Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, la Transnational Social Strike Platform ha pubblicato uno statement che ha avuto una grande circolazione intitolato “No to War. For a Transnational Politics of Peace“. Dalla prima assemblea transnazionale il 20 marzo, a cui hanno partecipato più di 150 persone da Ucraina, Russia, Georgia, Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, UK, Italia, Slovenia, Moldavia, Germania, USA e altri, è stata creata un’Assemblea Permanente contro la Guerra. L’Assemblea Permanente è uno spazio transnazionale di discussione e di organizzazione non solo contro la guerra, ma per praticare una politica dalla parte di chi è colpito dalla guerra in Ucraina, di chi si oppone alla guerra in Russia, e di tutti e tutte coloro che lottano per non essere uccise, sfruttati e oppressi e che subiranno gli effetti della guerra anche altrove pagandone il prezzo sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Con politica transnazionale di pace intendiamo un processo aperto e condiviso di costruzione di una forza collettiva che riesca ad attraversare i fronti della guerra e a produrre inedite connessioni tra chi non ha altra scelta se non combattere, chi lotta per non morire, chi fugge, chi non può fuggire. La nostra politica di pace è transnazionale perché non si accontenta di ristabilire o di garantire il rispetto dei confini con un accordo più o meno equo e stabile tra gli Stati, ovvero non si accontenta di un accordo internazionale. Cercando di andare oltre il rifiuto dell’alternativa tra la condanna dell’invasione di Putin e la condanna dell’espansionismo occidentale e della Nato, questa politica vuole individuare ciò che può connettere positivamente e attivamente chi si impegna a dissolvere la contrapposizione tra Ucraina e Russia, tra Europa e Russia, tra Europa orientale ed Europa occidentale. È transnazionale perché non pensa che questa sia solo una guerra europea, ma che siamo di fronte a una crisi che investe la costituzione globale della società. Proprio per questo si stanno producendo nuove regolamentazioni dei movimenti dei migranti e stabilendo tra di loro nuove gerarchie che si sovrappongono a quelle già esistenti. La stragrande maggioranza di chi sta fuggendo dalla guerra è composta da donne e questo inasprirà la divisione sessuale del lavoro e inciderà profondamente sulle condizioni della riproduzione sociale, rendendo peraltro evidente il carattere patriarcale di questa guerra. Una politica transnazionale di pace non è possibile se si ignora cosa sta succedendo attorno a questa guerra in termini di sfruttamento, di misure patriarcali e razziste. Una politica transnazionale di pace vuol dire per noi non solo chiedere la fine immediata della guerra, ma anche preparare il terreno per le lotte che necessariamente essa porterà con sé.

Per sostenere e dare visibilità a questo processo di organizzazione e presa di parola, abbiamo pensato di porre delle domande per un dibattito a più voci su quali aspettative suscita la prospettiva di una politica transnazionale di pace, quali possono o dovrebbero essere i suoi contenuti, quali gli ostacoli alla sua realizzazione e i piani di connessione che la rendono possibile.

Qui di seguito le risposte di Ida Dominijanni, qui l’intervista a Jeremy Brecher, storico e attivista statunitense.

La politica transnazionale di pace vuole essere qualcosa di più della solidarietà internazionale. Essa ha la pretesa di costruire connessioni transnazionali che nel dire no alla guerra contestino anche gli effetti della guerra sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di donne e uomini, persone lgbtqi, lavoratori e lavoratrici, poveri, migranti e non, non solo in Ucraina e in Russia. Secondo te questa pretesa è realistica, oppure pensi che si debba privilegiare il posizionamento rispetto alla riconfigurazione del quadro geopolitico?

Non solo penso che sia una pretesa realistica, ma direi che senza questa prospettiva è il discorso geopolitico a diventare irrealistico. Salvo pensare che la politica sia solo politica di potenza, e che sia solo in mano alle grandi potenze, non è possibile posizionarsi sullo scacchiere internazionale senza tenere conto delle conseguenze sociali delle scelte geostrategiche. Questo è vero sempre e da sempre, ma è tanto più vero oggi che la dimensione statual-nazionale, su cui la razionalità geopolitica si basa, entra in contraddizione con le interconnessioni e le interdipendenze economiche e culturali che ridefiniscono la società globalizzata. Politicizzare queste interconnessioni, farne la base di partenza di pratiche politiche transnazionali e intersezionali, è l’unico modo realistico per ridare fiato a una politica che non resti intrappolata nella pura logica di potenza, ed è anche l’unico modo per rivelarne i limiti e non immaginarla più potente di quanto non sia.

