Gli interessi dei risparmiatori e quelli dei lavoratori sono sempre più spesso divergenti. Quella che chiamiamo “finanza” è la forma con la quale si manifestano gli interessi dei risparmiatori, quelli molto ricchi quanto quelli che depositano il loro piccolo gruzzolo di decine di migliaia di euro in conti correnti, nelle assicurazioni, fondi pensione o di investimento. Dal punto di vista numerico lavoratori e risparmiatori più o meno si equivalgono e in molti casi si sovrappongono. Dal punto di vista generazionale invece, i due insiemi sono ben distinti: lo spartiacque è tra giovani e anziani, con una netta mediana intorno ai 55 anni.
In assenza di una soluzione e persino di una discussione esplicita per la composizione di interessi tanto divergenti, le grandi crisi industriali sono il laboratorio dove si ridefiniscono i rapporti di forza.
Il caso TIM è un esempio attuale, tra tanti. C’è un intero comparto industriale, quello delle telecomunicazioni, che è passato in soli due decenni da essere il re leone della borsa a mucca da mungere per estrarre non profitti, ma interessi sul debito.
La finanza, cioè i risparmiatori, stanno spostando i loro investimenti da questo tipo di imprese (le tlc, ma anche giornali, motori a scoppio, ecc.) a imprese che raccolgono dati, li elaborano e promettono di trasformarli in valore; promessa sinora mantenuta. I risparmiatori che hanno spostato i loro gruzzolo seguendo l’onda, lo hanno difeso e incrementato; gli altri ci hanno rimesso; ma il saldo è positivo, nonostante la burrasca dopo il 2007. Anche il sistema bancario sinora ha retto, sostenuto dagli interessi sul debito dei vecchi comparti industriali e degli Stati nazionali (o anche sovranazionali, si veda il Next generation EU).
Non può dirsi lo stesso per la valorizzazione del lavoro, in termini di addetti e di monte salari. Anzi, la finanza ha stabilito una correlazione inversa tra occupazione e valore dell’impresa. Raccomanda di comprare azioni delle aziende che riducono gli occupati; non nega l’esigenza di ammortizzatori sociali, purché esterni al bilancio d’impresa.
Questo copione si ripete da anni e in molti paesi e crisi aziendali: piccoli danni per le banche e per gli azionisti; forte riduzione del perimetro del lavoro. Il conflitto di classe (e generazionale) ha un chiaro vincitore.
Anche sul caso TIM: dovessi scommettere, non avrei dubbi.
Quelli che continuano a pensare che questo non è il migliore dei mondi possibili, dovrebbero prendere atto dei rapporti di forza. Si non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum. In una recente intervista il segretario della CGIL si è rivolto alla principale potenza finanziaria del paese, le famiglie titolari di 10mila miliardi di patrimonio privato; al netto degli immobili, 4mila miliardi di sola ricchezza finanziara. La ricchezza totale è otto volte superiore alla somma di tutti i redditi da lavoro, un rapporto in Italia più sbilanciato che nel resto del mondo. Per chi non ha dimestichezza con i capitali a dodici zeri, basti dire che la sola ricchezza finanziaria degli italiani, al netto di quella immobiliare, sarebbe il terzo fondo di investimento del mondo, dopo BlackRock e Vanguard AM.
Landini non è il primo a essere arrivato al portafoglio vicino al cuore della questione. In ambienti universitari o finanziari sono state avanzate le proposte più disparate per utilizzare al meglio quell’enorme stock di risparmio privato.
Tutti sanno che la stabilità italiana si fonda sulle proprietà e sui risparmi delle famiglie, che è il vero motivo per cui l’Europa e i mercati non hanno sinora avuto paura a prestarci quello che ci ha già dato la BCE e quello che ci verrà dato per finanziare il PNRR: gli italiani sono (insieme ai giapponesi) i debitori più solvibili del mondo e hanno affidato il loro governo a un romano settantacinquenne che è considerato il miglior banchiere del mondo. Per fare cosa?
In assenza di un confronto tra opzioni politiche alternative, rinviato nella migliore delle ipotesi alla campagna elettorale, il confronto tra risparmio e lavoro avviene nella gestione delle grandi crisi aziendali: Alitalia, Ilva, TIM e tante altre presenti e future.
Alcuni di questi casi sono già compromessi, altri forse no.
Torniamo all’esempio di TIM, non solo per le sue dimensioni e attualità, ma perché è l’impresa privata che mantiene rapporti diretti o indiretti con il maggior numero di famiglie italiane, la quasi totalità. Basterebbe l’1% del solo risparmio finanziario delle famiglie, per comprare l’azienda e azzerare il debito. Ma chi osa dire che si tratterebbe di un buon investimento? I risparmiatori postali (sono oltre 6 milioni), tramite la Cassa depositi e prestiti, hanno già investito oltre un miliardo in TIM, rimettendocene una metà in pochi anni. Non è questione di manager tutti incapaci: ormai non è proprio possibile fondare un modello di business sull’affitto di servizi di rete a prezzo crescente. Il valore si è spostato sopra la rete e lo hanno catturato i grandi “Over The Top”; né è possibile ormai inseguire gli OTT nell’invenzione di servizi basati sulla estrazione di dati.
Troppo piccoli, troppo tardi: soprattutto troppo ignoranti riguardo alle informazioni sul comportamento passato e prevedibile degli esseri umani. C’è una asimmetria informativa incolmabile tra le grandi imprese “sopra la rete” e chiunque voglia competere con loro. Quindi i mercati finanziari hanno già deciso su dove mettere i soldi e non cambieranno la loro decisione. Non si può competere con chi dispone di un capitale illimitato. Game over?
