Tu parlerai alla mamma mia, tu la consolerai se sarà possibile, povera vecchia: povera cara mamma! E la zia e il fratello Luigino; a Marietta dirai che il mio affetto di fratello ingigantisce in questo momento. Consolatevi: la vita ha di queste improvvise rotture. I tuoi di Modena, la mamma, il babbone, la Cesira in modo particolare, Tonino, Margherita mi sono tutti presenti. Di’ a Tommaso che sarà come se fossi presente al Battesimo del suo piccolo. Ricordatemi al caro Rino…

Vieni soltanto di tanto in tanto sulla mia tomba a portarvi uno di quei mazzettini di fiori campestri che tu sapevi così bene combinare. Addio, debbo salutarti, cara e tanto amata: non m’importa di perdere la vita perché ho avuto il tuo amore prezioso per quasi tre anni ed è stato un grande dono. Muoio contento per essermi sacrificato per un’idea di libertà che ho sempre tanto auspicata.

Metto la mia firma e sulla fede i miei ultimi baci.

Tuo per sempre

Giovanni

Di trentasei anni, dottore in legge. In un combattimento il 26 aprile 1945 disarma con i suoi uomini settantadue SS tedesche. Catturato alle ore 21,30 del 26 aprile, fucilato nella notte tra il 26 e il 27 aprile a Saiano (Brescia) con i compagni Giuseppe Caravello, Giovanni Ceretti e Pino Malvezzi.
Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943- 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli. Nota introduttiva di Gustavo Zagrebelsky, Torino, Einaudi, 2002, pp. 336-337.

Luisa Ferida

Gioacchino Volpe


Roma, 10 maggio 1945

Si sente in questi momenti che cosa è la patria: la patria sono gli uomini che la abitano; e se questi ti diventano estranei o nemici, anche la patria se ne va, svanisce dai tuoi occhi, si confonde con quegli uomini. Forse è male che sia così: e io a volte mi domando se non ho torto io: ma tant’è. È, ora, il mio sentimento. Forse, col tempo, ritroverò, sotto i ciottoli e la melma che ora la ricopre, la mia terra, quella che mi ha nutrito, fatta di indistruttibili ideali, diversa dalle effimere ondate umane che di volta in volta la contaminano e par che la snaturino.

Gioacchino Volpe, Lettere dall’Italia perduta. 1944-1945, a cura di Giovanni Belardelli, Palermo, Sellerio, 2006, pp. 80-81.

Joyce Salvadori Lussu

Piero Calamandrei

Aprile 1945

A Prato, in una trattoria popolare, passato mezzogiorno: siamo seduti cogli amici pratesi intorno a una tovaglia bianca di bucato, che ricorda le linde mense domenicali dei tempi antichi. Durante la lotta clandestina questa trattoria è stata un punto di ritrovo segreto dei partigiani: anche l’oste ha avuto le sue vicende, e ce le viene a raccontare a puntate, ogni volta che esce di cucina tra un piatto e l’altro. Siamo tutti presi da una specie di beata stupefazione, nel ritrovarci lì intorno a un desco casalingo dove si può discutere a voce alta di politica, senza parlare in greco, e senza cambiar discorso quando entra un nuovo avventore.

Ma la radio aperta dà il segnale orario del tocco: e ormai, pare vecchia disciplina non ancora cancellata, tutta la stanza tace in attesa del bollettino. È il primo annuncio della liberazione di Milano, e il primo elenco dei gerarchi catturati. «Il tribunale del popolo ha condannato alla fucilazione nella schiena…». E poi la lista dei giustiziati, cominciando dal più noto: nomi e cognomi; anzi cognomi e nomi.

Alla fine della trasmissione c’è qualche attimo di silenzio, di desolato e vuoto silenzio: non un commento, non una esclamazione di giubilo, non un’imprecazione. Da vent’anni questa fine fatale si prevedeva, si attendeva, si invocava: ora che la conclusione arriva, inesorabile come la morale di un orribile apologo, ci ritroviamo, invece che consolati, umiliati dal disgusto e dalla vergogna. Ecco, era tutto qui: un ventennio di spaventose apocalissi concluso in questo mucchio di stracci insanguinati. E noi che non abbiamo saputo impedirlo: e noi che abbiamo aspettato vent’anni a tirar questi conti così semplici.

Penso al mio caro Manara Valgimigli di cui da quasi due anni non ho più notizie: l’ultima volta che lo vidi, prima che egli rimanesse prigioniero «al nord», mi regalò un suo libretto di traduzioni da Saffo e da altri lirici greci; e nel regalarmelo mi sussurrò in un orecchio che il più bel canto era l’ultimo, il famoso frammento di Alceo con cui il libretto si chiude:

Ora bisogna bere;

ubriacarsi ora bisogna;

ora che Mìrsilo è morto.

Ecco, Mìrsilo è morto; ma nessuno in questa trattoria ha voglia di bere. Ahimè, per vent’anni lo abbiamo lasciato vivere.

Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di Giorgio Agosti, con una introduzione di Alessandro Galante Garrone e due scritti di Franco Calamandrei e Enzo Enriques Agnoletti, Volume II. 1942-1945, Firenze, La Nuova Italia, pp. 560-561.

Teresa Mattei

Benedetto Croce


Pasqua del 1945

Un gran compito ci attende: attende segnatamente voi giovani, e voi che siete ancora nel vigore della mente e del braccio; quello di tener salda e intangibile – quali che debbano essere, quali che saranno i cangiamenti nelle cose – quella che non è una cosa perché è un ideale, un valore spirituale, e per cui ciascuno di noi ha come sapeva e poteva combattuto e che ciascuno amò di più intenso amore, perdutamente, quando fu non già a noi strappata dal cuore ma in noi oppressa e in noi offesa; la libertà, che sola dà ragione e significato e dignità all’esistenza dell’uomo sulla terra. Ora l’abbiamo formalmente riconquistata; ma contro di lei stanno dappertutto nel mondo, in aperta opposizione o in insidioso agguato, forze che mirano ad abbatterla e a sostituirla con diversa nelle apparenze ma sostanzialmente identica tirannide; e sta l’indifferenza dei molti; e noi dobbiamo difendere questo principio di vita per noi e per tutti costoro, dissennati e ignari, che potrebbero ancora una volta metterla a grave pericolo.

Benedetto Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Volume secondo, Bari, Laterza, 1973, pp. 224-225.

Giovanni Stradone, Notturno del Foro romano, 1946, olio su tavola,
cm. 75 x 60. Roma, collezione privata. Particolare.

Un commento a “25 aprile, per un’idea di libertà”

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