Attenzione però a non illudersi che dalla politica di potenza si possa prescindere. Al contrario, la guerra in Ucraina ci ricorda che la dimensione geopolitica torna a essere decisiva per le sorti dell’umanità. Il problema dunque è come intrecciare le due prospettive, e non è un problema di facile soluzione dato che di per sé si presentano divaricate, come fossero l’una impermeabile all’altra. Basta pensare a come il racconto della guerra scotomizzi la dimensione della battaglia sul campo e dei negoziati da un lato, e quella delle vittime e dei profughi dall’altra. Ma bisogna provarci. Con una formula, si potrebbe dire che dobbiamo provare a intrecciare biopolitica e geopolitica, due paradigmi di per sé poco compatibili anche sul piano concettuale. Ma io preferisco dire che dobbiamo interrogare e ripensare la politica a partire dall’esperienza comune, singolare e collettiva.

L’Europa e gli USA stanno cercando di presentarsi come i campioni di un internazionalismo democratico contro l’avanzata dell’autoritarismo di Putin. Sembra cancellata la violenza del regime dei confini europeo e del capitalismo neoliberale che ha avuto effetti devastanti soprattutto nell’Europa centro-orientale. L’appello dei governi occidentali ai valori democratici lungi dall’indicare un impegno nell’allargamento di diritti sociali o civili, è funzionale all’irrigidimento dei fronti contrapposti di guerra. Una politica transnazionale di pace non può esaurirsi nella sola necessaria richiesta della fine delle ostilità né nel richiamo alla democrazia. Se sei d’accordo, come pensi possa articolarsi un discorso che tenga conto di queste contraddizioni dentro e oltre la guerra?

Dalla fine della Guerra fredda in poi la narrativa occidentale mainstream della guerra è sempre la stessa: si fa la guerra in nome della democrazia, sotto la bandiera della democrazia, in difesa della democrazia, la quale democrazia sarebbe sotto attacco dei dittatori, dei fondamentalisti, degli autocrati. Questa narrativa insieme autocelebrativa e vittimistica della democrazia nasce e cresce quando, dall’‘89 in poi, la democrazia vince, e mentre vince e vuole stravincere si deteriora, anche perché priva di quell’Altro, il socialismo reale, che con tutti i suoi misfatti la costringeva tuttavia ad autocorreggersi con lo stato sociale. A sostegno di questa narrativa viene periodicamente eretto il muro dello scontro di civiltà – ieri fra l’Occidente e l’Islam, oggi fra l’Occidente e le autocrazie orientali – che ripristina sul piano simbolico il bipolarismo perduto con il crollo del Muro di Berlino, come se l’Occidente e la democrazia occidentale non riuscissero a pensarsi se non in relazione a un Altro-Nemico, che quando non c’è va costruito a tavolino. Questa narrativa, infine, funziona come un gigantesco dispositivo di arruolamento ideale e culturale delle opinioni pubbliche occidentali, occultando gli interessi strategici reali in gioco, le reali motivazioni delle guerre, gli elementi di somiglianza e gemellarità fra i nemici che si combattano sul campo, e soprattutto le derive di de-democratizzazione interne alle società e ai sistemi politici occidentali. Sappiamo com’è andata durante la lunga war on terror, quando l’esportazione armata della democrazia ideale ha fatto il paio con l’adozione di politiche securitarie nelle democrazie reali. Con la guerra in Ucraina il paradosso si è fatto, se possibile, ancora più stridente. Facciamo la guerra contro l’autocrate russo glissando sui guasti radicali che il neoliberalismo, come forma di razionalità politica e non solo economica, ha apportato non solo alla grammatica dei diritti, ma anche alla struttura istituzionale e alla base antropologica delle democrazie occidentali. Attacchiamo giustamente Putin e ci dimentichiamo che solo due anni fa temevamo il collasso della democrazia americana per mano di Trump. E facciamo di paesi come l’Ucraina e la Polonia, non poco inquietanti quanto al tasso di nazionalismo e alla violazione dei diritti fondamentali, la nuova frontiera della democrazia europea. Perciò la bandiera della democrazia non è credibile se non è accompagnata da una autocritica delle democrazie, e dal rilancio del conflitto sociale e politico senza il quale le democrazie deperiscono. Questa autocritica della democrazia è secondo me un punto imprescindibile, non accessorio, della costruzione di una politica transnazionale di pace che sappia muoversi in un orizzonte politico, non solo sociale.

