Il titolo che è stato dato a questo nostro incontro non indica, ovviamente, il bisogno sempre vero della rilettura di testi su cui esiste una esegesi sconfinata, ma esprime l’esigenza di un’analisi del presente capace di coglierne permanenze e rivolgimenti, e, se si riuscisse, possibili conseguenze e immaginabili vie di superamento di un inquietante e pericoloso stato delle cose cui non si oppongono, al di là delle schermaglie tattiche, forze e culture tradizionalmente definite di sinistra, oggi in crisi grave in ogni loro parte e quasi scomparse, non solo in Italia, mentre avanzano ideologismi e formazioni di destra, compresa la più estrema e fascistizzante. Chi tiene questo breve intervento volle a suo tempo salvare dal macero una rivista intitolata alla “Critica Marxista”, non perché pensasse all’autosufficienza del pensiero dell’antico maestro, ma perché considerava che disfarsene equivaleva alla rinuncia dell’insieme di un pensiero critico sulla realtà umana che lo ha preceduto e seguito senza il quale si può solo vaneggiare attaccati a qualche furberia tattica. Appare indubbio ormai ciò che fu a lungo negato e che, cioè, ci si trovi a una crisi dei fondamenti culturali di tutta una parte politica che volle rappresentare in primo luogo lavoratrici e lavoratori, cioè le classi considerate subalterne nella società, oggi largamente rimaste senza rappresentanza, perché approdate all’astensione dal voto o con rappresentanze d’impronta autoritaria e cioè avverse a ogni idea di liberazione sociale.
Crisi culturale vuol dire innanzitutto scarsità di conoscenza e di analisi dello stato di fatto e perciò viene proposta qui una discussione sull’attuale modo di essere del capitalismo e delle relazioni internazionali, sulle difficoltà della democrazia e sul portato della rivoluzione informatica.
Noi viviamo il tempo in cui si constata la fine della speranza o della illusione che la fine della guerra fredda, con il crollo di uno dei blocchi che si misurarono dopo la seconda guerra mondiale, avrebbe portato addirittura a “una fine della storia” o comunque a uno stabile e progressivo assetto garantito da un mercato unico mondiale del capitale e dal controllo della superpotenza vincitrice. Era certo vera la ben nota affermazione del “leggendario”, come viene definito, Warren Buffett sulla loro vittoria, quella dei capitalisti, nella guerra di classe che, come volle precisare, “c’è sempre stata”, così come era vera la sua onesta e indignata constatazione che la sua segretaria pagava più tasse di lui, ma, appunto, a questa vittoria planetaria del capitalismo non corrispondeva, come molti credettero, una reale capacità egemonica.
La pandemia prevedibile ma non prevista – da cui si esce con difficoltà nei paesi ricchi mentre continua la strage in quelli più poveri – ha fornito la più recente prova di uno sviluppo certamente strepitoso ma profondamente malato in cui a montagne di merci corrisponde, com’è ormai evidente, una insostenibile violenza suicida fatta alla natura, il divario abissale tra ricchissimi e poverissimi, una conflittualità endemica e rissosa entro le società, una nuova guerra fredda tra le potenze che diventa guerra guerreggiata in tanti luoghi di frizione. Tutto questo dovrebbe apparire come la conferma di un orientamento culturale critico nei confronti del modello capitalistico. Quell’orientamento che, fin dal sorgere del nuovo assetto economico e sociale, ne scorse alcune delle contraddizioni costitutive portando alla creazione di movimenti e partiti che si posero in posizione alternativa in nome della costruzione di una società altra, pensata come socialista, cioè fondata sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio (espressione che rimase comune a tutte le parti pur conflittuali della sinistra novecentesca socialdemocratica, laburista o comunista che fossero). Pareva nascere e nasceva con il movimento socialista un nuovo afflato universalistico dopo che le fedi religiose, tra loro in reciproca opposizione, si erano mostrate strumenti di guerre intestine e giustificazione di guerre di conquista, ivi compresa quella fede che aveva promosso la rivoluzione egualitaria nel mondo antico, e si era poi scomposta in interni conflitti anche armati i cui vincitori dell’una e dell’altra parte divennero protagonisti di espansioni coloniali segnate da sconvolgenti infamie.
Tuttavia la generosa speranza che la lotta al comune sfruttamento potesse affratellare i proletari di tutto il mondo naufragò nei parlamenti e nelle trincee della prima guerra detta mondiale ma innanzitutto tra le nazioni allora più avanzate industrialmente e dunque più dotate, ma molto meno in Russia, di vasti settori di classe operaia.
