Paolo Pietrangeli e la TV in ascoltodi Valdo Gamberutti
Ricordandolo, si è scritto che – tra le altre cose: canzoni, libri, film – Paolo Pietrangeli aveva “fatto la televisione” per molti anni.
Ma è stato detto poco, o per niente, come l’avesse fatta, la televisione.
Forse perché irrimediabilmente domestici, i programmi televisivi – specie quelli a cadenza quotidiana, a lungo praticati da Pietrangeli – si offrono bene alla rimozione in blocco, alla cancellazione istantanea.
Si fanno, si vedono, si dimenticano.
E nella velocità del rapporto con chi guarda, in una prassi da digestione rapida, c’è anche l’elastica virtù propria del mezzo, autoalimentata sportivamente dai suoi stessi artefici (“La TV bisogna farla presto e male”, chiosava Gianni Boncompagni, anche lui praticone dei programmi quotidiani).
Pietrangeli aveva così inquadrato il suo lavoro di regista per il piccolo schermo: “Nel cinema, anche il più scrauso dei registi è il dominus, il padreterno; in televisione è un tecnico o poco più. È su quel poco più che si gioca la partita”.
E il poco più su cui ha giocato Pietrangeli è l’ascolto.
Per essere precisi: il piano d’ascolto.
Ovvero: l’immagine, la faccia, l’espressione di chi – ad esempio durante un talk show – non parla ma sente gli altri parlare.
È attento o si distrae. Ride o arriccia le labbra. Sgrana gli occhi o li fissa su un punto.
Reagisce, insomma, raccogliendo le idee per una risposta, trattenendo la tensione, commuovendosi o sbilanciandosi in avanti.
Un essere umano che ascolta racconta sempre qualcosa.
Mentre chi parla, spesso, non racconta niente.
È questa la non piccola e sistematica intuizione della regia televisiva di Pietrangeli.
Chiamiamolo pure: lo stile.
Aspettare, prevedere e, quindi – di nuovo – ascoltare.
La forma del Maurizio Costanzo Show – da lui diretto per oltre vent’anni – si è e costruita, puntata dopo puntata, attraverso il suo occhio: il suo personale modo di staccare le camere, creando, grazie alla scelta di non inquadrare (necessariamente) chi parla, uno slittamento, una sfasatura persistente.
E, in maniera indissolubile, quell’occhio e quel modo, hanno orientato e fissato anche il contenuto del programma.
La conduzione di Costanzo, appollaiato sullo sgabello accanto – quasi dietro – agli ospiti, vigile e sornione, tra un silenzio e un ammicco, una domanda accennata e un rimbrotto, trovava in Pietrangeli la sponda precisa, la risoluzione perfetta.
Dalla sua postazione, Pietrangeli anticipava le mosse, suggerendo nuovi percorsi possibili, sviluppi, rilanci.
Lavorando di sbieco – come il suo conduttore – coglieva il vorticoso incrocio dei non detti, “pescando” sui volti e sui corpi ciò che il linguaggio verbale non sapeva, o non poteva, restituire.
La tessitura parallela delle intenzioni – nascoste od esplicite – dei partecipanti, creava lo spettacolo.
Uno spettacolo dell’ascolto.
L’opposto speculare – se ci si pensa – del talk show comunemente inteso.
Che è, alla lettera, lo spettacolo della parola.
Ecco, nello spostamento di asse, di fuoco, di campo (tecnicamente: un controcampo), inciso da Pietrangeli nella sostanza della TV della chiacchera, c’è l’impronta di una presa di posizione, dettata dal gusto, dall’istinto, e da una storia personale che, anche dal margine, non riusciva a non manifestarsi.
L’imperio dell’immediato accoglieva il senso di una mediazione continua.
L’altro (quello che tace, quello che attende) conquistava spazio, neutralizzando con il solo – insistito – mostrarsi, l’eccesso del “detto” e del “contraddetto”.
Chi stava zitto, o si preparava a parlare, aveva maggiore forza, interesse, momento, rispetto a chi non smetteva di farlo: se non è una tacita, ma evidente, ribellione a delle regole imposte, senza dubbio si tratta di un seme gettato con finta casualità, con accorta noncuranza.