Dall’Ucraina sono arrivate voci critiche nei confronti di una parte della sinistra occidentale, che ha ignorato negli anni che cosa stesse succedendo a Est e ora legge la situazione nel quadro dell’antiimperialismo antiamericano o di un europeismo democratico, con lenti e posizionamenti che non sono più adatti al presente. Che cosa questa guerra ci costringe a vedere e quali schemi e modelli ci costringe ad abbandonare?

Ho letto alcune di queste voci. In parte mi pare che riportino alla questione della democrazia: ci dicono fra l’altro che in Ucraina e in altri paesi dell’ex Est sovietico l’esigenza della democratizzazione è prioritaria, una soglia dalla quale non si torna indietro. Questo desiderio di democrazia va accolto e potenziato, ma va anche smitizzato, a differenza di quanto è stato fatto nel dopo-89. Per tornare alla risposta precedente, forse dovremmo infilare il sentiero stretto che passa fra che cosa c’è oggi di irrinunciabile e che cosa c’è di inaccettabile nelle democrazie in cui viviamo o in cui altri/e aspirano a vivere. Dall’altra parte, queste voci ucraine ci chiedono di non analizzare quello che sta accadendo in termini occidentocentrici, e hanno ragione. E’ vero che l’antiimperialismo americano non è più una lente sufficiente e congrua per la situazione attuale – del resto, personalmente non ne sono mai stata una sostenitrice entusiasta, e mi pare che già a inizio secolo l’ottica imperiale avesse sostituito quella imperialista nelle analisi di buona parte della sinistra radicale. Nel frattempo gli Stati uniti sono diventati un paese profondamente diviso al suo interno, che fa fatica a fare i conti con il suo (relativo) declino, nonché con una società stanca di guerra – tanto che ormai, dopo l’Afghanistan, possono fare solo guerre per procura, che non per questo, s’intende, sono meno pericolose, anzi. E altre vocazioni imperiali, o comunque espansionistiche, si sono consolidate, come quella cinese, o riaffacciate, come quella russa. Di quest’ultima, credo che non vada sottovalutata la pretesa ideologica, che ben traspare dai discorsi con cui Putin ha “motivato” l’aggressione all’Ucraina. Credo che abbiamo liquidato con troppa disinvoltura la critica dell’Occidente allestita dai vari Dugin, Surkov eccetera, tutt’altro che improvvisata. Vorrei aggiungere però un altro elemento. Le grandi crisi che abbiamo vissuto dall’inizio del secolo in poi – l’11 settembre e la successiva war on terror; la crisi economico-finanziaria del 2008-2011; la pandemia – mi sono sembrate tutte caratterizzate dalla stessa dinamica: in tutti e tre i casi si trattava di sfide globali alle quali si rispondeva, inadeguatamente, con risposte nazionali. In Ucraina sembra che il tempo stia andando a ritroso, e che ci troviamo di fronte a una guerra ottocentesca, o protonovecentesca, fra due nazionalismi. Ma è così, o a ben guardare dietro il sipario del nazionalismo c’è di nuovo una posta in gioco globale? Io credo di sì, perché penso che l’Ucraina sia solo il casus belli che Putin ha scelto per puntare a ridisegnare l’ordine globale. Perciò è di nuovo da pensare la contraddizione – sanguinosa – fra globale e nazionale. Ed è urgente ripensarla qui in Europa, perché è l’Unione Europea che rischia soprattutto ma non solo nei paesi ex-Est un rigurgito ingestibile di nazionalismi, comunque questa guerra vada a finire.

La guerra in Ucraina è una guerra patriarcale perché sta riaffermando con le bombe tutte le gerarchie che noi contestiamo. Gli uomini devono essere soldati e dimostrare combattendo di essere veri maschi patrioti. Le donne sono trattate come deboli e impotenti oggetti di protezione, e le centinaia di migliaia di migranti in fuga dall’Ucraina saranno molto probabilmente impiegate come forza lavoro svalorizzata nei settori essenziali o nel lavoro domestico. In che modo pensi che una politica transnazionale di pace possa contestare questo irrigidimento delle gerarchie sessuali che la guerra porta con sé?  