In questo articolo affrontiamo il problema da punto di vista finanziario, che è il più noioso, ma non il meno importante. Torniamo a quei 4mila miliardi di risparmio finanziario delle famiglie più 6mila miliardi di proprietà in mattoni. Questi due insiemi vengono spesso trattati separatamente, perché rispondono a diverse esigenze psicologiche delle persone. Proviamo invece a vedere la struttura che connette il valore d’uso e il valore di scambio degli immobili.
Il valore di una casa è interdipendente con quella del territorio, anzi dei suoi territori che formano cerchi concentrici: condominio, quartiere, municipio, metropoli, regione e via ad allargare il raggio.
Chiediamo ai risparmiatori se intendono destinare parte del loro risparmio al loro territorio, ricavandone anche un titolo proprietario, millesimale, talvolta milionesimale.
Non è una idea nuova. Interessanti proposte sono nate in ambiente universitario, quali la emissione di bond collegati a piani di rigenerazione urbana. Esistono casi all’estero, che vanno studiati, ma non possono essere copiati, perché il valore del territorio è la sua unicità.
Esistono persino precedenti in Italia. I BOC, buoni ordinari comunali e regionali istituiti con la Legge 724/1994, sono rapidamente scomparsi dal mercato per il disinteresse dei risparmiatori che si ritrovavano per le mani titoli difficilmente scambiabili o monetizzabili. Per attrarre il risparmio delle famiglie non basta chiamare al risanamento della propria città: ai mercati occorre raccontare storie credibili con linguaggio comprensibile e presentare piani industriali con numeri controllabili.
La trasformazione dei territori sotto la spinta della transizione ecologica e del digitale è una bella storia da raccontare ai mercati. La racconta Microsoft quando vende le migliori soluzioni di smart city; la racconta Huawey quando vende la migliore rete 5G, che consente l’arbitraggio tra l’internet delle cose e l’internet delle persone; la racconta Meta, che invita a scommettere su un meta-verso che comprende l’universo dei territori.
La nostra storia, se ne siamo capaci, deve essere almeno altrettanto bella e convincente, anche per i mercati.
Evitiamo le scorciatoie. Il nostro punto di forza non sono le istituzioni pubbliche: esecutivo e giudiziario devono essere processi prevedibili non soggetti a improvvisi cambi di traiettoria; il legislativo oggi è quello che è. Il nostro punto di forza possono essere le politiche industriali, perché sono il luogo dove si confronta il capitale e il lavoro.
In apparenza le imprese sono comunità gerarchiche: i lavoratori ubbidiscono ai comandi dei dirigenti che ubbidiscono alle decisioni degli azionisti. In realtà le relazioni industriali non sono mai così schematiche, soprattutto quando emergono crisi aziendali.
Quando dopo ripetuti profit warning una impresa inizia ad affondare, il cambio di traiettoria è doveroso. Per uscire dal generico, senza invocare il famoso e fumoso nuovo modello di sviluppo, occupiamoci di ogni singola impresa dentro il suo comparto industriale.
Torniamo all’esempio di TIM, non per i soli addetti ai lavori. L’unico grande piano industriale in grado di mobilitare i capitali necessari e sufficienti è la messa in sicurezza e la valorizzazione dei territori, con un uso delle reti e del digitale.
Si tratta di dispiegare e manutenere centinaia di milioni di sensori, cavi, antenne collocati nelle case, nelle strade, ponti, acquedotti e tutto quanto sarà coinvolto dall’internet delle cose; si tratta di avere accesso ai dati generati, di elaborarli, di sviluppare e brevettare specifiche soluzioni di intelligenza artificiale adatte ai territori. La conoscenza crea valore e nel prossimo decennio i dati generati dal territorio saranno molto più numerosi di quelli generati dalle persone.
In un precedente articolo abbiamo proposto una Società pubblica della rete intelligente che assorbe gran parte delle attività, del personale e del debito di TIM e che diventa partner tecnologico dei piani di rigenerazione territoriale.
Cassa depositi e prestiti detiene già una quota in TIM, in Open Fiber, in alcune società che gestiscono tower company e altre infrastrutture. Accanto a una quota pubblica di controllo, accanto a eventuali investitori privati, la nuova Società pubblica della rete intelligente può essere capitalizzata da bond locali riservati alle famiglie direttamente o indirettamente toccate delle reti, ciascuna delle quali può scegliere la ripartizione a livello territoriale del suo investimento: municipale, regionale o anche indirizzato singoli di progetti di rigenerazione territoriale. Detto con uno slogan: l’investitore ci guadagna due volte, come valore d’uso e come valore di scambio, perché Il titolo proprietario è convertibile e scambiabile. Il terminale di rete collocato nell’abitazione, crea la percezione fisica di una proprietà che si estende dalla casa al territorio.
Chiudo qui la parte finanziaria, che altri possono costruire meglio di me. Aggiungo solo il vincolo, che mi sembra indispensabile, che il piano deve partire da saldi occupazionali positivi: più nuovi assunti che esuberi.
I lavoratori devono entrare nella progettazione di questo piano industriale, sia perché portatori di conoscenze specifiche, sia perché in futuro la possibilità di finanziare il piano sarà comunque soggetta all’andamento del valore di mercato del bond.
Infine ricordiamoci che la componente finanziaria non è la parte più difficile del Piano per il territorio intelligente. Il piano industriale è più difficile; ci sono anche difficoltà tecniche nel coordinare le reti attuali e poi nel coordinare diversi piani territoriali. C’è il rischio che alcuni territori siano più finanziati di altri e persino il rischio costituzionale che il cittadino investitore abbia più peso nelle decisioni pubbliche del cittadino che non ha voluto o potuto investire.
Non conosco però dei piani per uscire dalla crisi di TIM (e di altri comparti industriali) che presentino minori rischi e maggiori probabilità di successo.
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