Dove l’appello rivoluzionario si affermò assumendo il nome “comunista” e suscitando uno straordinario moto di lotte e di speranze, dapprima il sanguinoso assedio esterno, e poi la tragica illusione di fondare un ordine nuovo sul partito unico, sulla fine dell’aperta discussione, su dogmi opposti all’originario pensiero critico e imposti con violenza fratricida, minarono alle fondamenta lo Stato che si andava costruendo. Anche se negli scontri in cui contava la compattezza della fede e la forza del mito si erano ottenute grandi vittorie per la società umana, come quelle nella guerra antifascista o nella emancipazione anticoloniale, il declino economico e politico, ben previsto, come si sa, da una grande rivoluzionaria come la Luxemburg, si dimostrò inevitabile, fino al crollo.
Fu, però, un grave errore, di cui oggi si vedono meglio le conseguenze, interpretare quel crollo e la vittoria planetaria del modello capitalistico, sia pure in varietà di assetti politici, come la fine della necessità di una lettura critica della società forgiata dal capitalismo. Ciò che crollava era una deformazione dogmatica di un pensiero ben altrimenti complesso ed esso stesso, come vide Antonio Gramsci, bisognoso di un profondo e continuo ripensamento. Non solo perché l’oggetto della riflessione, cioè ciò che genericamente si chiama “capitalismo”, muta continuamente, come avevano immediatamente avvertito i due giovani autori del Manifesto del partito comunista pensandolo, con ottimistico anticipo, già usabile ai fini della rivoluzione del 1848 allora in atto. Ma anche e soprattutto perché, com’è ovvio, la conoscenza della natura, tra cui quella della specie animale cui apparteniamo, è andata molto avanti ed era ed è illusorio prescinderne come pure avvenne. Ad esempio, l’ispirazione storicista del gruppo dirigente di un grande partito come fu il Pci se fu essenziale per il rifiuto del dogmatismo e per la scelta di una linea politica adeguata ai tempi, portava anche con se l’idea che il pensiero scientifico, ivi comprese le scienze umane, fosse secondo Croce (respinto ma introiettato) un insieme di “pseudo concetti”, cui si sovrapporrà poi dal lato opposto “la scienza non pensa” di Heidegger, ben ascoltato anche da parti della sinistra come il coetaneo Schmitt, anche dopo la loro non fortuita adesione al nazismo. Il ripudio del meccanicismo positivistico che aveva portato alla esaltazione della soggettività – rivoluzionaria come nel giovane Gramsci, ma anche di segno opposto – aveva lasciato lo strascico di una egemonia neoidealistica che segnerà in modo determinante la cultura diffusa nel tempo del fascismo contribuendo al ritardo nello sviluppo del paese.
Anche la profonda lacuna rispetto alla cultura scientifica e alle scienze umane, fece ostacolo a una più chiara conoscenza di ciò che avveniva nella società e tra gli individui che la compongono man mano che l’Italia usciva dall’arretratezza. I mutamenti non erano non solo nel campo economico, con la piena affermazione del capitale finanziario e del sistema manageriale, ma nella formazione degli usi, della consapevolezza collettiva e del ruolo degli individui in conseguenza delle trasformazioni indotte nei processi materiali e mentali dall’espansione dei consumi di massa, dall’avvento dei sistemi di automazione prima e poi dallo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica sino al digitale.
La straordinaria lungimiranza del ben noto frammento marxiano sulle macchine non poteva certo bastare ma avrebbe dovuto stimolare a sinistra non solo l’ammirazione per il vecchio maestro, ma un ascolto delle abbondanti ricerche contemporanee intorno alle conseguenze di quelle trasformazioni. Al contrario nella maggioranza della sinistra non ci fu né ammirazione per la lezione antica né ascolto di quelle nuove. Ci si liberò di quello che venne ritenuto un fardello pesante e dannoso o comunque inutile assieme ai Blair e agli Schroeder, inseguendo il centro, sprezzando Keynes e scoprendo Friedman, con le conseguenze che si videro nel 2008.
Veniva e viene da lontano l’idea che la finalità degli attori politici sia la conquista del potere o almeno del governo ma questa finalità diviene insensata se la si intende come un valore in se medesima separandola dai motivi per cui la si persegue. Tra l’altro, si deve sapere entro quali condizioni l’accesso al governo è consentito in un paese, occupato da basi atomiche americane, che fu a democrazia controllata dalle grandi potenze ed è oggi in altra forma non meno duramente seguito. La clausola ad excludendum parve cadere con la scomparsa del Pci, ma non dimentichiamo che l’unico presidente del Consiglio che era ormai solo un ex-comunista fu accettato in quanto doveva fare, come fece, la guerra alla Serbia. Pur se siamo in Europa, il pellegrinaggio a Washington è considerato obbligatorio. L’azione per l’autonomia del paese e dell’Europa è pienamente attuale, come si vede anche in questi giorni.