La guerra irrigidisce sempre le gerarchie sessuali, e fa di peggio, autorizzando violenze macabre e gratuite come gli stupri etnici. Però attenzione, qualcosa è cambiato nelle ultime guerre e anche in questa. È vero che si consolida il mito del “vero uomo”, combattente e patriota. Ed è vero che la rappresentazione maggioritaria delle donne è schiacciata sulla figura della madre-profuga, vittimizzata finché scappa dalle bombe e usata come forza lavoro a basso costo appena varca i nostri confini. Tuttavia già da tempo questa rappresentazione binaria non è esaustiva. Durante la guerra in Iraq, ad esempio, le soldatesse americane che torturavano i prigionieri iracheni misero in scena una macabra inversione dei ruoli di genere e ci costrinsero a dismettere qualunque illusione di estraneità delle donne all’uso della violenza. Dall’Ucraina ci arrivano sì le immagini delle profughe, ma anche quelle di donne virilizzate e padrone della retorica bellicista. Dunque mi pare che la forbice da indagare e su cui fare leva sia piuttosto quella fra donne che fanno la differenza dai valori della virilità tradizionale – pensiamo all’appello pacifiste delle femministe russe – e donne che li fanno propri. Aggiungo che nel caso delle ucraine c’è un ulteriore elemento su cui fare leva: queste donne sono già da molti anni le vere ambasciatrici del loro paese, quelle che lo hanno portato, letteralmente, nelle nostre case. Certo il nostro rapporto con loro non è stato all’altezza della situazione, ma io non sono nemmeno d’accordo nel leggerlo solo come un rapporto di sfruttamento: è una relazione nella quale condividiamo spesso la cura delle persone a noi più care. La prima pratica da incentivare in una politica di pace transnazionale è la pratica di relazione e scambio con queste donne ucraine, con le donne russe, con le donne che si rifiutano – ne conosco parecchie – di definirsi solo russe o solo ucraine. E naturalmente, con gli uomini che disertano la logica e la pratica della guerra. Starei molto attenta però a non dedurre da questa guerra una diagnosi di buona salute del patriarcato. Al contrario, resto convinta che tanto rigurgito di violenza maschia abbia a che fare con la sua crisi, se non fine, e con un patto sociale che a tutte le latitudini stenta a ricomporsi dopo la decostruzione e l’esplosione dei ruoli sessuali e di genere. Il patriarcato non fa più ordine, né politico né sociale né simbolico, e per questo ricorre più di prima alla violenza, nella sfera privata e in quella pubblica, nel personale e nel politico.

C’è chi dice che questa guerra segna la fine della globalizzazione. Quali pensi saranno le trasformazioni di lungo termine di questa guerra che la politica transnazionale di pace si deve preparare ad affrontare? 

Penso che questa domanda si riferisca al lato più propriamente economico della globalizzazione, e l’economia non è il mio forte. Non credo comunque alle tesi che circolano su una imminente de-globalizzazione: l’interdipendenza dei processi produttivi e delle reti della comunicazione e della logistica sono andati troppo avanti per innescare la retromarcia, e del resto gli stessi effetti della guerra e delle sanzioni contro la Russia saranno purtroppo globali, ancorché asimmetricamente distribuiti, a tutto svantaggio dell’Europa e soprattutto dei paesi africani e di alcuni paesi asiatici, che potrebbero essere colpiti da carestie e impoverimento. Ci sarà forse un’accelerazione di una riorganizzazione dei marcati su scala macroregionale, che era tuttavia già in atto sotto la regia della Cina. E svariati economisti prevedono la fine della centralità del dollaro, che potrebbe innescare un disordine monetario globale e certamente preoccupa gli Stati uniti più dell’espansionismo di Putin. Si annunciano anni di grande turbolenza, che saranno devastanti se non partirà un nuovo ciclo di lotte, questo sì transnazionale e globale.  

La politica transnazionale di pace si deve muovere nel breve periodo, di fronte all’urgenza della guerra, ma deve anche riuscire a darsi una prospettiva autonoma, di più lungo periodo. Come pensi si possano combinare queste due dimensioni? 

Capovolgerei i termini della questione: nel breve periodo penso che possiamo ottenere ben poco. È urgente mettere in piedi un forte e argomentato movimento pacifista, per contrastare la corsa dissennata al riarmo in cui si sta infilando l’Europa, e più in generale la gran voglia di guerra che trasuda dal dibattito pubblico mainstream. Ma temo che non riusciremo a incidere sull’andamento della guerra. Checché se ne pensi, a mio avviso – è una delle lezioni del femminismo – è invece il lungo periodo quello che più si addice alla tessitura di pratiche dal basso di trasformazione dell’ordine dato. Abbiamo avuto la fortuna di vivere in un’epoca in cui la pace era, perfino nel diritto, una precondizione della democrazia, ora che le democrazie europee si armano dobbiamo entrare nell’ordine di idee che si tratta invece di una costruzione, difficile quanto necessaria.  

Qui il link all’articolo pubblicato su “Sconnessioni precarie”, che ringraziamo.

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