All’interno dell’infinita galleria di volti muti e protesi, fermati in movimento da Pietrangeli – nell’atto necessario dell’ascolto – si annida la volontà testarda di una visione diversa.
Qui il PDF
I suoi «racconti» hanno camminato la cittàdi Alberto Olivetti, uscito su “il manifesto” del 23.11.2021.
Al pensiero della nostra adolescenza, ecco i luoghi di una Roma inspiegabilmente silenziosa, un fondale incantato dalle tinte luminosamente tenui, dove i rossi si stemperano nei rosa; i verdi dei pini di Villa Massimo si fanno più delicati e leggeri con un effetto di erba novella, misteriosamente.
E quei gialli carichi degli intonaci di certi palazzi son divenuti pallidi, mentre attraversiamo le consuete strade per raggiungere puntuali, la mattina presto, i regolari volumi bianchi dell’architettura del Giulio Cesare, il nostro liceo, quelle pareti che fan da quinta alle villette cariche di glicine di piazza Caprera e che, affacciandosi su corso Trieste, guardano la torretta di una villa dove, ad encausto, la decorazione mostra un corteo rinascimentale. Un’ora senza rumori e d’una luce chiara. Via delle Isole imboccata da Villa Paganini in lieve pendio che scende, e siamo a via Traù.
M’abbandono a tener dietro al flusso dell’emozione e sono preso dallo stupore per come mi si accosta nella mente l’amico spirato poche ore fa. Rammentava Paolo alcune settimane or sono, al Circolo Arci di Pietralata, certi episodi di quei nostri anni di allora, io che mi apprestavo a dire del suo romanzo appena stampato Tremagi e il rasoio di Occam, e lui, prima di cantare due, tre suoi pezzi e controllare, non senza sforzo, la sua voce e modularla, nel ritmo scandito delle parole, con sapienza. Le parole. Non diceva che le sue canzoni erano racconti? I racconti del mio amico intelligente, colto, delicato che velava la dolcezza tenace del sentimento che ci lega nell’accordo delle idee e delle opinioni condivise o messe in dubbio, come nel gioco delle parole spiritose che danno in un sorriso; o in certi accostamenti buffi casi, combinazioni, rime, battute, personaggi che muovono al riso. Paolo sa ridere.
E saper ridere è arte concessa a pochi. Mi rileggo. Incontro sopra quel: e siamo a via Traù e un riso mi sale spontaneo, non contenibile e lo vedo, lo stesso mio riso, tra la barba di Paolo e la sua bocca, che ha dovuto togliere la pipa e un po’ di fumo n’esce. E siamo a via Traù impone il seguito entro una frase musicale divertita e una rima che non ci sarà difficile, ridendo, escogitare.
Non trattengo il riso, ma contengo il pianto. E scrivo come sospinto da onde che sono un affiorare di volti, molti dei quali intorno ancora dopo tanti anni, ma qui, nel movimento dei miei pensieri, giovani nella bellezza a tutti comune dei vent’anni, il viso suo di Paolo e il mio, come anche Paolo se lo ricorda.
Ci ritroviamo mentre ci risuonano ora dentro le voci di quelle assemblee nell’aula magna della nostra Facoltà di Lettere e Filosofia e di quei cortei fino a via Veneto e a piazza del Popolo. E restar fermi nella loro formulazione questioni e tesi e canti. Come quando si cantava le monde va changer de base e le note de L’Internazionale parevano salire fino a posarsi sugli attici degli antichi palazzi di Roma per applaudirci, di lassù anche loro, che siamo ora noi, qui, vedete, che lo cambiamo il mondo, in questamattina di primavera. Davvero.
Anche le sue canzoni han camminato le città, incedendo per prender parte alle grandi manifestazioni in cui si mirava ad un’Italia più giusta e più felice. Altre raccontano in musiche risentite vicende disentimenti dispari e passioni. Altre procedono con passo leggero animate da motivi cantabili che senti arrivare, come da certe lontane orchestrine a notte, dal varietà o da qualche circo di fuorivia. E sono ironiche, pungenti, allegre.
Il video dell’incontro “Roma parole e musica di Paolo Pietrangeli. Seconda voce Alberto Olivetti”, realizzato il 26 giugno 2017 nell’ambito delle iniziative del Laboratorio Roma, promosse dal CRS.
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