Relativamente parlando la destra ha meno bisogno di definire i suoi scopi che sono iscritti nella tradizione e giustificati uno per uno: dalla ricchezza alla povertà, dalla malavita all’ordine poliziesco, dalla avidità alla carità. Soprattutto, però, la sinistra, restringendosi alla pur decisiva questione proprietaria, lasciava all’avversario il riconoscimento del desiderio, cioè l’individuo, e del bisogno di scelta, cioè la libertà. Mentre la parte riformista consapevole di questo errore, reso evidente dall’esperienza statale sovietica, accettava il primato dell’individuo e della libertà come li trovava dentro la società data. Se al tempo della nascita del movimento socialista si bollava la libertà borghese come la libertà di morire di fame per i subalterni, quando finì la fame, o fu trasferita nei paesi poveri, la discussione su cosa abbia da essere la concezione della libertà e dell’individuo rimaneva confinata a qualche settore specialistico, più ampio nel campo cristiano e cattolico. Non è un caso il fatto che l’attuale pontefice sia rimasto quasi da solo a deplorare i mercanti di guerra, gli avvelenatori del clima, gli adoratori del profitto a spese degli altri, sino a sostenere come subordinato a più alte norme il diritto alla proprietà.
C’è stata una confusione tra la laicità dello Stato e la laicità delle parti politiche in lizza. La laicità dello stato comporta la sua neutralità tra le tesi in campo, ma pur sempre entro i confini determinati dal patto costituzionale (ad esempio l’antifascismo, il fondamento sul lavoro, eccetera). La laicità dei partiti, dentro il medesimo patto, è la scelta tra le diverse scelte di fondo o marginali possibili secondo la propria ispirazione etica. La sinistra o ha una sua precisa collocazione morale o non è niente. Possono ben esserci filosofie diverse entro un partito (come fu anche nel Pci) ma non può esserci una doppia eticità. La sua concezione della libertà non può essere quella della lotta di tutti contro tutti per l’affermazione del più violento o del più furbo o del più ricco. Che questa lotta possa esserci è un dato di fatto, ma che ci si debba battere per un’altra concezione della libertà come libertà solidale dovrebbe essere una scelta ferma e coerente. Che la società continui ad essere sommamente ineguale e ingiusta è un dato, che ci si debba battere per l’uguaglianza nei fatti e per la giustizia sociale dovrebbe essere un dovere.
Il che non implica affatto diventare, come si sarebbe detto una volta, delle “anime belle” che affermano dei principi e se ne infischiano della loro attuazione. Fa parte di una scelta eticamente consapevole l’occuparsi al governo o all’opposizione con conoscenza rigorosa delle questioni di cui si parla e che volta a volta vanno affrontate per poter far prevalere un punto di vista che si consideri giusto. L’economicismo fu, ma rimane, un errore a sinistra. Tanto che non vi fu nuova visione culturale che nascesse entro l’ambito delle culture dette di sinistra nel secolo passato. Il nuovo femminismo o l’ecologismo, per fare due rilevantissimi esempi, nacquero fuori e in parte contro le sinistre tradizionali. Ma temo che oggi la situazione non sia mutata dinnanzi ai nuovi problemi che avanzano. Lo studio, la conoscenza, l’impegno sui temi posti dal digitale e dall’intelligenza artificiale mi sembrano assai lontani dal campo delle sinistre tutte. Ci si trova di fronte al capitale finanziario, ma temo che si sappia poco del funzionamento reale dei meccanismi finanziari, su chi vi lavora e su chi decide. Viviamo entro una società di mercato, ma temo scarseggino le nozioni sulle condizioni produttive e della distribuzione, sul mercato delle merci nella grande scala e in quella più minuta, sui problemi e sui guai degli onesti rispetto ai trafficanti disonesti o alla mano criminosa. Vedo che la discussione su tattiche più o meno scontate fa aggio sulla discussione intorno ai problemi della società.
Ma ci sono lezioni antiche che non vanno ignorate e sono invece sepolte. Gramsci insegnava che il partito doveva essere concepito come parte della classe operaia, non sopra di essa. Una forza di sinistra deve essere parte delle classi lavoratrici, non allontanarsi o peggio considerarle inesistenti, confuse con un generico popolo televisivo. Che questo popolo esista è certo vero. Ma ciò non elimina l’esistenza delle classi sociali e i problemi dei “penultimi” e degli “ultimi”. Prima di ogni altra cosa vengono l’interesse, la vicinanza, la partecipazione ai loro travagli, alle loro necessità, alle loro speranze. In ciò è il fondamento di un’etica da ricostruire.
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